50 anni dopo lo Sbarco sulla Luna non me la sento di festeggiare.

Ormai mancano poche ore al cinquantenario dello Sbarco sulla Luna. 
Quando fu scoperta la minaccia dei clorofluorocarburi all’intero ecosistema terrestre, nel 1997 tutti gli Stati della Terra fecero fronte comune e imposero il bando totale dei CFC col Trattato di Montreal; oggi, nonostante le belle parole, ancora non vedo lo stesso impegno per scongiurare le altrettanto gravi crisi ambientali. Per questo ora non riesco a gioire come vorrei lo storico anniversario.

 

L’equipaggio della missione Apollo 11: dalla sinistra: Michael Collins, Neil Armstrong e Buzz Aldrin (nato Edwin Eugene)

Checché alcuni allocchi continuino a sostenere il contrario, il 20 luglio del 1969 per la prima volta nella storia un essere umano mise davvero piede sulla Luna; tre uomini, eccetto uno che rimase in orbita, giunsero là dove nessuno era mai giunto prima.
Non sto a ripetere la storia delle missioni e dell’intero Programma Apollo, in questi giorni un po’ su tutte le testate giornalistiche, blog, TV e social non si parla di altro. Ma se da un lato questo mi conforta — finalmente si torna a parlare dell’esplorazione umana dello spazio in termini concreti — dall’altro mi spaventa pensare che dopo cinquanta anni, cinque decadi da quello storico momento, siamo riusciti ad arrivare sull’orlo di una crisi dell’intero ecosistema terrestre.
Mi spiego meglio: la stessa razza umana che cinquant’anni fa è riuscita a compiere quella fantastica impresa, oggi rischia di soccombere (no, non credo all’estinzione di tutto il genere umano ma al crollo della sua civiltà) per tutti gli errori e le opportunità che non ha saputo cogliere in quest’ultimo mezzo secolo.

Ci sono voluti ben tre lustri, dal 1973 al 1997, per far capire al mondo che i CFC (clorofluorocarburi) stavano distruggendo lo strato di ozono che protegge la vita sulla Terra da almeno 2 miliardi di anni. Il presidente della multinazionale Dupont (industria chimica che era fra i maggiori produttori di CFC nel mondo) bollò i primi studi come “spazzatura da fantascienza“; all’epoca i CFC erano usati dappertutto, dall’industria della refrigerazione (frigoriferi e climatizzatori per esempio) fino all’agricoltura, dall’elettronica alla lacca per capelli (bombolette spray). Eppure, dopo le prime conferme sul campo del 1985 che confermavano le responsabilità umane nella distruzione dello strato di ozono, si giunse al bando operativo su tutto il pianeta dei clorofluorocarburi. Oggi quel bando sta funzionando e,  checché ne dicano — o abbiano detto — i vari “mister Dupont” dell’epoca, quella fu la cosa giusta da fare.
Oggi la situazione è altrettanto pericolosamente grave: all’inizio del mese un’intero distretto in Giappone (Kagoshima, un milione di persone)[1] è stato costretto dalle piogge torrenziali ad abbandonare le proprie case; d’accordo, quando qui la gente aspetta ogni occasione per andare al mare per fare i primi bagni, in Giappone (giugno-luglio) è la stagione delle piogge, ma quell’evento era comunque decisamente fuori dell’ordinario anche per loro.
E anche in altri paesi e regioni climatologicamente distanti si stanno sperimentando fenomeni parossistici sempre più estremi e frequenti: l’eccezionale ondata di caldo che ha travolto l’Europa (45° vicino a Montpellier, in Francia) dopo un giugno insolitamente uggioso e fresco; 21° C. sopra il Circolo Polare Artico [2]; 50,6° C. in India appena il giugno scorso, quando qui era insolitamente fresco (nevicò in Corsica).

