Una piccola premessa: questo è uno studio che non vuole essere un incentivo all’uso degli stupefacenti, ma un ragionamento serio e pacato sulla miopia del concetto che sta alla base del proibizionismo. Buona lettura.
Quello che sappiamo della canapa è che questa si è evoluta con l’umanità, ne troviamo tracce della sua coltivazione a partire dal neolitico e che cresce a qualsiasi latitudine e quota, dalla Scandinavia agli altopiani del Tibet, senza bisogno di pesticidi o concimi artificiali, resistente alla siccità e che la sua versalitità nel corso dei secoli ha contribuito allo sviluppo dell’esplorazione del pianeta: infatti le corde e le vele delle imbarcazioni una volta erano ricavate dalla fibra della canapa e Bologna e Ferrara vantavano questo tipo di coltivazione nei loro comprensori fin dal 1600.
C’è una diatriba tra i botanici se esistano tre specie distinte di canapa o una sola, ma il fatto che queste siano biocompatibili geneticamente fa pensare che in realtà siano solo sottospecie di un unico genere.
La canapa è quindi da sempre stata coltivata e usata per tutta la storia dell’umanità per ragioni diametralmente opposte a quelle odierne, la tossicità e le sostanze psicotrope originali (fino al “Marijuana Tax Act”, USA – 1937) erano addirittura più basse di quelle dell’odierno tabacco. Fu per un mero tornaconto economico che la reputazione di questa pianta fu distrutta: da essa venivano prodotti infatti olio vegetale come combustibile (i primi motori Diesel andavano con l’olio di canapa e Henry Ford costruì la Ford T con le fibre plastiche prodotte dalla lavorazione della canapa) e fibre vegetali per la produzione di tessuti e della carta. I nascenti gruppi industriali americani invece puntavano soprattutto allo sfruttamento del petrolio per l’energia (Standard Oil – Rockfeller), delle risorse boschive per la carta (editore Hearst) e delle fibre artificiali per l’abbigliamento (Dupont) – tutti settori nei quali avevano investito grandi quantità di denaro, per cui essi fecero fronte comune e con la loro potenza economica distrussero un’attività, quella della coltivazione millenaria della canapa indiana, la più diffusa. L’uso della canapa per scopi psicotropi diversi dall’ambito mistico-religioso e spirituale avvenne all’inizi del’900 presso le popolazioni povere e di colore nell’area del Mississipi importando quest’abitudine dal Messico e che poi si estese in tutta l’area del sud degli Stati Uniti. La propaganda razzista che volle i neri come responsabili di crimini contro i bianchi, magari sotto l’effetto di stupefacenti come la marijuana, dal nome originario della località messicana che aveva diffuso l’abitudine di fumare le foglie e i semi (la canna), rese facile dapprima proibire la coltivazione e il possesso della canapa, poi la campagna lobbistica dei magnati della carta e del petrolio fecero il resto, a cui si aggiunsero Hollywood, sempre in cerca di denaro facile, e l’industria del tabacco che voleva sfruttare il bacino dei fumatori rimasti orfani della canna.
Tranne una breve parentesi che oggi dovrebbe far riflettere: durante il periodo della II Guerra Mondiale, il Giappone e l’Europa cessarono le loro esportazioni di cellulosa verso gli Stati Uniti e questi si videro costretti a sospendere l’embargo alla canapa e incentivarono gli agricoltori alla sua coltivazione per sopperire alla richiesta di cellulosa; alla fine della guerra l’embargo ritornò come prima.
Adesso oramai la canapa indiana viene coltivata e usata solo per le sue capacità allucinogene, che la selezione artificiale e l’ibridazione è riuscita a produrre piante con un quantitativo di THC (tetraidrocannabinolo) molte volte più alto delle piante naturali, dal classico 1% della canapa originale al 25-30% della skunk, la canapa più potente.
In un mondo oramai al collasso per la distruzione di risorse naturali importanti come le foreste, l’aria e il suolo e l’acqua, riprendere l’uso di coltivare la canapa consentirebbe di riscoprire importanti risorse per la produzione di cellulosa per la carta e per le fibre vegetali biodegradabili al posto delle fibre sintetiche prodotte col petrolio, e tutto questo con risparmio di pesticidi e diserbanti di cui queste coltivazioni non avrebbero bisogno, senza contare che nella fase di lavorazione si potrebbe ricavare del prezioso olio vegetale da usare come combustibile per autotrazione. Ovviamente questa riconversione produttiva avrà ricadute importanti sul piano occupazionale, ma se questa venisse fatta in un’ottica globale, a livello ONU, con aiuti economici ai paesi che accetteranno la sfida, sicuramente potrà avere successo.
Ma chi si oppone a questa idea di liberalizzazione della canapa, anzi che ancora ne osteggia l’uso industriale? La risposta è scritta sopra, le multinazionali che nell’ultimo secolo si sono arricchite con l’imposizione del proibizionismo a detrimento del pianeta, ma anche e soprattutto le organizzazioni criminali che hanno fatto del commercio illegale di stupefacenti un businness.
Quest’ultime prosperano proprio nel fornire all’umanità ciò che per legge le è proibito, come per esempio accadde nel periodo del Proibizionismo americano (1919-1933), anche in quel caso voluto dai gruppi fondamentalisti cristiani e moralisti della destra americana, che permise alle organizzazioni mafiose criminali di controllare interi stati della costa orientale americana e la zona dei Grandi Laghi.
Chi ci guadagnerebbe invece? Innanzitutto il pianeta, una riconversione energetica dell’umanità ormai è improcrastinabile, e la reintroduzione della coltivazione della canapa come biomassa sarebbe funzionale alla riduzione della dipendenza dal petrolio e la salvaguardia delle foreste per almeno un buon 10% del fabbisogno attuale di petrolio e che la sua coltivazione può essere estesa a tutto il pianeta senza togliere terra già dedicata alle coltivazioni per l’alimentazione umana (è stato calcolato che appena il 6% di terreni continentali americani convertiti in coltivazioni di bio-combustibile renderebbero gli USA indipendenti dal petrolio come combustibile primario). Questo avrebbe certamente una ricaduta positiva nella bilancia dei paesi del terzo mondo che avrebbero un attivo dall’esportazione dei semilavorati della canapa e delle biomasse e che potrebbero finalmente ambire all’indipendenza energetica.
Le organizzazioni criminali non avrebbero più quindi l’introito economico dovuto al commercio di sostanze illegali, e, quando finalmente avremmo capito che il proibizionismo è solo un altro modo per fare ora di nascosto a pagamento ciò che magari non avremmo fatto gratis, questo esperimento sociale verrà abbandonato, le loro economie avrebbero una sonora battuta d’arresto e non potranno disporre di facili risorse economiche illegali da investire, economie da dirigere e politici da comprare.
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