C’è sempre qualcuno che sta più a nord

Questa non è roba mia, ma è un estratto di un libro, credo, di Gian Antonio Stella. L’ho riportato qui perché finché esisterà questo blog e qualcuno avrà la bontà a la pazienza di leggere quest’articolo, ci sia, spero, anche una memoria attiva. Buona lettura.

Alla borsa di Zurigo la quotazione di Attilio Tonola era di due cigni e sedici merli. Lo stabilì il tribunale di Coria, che diede al più feroce dei suoi assassini due anni di galera. Una condanna che ebbe sui giornali svizzeri molto meno spazio e sollevò meno scandalo della notizia che certi italiani pazzi di fame, e ignari di quanto quella carne facesse schifo, si erano mangiati come un cappone il cigno di un parco. Gesto indegno ripetuto da altri tschingge (così erano chiamati i nostri: dal suono che faceva alle orecchie elvetiche il grido cinq!: lanciato dai giocatori di morra) con lo spiedino non meno immangiabile di tre merli. Crudeltà punite dai giudici locali rispettivamente con quattro e con tre mesi di carcere.
Era il 1° marzo 1969, quando si svolse il processo. Gli imputati erano un manesco elettricista, e due fratelli: Joseph e Armin Schmid. Li accusarono d’aver ammazzato Tonola, un tranquillo operaio valtellinese di Villa Chiavenna, sposato e padre di quattro bambini, massacrandolo di botte e urlando “caiba cincali!”. Un insulto in dialetto intraducibile che significava più o meno “lurido bastardo italiano” e veniva come tschingge dal gioco della morra.
Congiurava tutto, contro i tre razzisti. Avevano ucciso con le aggravanti dei motivi ignobili e di essere stati totalmente ubriachi dopo una serata passata a bere per festeggiare il compleanno di Armin. Avevano passato precedenti penali per reati di vario genere compresa, nel caso di Armin, una tentata evasione dal penitenziario di Celerina, nei Grigioni. Avevano cercato, prima di andarsene a dormire, di sbarazzarsi del corpo trascinandolo in un garage dove l’Attilio, avrebbe accertato l’autopsia, era morto soffocato dal sangue colato in gola dalle ferite che gli avevano inferto, già a terra, prendendolo a calci in faccia con gli stivali. Congiurava tutto meno un dettaglio: loro erano svizzeri, il morto italiano.
Durò due giorni, il processo. Due giorni. I giornalisti gli dedicarono poche righe. Il dibattimento si svolse senza che mai venisse nominata la parola xenofobia nonostante i tre si fossero allontanati barcollando dopo il pestaggio bofonchiando ancora “caiba cincali!”. L’aggressione (si sa che gli italiani sono attaccabrighe…) fu derubricata in rissa. L’occultamento di cadavere o almeno l’omissione di soccorso sparirono davanti a una spiegazione ridicola presa per buona: “Era ancora vivo, l’abbiamo posto al riparo, faceva freddo e non volevamo lasciarlo in strada”. E per finire il pubblico ministero, cosa mai vista al mondo in una causa per omicidio, rinunciò alla replica dopo le arringhe dei difensori. Sentenza: 2 anni a Bernard Sgrutter, 15 mesi a Joseph Schimd e assoluzione per suo fratello Armin.