Coralli morti per effetto dell’innalzamento della temperatura e dell’acidità delle acque superficiali a Lizard Island (Australia) sulla Grande Barriera Corallina tra il marzo e il maggio 2016. Prima arriva lo sbiancamento, indice della morte dei minuscoli oranismi e poi la fioritura di alghe (a destra) completa l’opera di distruzione.
Credit: XL Catlin Seaview Survey

Questi segnali dimostrano tutta la fragilità di un sistema, quello climatico, che sta pericolosamente deviando per colpa delle attività umane: nel 2016 in Siberia si raggiunsero ben 33 gradi e nella regione dello Yamal (67° N) il disgelo estivo risvegliò un mortale batterio che era rimasto inerte da chissà quanti anni: il Bacillus anthracis, meglio noto come antrace; l’infezione uccise 2000 renne e un bambino; la più grande struttura vivente, visibile pure dallo spazio, ovvero la Grande Barriera Corallina a nord- est dell’Australia da almeno tre anni registra sbiancamenti (morte dei coralli) senza precedenti nella sua storia 1.

Eppure, ancor oggi, nonostante il parere pressoché unanime degli scienziati di tutto il mondo, miliardi di dollari spesi in conferenze e dibattiti internazionali, e una miriade di parole spese in buone intenzioni, quasi nulla è cambiato. Fior di sciocchi e stolti continuano a negare l’evidenza del Global Warming, alcuni bollandola addirittura come bufala comunista studiata dai cinesi per far svenare l’Occidente con l’acquisto di inutili auto elettriche e pannelli solari (fabbricati con le Terre Rare cinesi).
Ho già illustrato su queste pagine le prove del coinvolgimento umano nel Riscaldamento Globale, tanto che parlare di Anthropogenic Global Warming non è affatto sbagliato, anzi. Dopo quasi 25 anni nel 1997 riuscimmo come genere umano a fermare la grave minaccia all’intero ecosistema terrestre rappresentato dallo spregiudicato uso che facevamo dei CFC, mentre oggi una minaccia altrettanto grave si sta palesando ogni giorno; per questo oggi nonostante il cinquantenario dello Sbarco sulla Luna mi sento sconfortato.

Tornando al Programma Apollo che  portò L’Uomo sulla Luna, al di là di tutto ricordo che ogni onere – e merito – fu frutto dell’impegno di una sola nazione. Nell’anno dello sbarco, il costo per gli Stati Uniti d’America fu di 2.4 miliardi di dollari (PDF): appena un ottavo del costo dell’impegno militare in Vietnam di quell’anno che fu di circa 20 miliardi di dollari. In totale la spesa tra il 1961 e il 1973 fu di 26-28 miliardi di dollari dell’epoca (circa 270 miliardi di oggi) [3]. Nello stesso periodo il costo dell’intero sforzo bellico in  Indocina, per gli USA si avvicinò ai 200 miliardi, circa 2000 miliardi (a spanne) di oggi.
Ma mentre ogni dollaro investito nella ricerca spaziale comportava un ritorno di almeno cento negli anni successivi, i 200 miliardi nella guerra del Vietnam ebbero costi almeno triplicati dalla crisi economica successiva, dai costi sanitari per gli invalidi, la caduta del mercato interno e soprattutto la credibilità economica internazionale ne risentì.
Provate per un attimo ad immaginare se invece il bilancio militare mondiale dal 1970 ad oggi fosse stato dedicato alla colonizzazione dello spazio 2.
Con migliaia di miliardi investiti in ricerca e sviluppo invece che a cercare il miglior modo per farci stupide guerre per l’effimero controllo di un pezzo di terra pressoché tutti i mali che ancora affliggono l’umanità potrebbero essere ora un incubo del passato; oggi avremmo saputo come trasferire nello spazio tutte le attività più inquinanti e inaugurato una nuova era di pace e comunione per il genere umano; l’inquinamento che ogni anno causa milioni di morti — molti di più di un conflitto mondiale — sul nostro pianeta sarebbe potuto non essere più una minaccia per l’intero ecosistema terrestre e quel bambino dello Yamal avrebbe avuto l’opportunità di invecchiare magari proprio sulla Luna.