Un verdetto vergognoso, seguito dal rifiuto dell’istituto nazionale svizzero di assicurazione di pagare un solo franco (se fu una rissa non fu un omicidio) alla vedova e ai quattro bambini del poveretto. Ma niente affatto isolato. Tre anni prima, nel 1966, il tribunale di Araau aveva condannato per omicidio premeditato (ripeto: premeditato) un falegname, Kurt Haeberle, che aveva confessato d’aver ucciso a martellate l’operaio Vincenzo Rossi e di averlo poi buttato dentro un altoforno: 6 anni. Tre anni dopo, nel 1972 quello di Briga avrebbe giudicato con la stessa “imparzialità” la strage di Mattmark. Ricordate? 88 operai, quasi tutti stranieri di cui 55 italiani, che avevano lavorato in un cantiere sotto il ghiacciaio dell’Allalin, rimasero sepolti il 30 agosto 1965 da una gigantesca frana. Si accertò che il ghiacciaio aveva già dato evidentissimi segni di smottamento. Che i responsabili del cantiere lo sapevano. Che ciò non li aveva dissuasi dal fare costruire dei baraccamenti proprio sotto la linea di caduta. Che non avevano previsto alcun servizio di monitoraggio per controllare se per caso un pezzo di montagna si fosse mossa. Eppure il pubblico ministero, pur accusando del disastro 17 persone, fu clemente: non solo rinunciò a chiedere ogni forma di pena detentiva (che per omicidio collettivo prevedeva fino a tre anni), ma propose per tutti multe dieci volte inferiori a quelle fissate a quelle fissate dal codice. Uno schifo. Superato dalla sentenza: tutti assolti e spese processuali a carico dello Stato. Il capolavoro, però, doveva ancora venire. E sarebbe arrivato appunto nell’ottobre 1972 col verdetto d’appello: tutti assolti e spese per metà a carico dei parenti dei morti. Imparassero a non rompere le scatole.
Tutto rimosso, abbiamo. Tutto cancellato. Sepolto.
Come la strage del 1875 a Goeschenen raccontata dal giornalista Remo Griglié in una storia della costruzione della galleria del San Gottardo rimasta sciaguratamente inedita. Storia segnata da un’ecatombe tra gl’italiani che costituivano il 90% degli operai: 144 furono ammazzati dalle esplosioni di dinamite o dai crolli, altre decine da una serie di malattie, prime fra tutte le infezioni intestinali, dovute alle condizioni di lavoro. “In galleria faceva un caldo torrido” racconta Griglié. “A causa dei gas scaturiti dallo scoppio di una volata di mine si respirava a fatica. E forse quel giorno non funzionavano a pieno ritmo i ventilatori aspiranti. A un certo punto, pare in seguito agli ordini impartiti con contorno di ingiurie da un capo squadra molto duro che intimava ad accelerare il ritmo per la rimozione del materiale scavato, alcuni operai buttarono le pale. “Ora basta – presero a urlare – Smettiamola”. E presero la corsa in direzione dell’uscita. Si formò così un gruppo di fuggiaschi che via via andò a ingrossarsi sino a raggiungere la consistenza di un’ottantina di uomini. L’uscita però era lontana; perché vi erano da percorrere quattro o cinque chilometri di tunnel appena abbozzato, lungo il quale lavoravano i rifinitori. Questi, vedendo i fuggiaschi, pensarono allo scoppio imminente per qualche “mina gravida” e a loro volta corsero via terrorizzati”. Era il 27 luglio.
“Nel volgere di mezzo’ora tutti cessarono di lavorare e uscirono. Così presso l’imbocco di Goeschenen si formò un assembramento di uomini molto agitati, collerici, esasperati. E forse già timorosi delle conseguenze che sarebbero arrivate dall’abbandono collettivo del lavoro.” Fu solo nel tardo pomeriggio che il direttore dei lavori, l’ingegner Ernst Der Stockalper, ricevette una delegazione dei minatori. “Ascoltò le confuse e balbettanti lamentele sul clima, sull’aria irrespirabile, sui ritmi forzati di lavoro, sulle paghe inadeguate. “Avete ragione. Qui la vita è dura e probabilmente ingiusta. Chi non se la sente di continuare non ha che da andarsene. Passi dalla cassa e sarà liquidato. Chi, invece, desidera continuare a lavorare con noi, torni subito al suo posto. Subito”. Girò i tacchi e uscì dalla stanza”.
Ormai si era fatto buio. Furenti per la risposta sprezzante, i minatori decisero di entrare in sciopero e di picchettare l’ingresso della galleria. Visto come buttava, l’ingegnere non perse tempo. E spedì un telegramma alla direzione della società, ad Altdorf: “I minatori sono in sciopero e bloccano i lavori. Mandare 50 uomini armati e franchi 30.000”. I soldi dovevano servire forse per liquidare gli operai costretti ad andarsene, forse per pagare le spie tra i manifestanti. A cosa servissero i fucili, invece, si sarebbe visto il giorno dopo.
La notte passò senza incidenti. Bastonati dal vino e dalla fatica, i minatori si misero a dormire. E dormirono fino a tardi. Quando si svegliarono, a metà mattinata del 28 luglio, un certo sergente Troesch, “una specie di sceriffo privato, era già al lavor

o giù ad Altdorf, allo sbocco della vallata del Reuss, per raccogliere in giro per le osterie un po’ di mercenari disposti per dieci franchi al giorno a dare una lezione agl’italiani. Una decina ne trovò lì, un’altra lungo la strada a Wassen dove lavoravano molti austriaci del Voralberg molto ostili verso i nostri emigrati, un’altra ancora all’arrivo a Goeschenen. Trenta persone in tutto, armate con fucili Milbank – Amsler nuovi fammianti, comperati “precauzionalmente” prima ancora che cominciassero i lavori al traforo, e dieci cartucce a testa”.
Alle dieci di sera, la soldataglia arruolata dalla società si mosse. E marciò verso la piazza dov’era l’ufficio postale, che era un po’ il punto di riferimento degli immigrati. Tutti gli operai come avrebbe dimostrato l’inchiesta, erano disarmati. Appena videro quella “truppa dei padroni” arrivare, cominciarono a tirar addosso dei sassi. La risposta fu terribile: fuoco a volontà. Per cinque, sei minuti. Un inferno. Quando fu tutto finito, le luci delle lanterne illuminarono i corpi di 4 minatori morti e altri 10 feriti gravemente. Il giorno dopo, rimossi i cadaveri e licenziati 80 operai, i lavori riprendevano. Tra le ironie del Basler Nachrichten, un giornale di Basilea che irridendo ai poveretti in fuga sotto le pallottole degli assassini, scrisse: “L’italiano è molto spavaldo quando tiene lui il pugnale in mano. Ma diventa molto incerto non appena si trova di fronte la forza”.
Tutto rimosso. Cancellato. Sepolto. Come i cartelli affissi per decenni, fino agli anni Settanta del Novecento, sulle vetrine di bar e ristoranti. “Vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”. Come i sondaggi che vedevano il 76%, che oggi hanno radicalmente cambiato idea, considerare “assolutamente negativa” la nostra immigrazione. O come la sentenza che nel 1974, l’anno in cui Claudio Baglioni cantava “E tu” Mario Ponticelli girava Romanzo Popolare e Pippo Baudo faceva Senza Rete, vide il tribunale di Zurigo chiudere in una sola udienza (una!!) il processo Gerhard “Gerry” Schwitzgebel, un balordo altro due metri e pesante 130 chili che nel 1971 aveva ammazzato a pugni e calci un bellunese, Alfredo Cardini, venuto a cercar fortuna nella dolce Helvetia lasciando a Cortina d’Ampezzo la moglie e un figlioletto.
Era asfissiato dalla malinconia, quella sera, Cardini. Aveva bevuto, camminato per ore e ore nella notte, bisticciato con una prostituta tedesca, vomitato e pianto. Finchè era finito, alle cinque di mattina, in un caffè che non sapeva avere una pessima fama. “Gerry” l’aveva visto entrare e l’aveva preso di punta. Un insulto buttato là, una risposta brusca. Il colosso gli era piombato addosso e l’aveva fatto a pezzi. Quindi l’aveva sollevato come uno straccio e, con l’aiuto di altri avventori, l’aveva buttato in mezzo fuori, sul marciapiede. Lasciandolo agonizzare lì, nella neve, per due ore. Senza che uno solo dei clienti che andavano e venivano si chinasse a vedere. All’arrivo dell’ambulanza era già morto.
Diciotto mesi: questa fu la condanna per il gigante omicida. Ma solo perché i giudici, come avrebbe spiegato il Corriere, lo riconobbero colpevole, oltre che di eccesso colposo di legittima difesa, anche di furto continuato, violazione della legge sugli stupefacenti e omissione di soccorso. E perché erano intestati a suo nome, negli archivi di polizia, 150 rapporti per reati violenti. Sennò se la sarebbe cavata con meno. Guai a toccargli i merli però, agli svizzeri. Lo dicevano già i regolamenti stabiliti dopo la Grande Caccia all’italiano del 1896. Tre giorni di furia selvaggia che, scatenata dalla morte di un arrotino tedesco ucciso da un italiano (poi condannato a tre mesi perché perfino la magistratura elvetica aveva dovuto riconoscere che si era trattato di legittima difesa dopo un’aggressione), avevano visto migliaia di persone assaltare i bar, i negozi, le case dei nostri emigranti, spaccare le ossa a tutti i malcapitati, attaccare le stazioni di polizia per liberare i più fanatici dei loro che erano stati arrestati, seminare un panico tale da spingere le autorità a organizzare addirittura dei treni speciali per rimpatriare i nostri, terrorizzati.
Die Italiener – Revolt in Zürich fu il titolo dell’opuscolo stampato a ricordo del pogrom. Come se i protagonisti e non le vittime, fossero stati gli italiani. E le nuove norme decise dalla municipalità, in linea con la tesi del sindaco secondo il quale i disordini andavano interpretati come una “esplosione degli offesi sentimenti di diritto della nostra popolazione indigena”, puntarono a regolare la convivenza dettando ai nostri come dovevano comportarsi per non urtare la suscettibilità dei padroni di casa.
Con un secolo di anticipo sul sindaco Giancarlo Gentilini – che dopo aver visto vicino alla stazione di Treviso “decine di negri seduti sulle spallette del ponte e altri extracomunitari sulle panche e conficcare spuntoni nelle spallette così che non “ci potesse più posare un essere umano” – gli indesiderati ospiti vennero messi in riga così: fu vietato calpestare i prati pubblici (art. 30); sostare sui marciapiedi intralciando il passaggio (art. 67); ballare nei locali pubblici senza l’autorizzazione dell’ispettore di polizia se non per sei domeniche l’anno (art. 94); scrivere o disegnare graffiti sulle pareti dei locali o sui muri pubblici (art. 117); bighellonare alticci per la strada (art. 118); tenere bambini nelle osterie o mandarli a elemosinare (art. 120). “In sostanza lo spazio pubblico venne riservato alla circolazione delle merci”, spiega nel suo saggio sul pogrom anti – italiano lo studioso Heinz Looser. “I singoli potevano usufruire di percorsi ristretti”.
Le lagnanze popolari e i rapporti di polizia contro gli italiani, per decenni e decenni, son rimasti quelli illustrati dall’italo – svizzero Peter Manz. Tipo un verbale del 1896: “Il Maulbeerweg e la Isteinerstrasse sono diventati invivibili a causa degli italiani che li frequentano. Non si può più camminare sui marciapiedi dalle sette di sera, quando gl’italiani si accampano e fanno tanto chiasso che non si sente neppure la propria voce”. O la denuncia di un abitante del quartiere Petersberg del 1893: “Gl’italiani tengono le finestre spalancate per tutta la domenica, dal primo mattino fino alla sera. Le loro stanze sono affollate per tutto il giorno. Fanno tutto con le finestre aperte, anche per vestirsi, come i selvaggi. Siedono intonando da mattina a sera canzoni oscene e alcuni giocano a carte sulle note dei loro strumenti d’ottone. La cara domenica ci viene guastata da questo indicibile e vergognoso comportamento. Abbiamo l’impressione di esserci trasferiti in una regione selvaggia”.
La petizione al consiglio di Stato di Basilea del giugno 1901 è una sintesi di tutto. “Le condizioni dei servizi igienici al n. 8 e n. 10 sono preoccupanti. In uno dei caseggiati il gabinetto è guasto e una puzza spaventosa si diffonde in tutto il vicinato. Al n. 8 il gabinetto – horribile dictu – è sostituito da un mastello. Specialmente nella Bartenheimerstrasse si son formati degli accampamenti di massa ed è spaventoso pensare quali conseguenze potrebbe avere lo scoppio di un’epidemia in queste condizioni (…). I giardini di notte spesso vengono danneggiati e i fiori strappati, cosicché è fatica sprecata volerli tenere in ordine”.
E via così. “Nessuna massaia osa più stendere la biancheria in giardino, poiché questa, a causa della vicinanza degli italiani, sparisce. (…) Uomini e donne gironzolano nei giardini e nelle strade rivelando nell’abbigliamento una trascuratezza che supera ogni senso di vergogna. La loro spudoratezza è così grande che alcuni di questi italiani fanno i loro bisogni apertamente per strada, nei giardini o attraverso le finestre (…). Anche da un punto di vista morale le condizioni sono inquietanti. In questi accampamenti di massa vi sono famiglie, donne sole, pensionanti e ospiti per la notte tutti mescolati assieme. (…) Non possiamo permettere ai n

ostri bambini di andare per strada se non vogliamo rischiare che tornino a casa con i pidocchi o altri parassiti presi dagli sporchi bambini italiani. (…) Noi riteniamo che una convivenza fra abitanti civili e questi semiselvaggi alla lunga sia insostenibile”.
Settant’anni dopo, quando si scatena la nuova ondata xenofoba che avrà come “effetti collaterali” gli omicidi e le sentenze di cui ho scritto, tutto è immutabilmente uguale. “Le mie quattro figlie non rincaseranno in compagnia d’Italiani. Le ho ammaestrate troppo bene perché lo facciano”, dichiara il signor Fritz Meier, un costruttore che ha fondato la National Action gegen die Überfremdung von Volk und Heimat, l’Azione nazionale contro l’inforestamento del popolo e della patria. “Versano il vino sulla tovaglia, molestano le cameriere, parlano a voce alta!” barrisce Albert Stocker, un altro leader di Azione Nazionale che verrà emarginato perché troppo fanatico persino per i fanatici. “Non siamo più padroni in casa nostra!” si sfoga il suo successore Rudolf Dinier con Fiorenza Venturini, autrice di Nudi col passaporto. “Gli stranieri dominano in molte fabbriche. E i risultati? Mancanza sempre più grave di alloggi, di letti negli ospedali di personale curante, prezzi alle stelle, speculazioni…” “Per quella gente lì”, spiega alla stessa scrittrice Walter Früh, il comandante della polizia che confida a bassa voce d’esser figlio di una immigrata siciliana, “greci, turchi, ungheresi sono tutti Italiener”.
Per James Schwarzenbach, no. Lui sa distinguerli benissimo. Fa l’editore, fuma la pipa, si compiace di somigliare a Jean – Paul – Sartre, ha scritto un libro sulla Belle Epoque dedicato a “Giovanni Segantini, un italiano dai sentimenti svizzeri” e passa per un raffinato intellettuale. E’ lui, a cavallo tra gli anni Sessanta e i Settanta, che sferra l’attacco più pesante. Tre referendum di fila, per fermare l’”orda degli invasori”. E la prima volta, a fine ottobre del 1969, pur avendo tutti ufficialmente contro sfiora il colpaccio, vincendo in 8 cantoni su 25, prendendo il 46% dei voti, gettando le basi per il futuro trionfo alle politiche del 1971 in cui prenderà 110.000 voti personali. Sforna cartine con l’Italia, la Francia, la Germania e in mezzo, al posto della Svizzera, la “Cosmopolitania”. Pubblica vignette in cui un tizio tira su una forchettata di spaghetti che diventano capi dai quali penzolano tanti omini. Attacca i nostri, in un’intervista data a Maurizio Chierici, perché non sanno stare al loro posto di servi: “Gli italiani sono venuti qui per evitare agli svizzeri i lavori più pesanti: ma ecco che, che dopo due, tre, cinque anni cominciano ad aspirare a posti più comodi, fanno studiare i loro figli. Come dovremmo reagire? Accettare le loro aspirazioni significherebbe due cose: o costringere gli svizzeri meno preparati a fare un passo indietro, o chiamare altra gente dall’estero per sbrigarle, certe incombenze, il che significherebbe inquinare sempre di più le nostre strutture sociali e le nostre tradizioni”. Prego notare il verbo: “inquinare”.
Eppure le leggi elvetiche, in quegli anni, sono già spietate. “I lavoratori italiani in Svizzera sono divisi in tre gruppi: annuali, stagionali e frontalieri”, spiega la rivista Tempo del febbraio 1974 alla vigilia di un nuovo referendum xenofobo. “Gli annuali sono i lavoratori che hanno il diritto, in base all’accordo italo – svizzero del giugno 1972, e a partire dal 1° gennaio di quest’anno, di stabilirsi nella confederazione a patto di aver lavorato per almeno due anni consecutivi nello stesso cantone e nella stessa azienda. Quindici mesi dopo aver ottenuto la qualifica di annuale, l’immigrato può chiamare in Svizzera la famiglia”. Chiaro? Il rapporto è tale che all’inizio non puoi manco passare, se sei bravo e ti offrono di più, dalla ditta Schimd alla ditta Roth: servitù della gleba.
Ma non basta: “L’avvenire dell’immigrato annuale è sottoposto a numerose condizioni: anzitutto è Berna a decidere quanti possono essere gli “stagionali” che diventeranno “annuali”. E soprattutto, per dieci anni dopo la sua promozione da cittadino di serie C a cittadino di serie B, l’immigrato annuale può ancora essere espulso dalla Confederazione se commette qualche reato. Per avere un’idea di quanto sia facile commettere un reato in Svizzera, basta ricordare come tre operai italiani di Zurigo (Nicola Tomasello, Bernardo Tomasello e Antonio Vengari) furono sottoposti nel 1971 a procedura di espulsione per aver fatto uno sciopero simbolico di quindici minuti in memoria di Alfredo Zardin”. Cioè del bellunese ucciso a calci e pugni di cui abbiamo scritto.
Non è finita: “Dopo aver atteso per anni la qualifica di “annuale” (la maggior parte dei lavoratori italiani non riesce ad ottenerla), l’immigrato deve così superare anche questi dieci mesi di buona condotta, durante i quali al minimo sciopero, alla minima protesta, la Fremdenpolizei gli mette le mani addosso. Dopo dieci anni, finita la condizionale, arriva il Niederlassungsbewilligung, cioè il diritto a non essere messo alla porta alla prima infrazione”.
Ma cosa vuol dire, ancora a metà degli anni Settanta “stagionale”? Sembrerebbe indicare lavoratori che vanno in Svizzera per qualche mese a fare la stagione (come in agricoltura o nell’industria alberghiera) e restano a casa, in Italia, il resto dell’anno”, risponde l’intervista.
“Per alcuni è effettivamente così, ma la maggior parte degli stagionali fa una “stagione” di undici mesi, ed è costretta a tornare in Italia per un mese l’anno in modo che non scatti per loro il diritto al permesso di soggiorno annuale”.
Questo permesso infatti “dura undici mesi; allo scadere dell’undicesimo mese, la Fremdenpolizei controlla che il lavoratore straniero se ne vada. Quando tornerà, un mese dopo, potrà strappare solo un nuovo permesso di undici mesi. In base all’accordo italo – svizzero del giugno 1972, lo “stagionale” diventa “annuale” se riesce ad accumulare trentasei mesi di lavoro in quattro anni”. Il che significa che se il quarto anno qualcosa si inceppa o se la Fremdenpolizei si mette di traverso impedendo allo stagionale il diritto al passaggio di grado, questi deve ricominciare da capo. Se invece gli va bene, “lo aspettano i dieci anni di condizionale prima di approdare, ormai anziano, al permesso di residenza. Che garantisce all’immigrato tutti i diritti, tranne quelli politici”. Che se ne farebbe di questi, se in base alla legge del 1936 lo straniero non ha il diritto di prendere la parola in pubblico? Per non parlare delle schedature: 300.000 italiani erano catalogati, negli archivi di polizia. Lo ha raccontato nel 1996 ancora Chierici, sul Corriere. Nessuno, pare, se n’era mai accorto. Unico sospetto: “La posta arrivava con ritardi scandalosi in un paese dove la puntualità resta virtù ambita e, quando arrivava, le buste avevano l’aria sofferta”. Quando il segreto è caduto, Leonardo Zanier, poeta e animatore politico della comunità italiana a Zurigo, si è fatto dare il fascicolo: “11 marzo 1967. Alle 19.35 il soggetto entrava al Ristorante Cirio, Militastrasse 16. In un secondo tavolo riservato lo aspettavano Maria Delfino Bonado e Adriano Molinari. Più tardi arrivava un altro italiano…”.
Eppure, in quegli anni di febbre xenofoba, a James Schwarzenbach tutto questo non basta. Gli stagionali sì, gli stanno benissimo. Come stanno benissimo a quel giornale di Zurigo che prima del referendum del 1974 ironizza: “Volete vedere che a vincere sarà la paura di dover pulire i cessi?” E come stanno benissimo alla grande maggioranza degli svizzeri che ancora nel 1982 voteranno perfino in Ticino contro un minimo di aumento dei diritti di questi precari della vita. Ma lui, che in gioventù è stato nazista e salutava felice la missione delle giovani armate di Hitler e Mussolini di unire l’Europa, vuole di più. Vuole l’espulsione di almeno la metà degli immigrati. E lo dice con to

ni tali da far ribrezzo addirittura a Egidio Sterpa, allora inviato del Corriere della Sera. Tre decenni dopo, il 4 giugno 2002, in un’Italia “inquinata” da un 3% di stranieri, Sterpa darà entusiasta il suo voto di deputato berlusconiano alla legge Bossi – Fini bollata dalla Caritas come gonfia di xenofobia. Ma in quel novembre 1969, in una Svizzera che conta 970.000 stranieri, di cui 630.000 italiani, su 4 milioni e mezzo di abitanti (percentuale di dieci volte superiore alla nostra di oggi: 21%) la posizione di Schwarzenbach pare al nostro bravo giornalista mostruosa. Indignatissimo, lo strapazza: insomma, se non è xenofobo lei, “come si definisce: patriota per caso?”. Titolo del pezzo: “Il crociato del razzismo elvetico”.
Un razzista vero. Che scatenò l’iradiddio, sordo all’insegnamento della celebre frase dello scrittore Max Frisch (“Volevamo braccia, sono arrivati uomini”), contro la richiesta dei nostri emigrati di portare in Svizzera i vecchi genitori, le mogli, i figlioletti: “Sono braccia morte”, scrisse di suo pugno, “che pesano sulle nostre spalle. Che minacciano nello spettoro d’una congiuntura lo stesso benessere dei cittadini svizzeri. Dobbiamo liberarci del fardello. Dobbiamo, soprattutto, respingere dalla nostra comunità quegli immigrati che abbiamo chiamato per i lavori più umili e che nel giro di pochi anni, o di una generazione, dopo il primo smarrimento, si guardano attorno e migliorano la loro posizione sociale. Scalano i posti più comodi, studiano, s’ingegnano: mettono addirittura in crisi la tranquillità dell’operaio svizzero medio, che resta inchiodato al suo sgabello con davanti magari in poltrona, l’ex guitto italiano”. “Non sono razzista. Sono un realista”, spiegò affabile a Maurizio Chierici del Giorno, in quel 1969, Daniel Roth, l’allora direttore e proprietario del periodico Schweizer Spiegel e presidente di un movimento dalla sigla (“per una Svizzera viva”) apparentemente innocua. “Gli operai stranieri costituiscono una massa informe che non può legare, per livello culturale, per tradizioni religiose e politiche, con l’ambiente che li accoglie. Non è colpa nostra se provengono da paesi dove il disordine sociale ha per norma gli scioperi, le manifestazioni di piazza, la lotta tra sindacati e imprenditori. La nostra è una piccola nazione tranquilla. Pensi un po’: l’ultimo sciopero generale risale al 1919. Tenere in casa gente di quel tipo costituisce un pericolo non sottovalutabile. Per difendere lo spirito svizzero è nostro dovere allontanare i potenziali disturbatori”.
Per questo, diceva il braccio destro di Schwarzenbach rovesciando un luogo comune, “in Ticino, come a Zurigo, amano più gli italiani del Sud. Lì sentono docili e sottomessi. Quelli del nord hanno invece ambizioni che si scontrano con le nostre”. Domanda di chierici: “Nei suoi discorsi parla di popoli mediterranei come di popoli inferiori. Sul serio lo crede?”. Risposta: “Penso che sia proprio così. Conosco bene la razza mediterranea. Ho cominciato a studiarla molti anni fa, nel Sud della Francia. La mia idea non è cambiata. Dalla Provenza in giù esiste un altro popolo. Anche in Italia si può tracciare un confine: 70% di gente sottosviluppata come civiltà e cultura, un 30% di persone che possono ricordare gli svizzeri.Persero tutti i referendum, quei fanatici razzisti: la Svizzera era migliore e più ospitale di quanto loro immaginassero. Culturalmente, però, vinsero un po’ anche loro. Lo dimostra lo strascico di prove referendarie indette dai suoi eredi fino al 1986. La storia di molti italiani costretti come Paolo Melillo ad assumere la propria moglie come domestica per poter portarla a Zurigo.
Ma più ancora un libro di Marina Frigerio e Simone Burgherr, Versteckte Kinder (Bambini nascosti), mai tradotto da noi ma ancora una volta fatto conoscere in Italia da Chierici. E’ la storia di migliaia di bambini italiani nascosti in casa dai genitori che non avevano il diritto secondo le rigidissime leggi svizzere, di portare la famiglia a Berna o a Ginevra. Piccoli fatti entrare di straforo e costretti a vivere come Anna Frank. Sepolti vivi, per anni, in un appartamento di periferia, senza poter ridere, giocare, piangere. Senza poter uscire, andare ai giardini, farsi un amichetto.
Lucia, una delle protagoniste dell’inchiesta, viveva con i genitori in una stanza d’un appartamento abitato anche da altre famiglie. Quando il padre e la madre andavano a lavoro, la chiudevano dentro a chiave. Uscì fuori la prima volta solo quando aveva tredici anni.
Anna restò sepolta quattro anni: “Di giorno resta chiusa in casa. Le rare volte che può scendere in cortile non deve parlare con nessuno: sa solo l’italiano e i vicini possono accorgersi della diversità. Per spaventarla, la madre le racconta che basta una parola, una sola e arriva la polizia a punirla (…). Non sa cos’è l’altalena. Non ha mai sfiorato la sabbia con le dita. Non riesce a correre perché le manca il fiato. Quando esce dal nascondiglio e può andare a scuola, ha otto anni. La maestra la descrive assente, spesso impaurita. Disegna animali minacciosi di fronte ad una piccola bambina.
Erano trentamila quei nostri bambini nascosti, secondo la Frigerio, verso la metà degli anni Settanta: “Erano così tanti che qua e là, protette in genere da qualche parrocchia o qualche comunità religiosa, esistevano perfino delle scuole clandestine. Elementari. Anche medie. E sono andate avanti fino agli anni Ottanta”. Quando uscì il libro era il 1992. Le prime navi cariche di profughi albanesi erano arrivate a Brindisi da pochi mesi. E avevamo ancora in Svizzera almeno un migliaio di figli clandestini.

di Gian Antonio Stella, l’ORDA.

Umberto Genovese

Autodidatta in tutto - o quasi, e curioso di tutto - o quasi. L'astronomia è una delle sue più grandi passioni. Purtroppo una malattia invalidante che lo ha colpito da adulto limita i suoi propositi ma non frena il suo spirito e la sua curiosità. Ha creato il Blog Il Poliedrico nel 2010 e successivamente il Progetto Drake (un polo di aggregazione di informazioni, articoli e link sulla celebre equazione di Frank Drake e proposto al l 4° Congresso IAA (International Academy of Astronautics) “Cercando tracce di vita nell’Universo” (2012, San Marino)) e collabora saltuariamente con varie riviste di astronomia. Nel 2020 ha pubblicato il suo primo libro "Interminati mondi e infiniti quesiti" sulla ricerca di vita intelligente nell'Universo, riscuotendo interessanti apprezzamenti. Definisce sé stesso "Cercatore".
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