Ora noi potremmo darci tutte le pacche sulle spalle che vorremmo e raccontarci quanto fummo bravi 50 anni fa a raggiungere la Luna. ma se poi tra altrettanti anni (2069) la nostra civiltà non avrà ancora occasione di festeggiare quello che sarebbe potuto essere l’inizio di una nuova era per tutto il genere umano, sarà stata tutta colpa nostra e della nostra cieca stupidità e cupidigia.

 

Le incerte origini dell’acqua sulla Terra

L’acqua è tutto per questo pianeta. L’acqua è vita; forza motrice, riserva di energia e moderatore degli scambi gassosi atmosferici. Ricopre il 71% della superficie del globo e costituisce il 65% del nostro corpo. Tutte le più grandi civiltà sono sorte  lungo i corsi d’acqua e molte sono perite quando questa è venuta a mancare.
Quindi è giusto chiedersi da dove essa è venuta?

Il rapporto D/H rilevato in alcuni corpi del Sistema Solare con le relative barre di errore. La linea blu indica il valore D/H degli oceani della Terra. La linea arancio rappresenta i valori presunti della Nebulosa Primordiale che non si discosta poi molto dal rapporto D/H del mezzo interstellare (linea rossa) Lo sfondo indica la curva di temperatura del Sistema Solare e grossomodo la demarcazione fra una zona più calda (>200 K) e una inferiore. Credit: Il Poliedrico

L’acqua è composta da due elementi fra i più diffusi dell’Universo [cite]http://ilpoliedrico.com/2012/05/le-abbondanze-cosmiche.html[/cite]. Qualche volta però l’isotopo pesante dell’idrogeno il cui nucleo è composto da un  protone e un neutrone, il deuterio (D), sostituisce uno (HDO, acqua semipesante) o entrambi (D2O, acqua pesante) gli atomi di idrogeno nella molecola alterandone alcune proprietà fisico-chimiche 1.
Il rapporto tra l’acqua pesante e l’acqua normale indica pertanto la percentuale tra il deuterio e l’idrogeno costituenti l’acqua (D/H). Tutto il deuterio presente nell’Universo si formò durante la nucleosintesi primordiale, nei 3 minuti successivi al Big Bang (D/H = 2,4 x 10-4). Però è anche vero che il deuterio viene distrutto dalla nucleosintesi stellare, tutto quello che ancora rimane proviene da nubi di gas ancora non ancora riciclate in stelle, come quella che fornì il deuterio alla nebulosa primordiale [cite]http://wp.me/p2GRz5-RT[/cite]. 

Da quello che possiamo intuire da diagramma qui accanto è che il rapporto  D/H rimane più o meno costante negli oggetti provenienti dalla Nube di Oort, attestandosi a valori almeno doppi a quelli della Terra e almeno venti volte superiori a quello del mezzo interstellare (D/H = 0,165 – 14 x 10-4). Il motivo di tale arricchimento rispetto al valore di fondo è da imputarsi unicamente alle seppur lievi differenze fisico-chimiche tra l’idrogeno e i suoi isotopi (esiste anche il trizio, costituito da un protone e due neutroni ma è radioattivo e ha un’emivita di soli 12,33 anni). Queste sono responsabili di fenomeni di frazionamento isotopico che avvengono in condizioni di bassa temperatura (< 100° K.) che le arricchiscono di deuterio a scapito del mezzo interstellare [cite]http://iopscience.iop.org/1538-4357/591/1/L41/fulltext/17236.text.html[/cite].

Per quanto riguarda i pianeti esterni indicati nel diagramma è stato utilizzato il rapporto tra deuterio e idrogeno gassoso (H2) osservato in spettroscopia; anche in questo caso i valori indicati sono piuttosto dissimili tra i diversi giganti gassosi. Il motivo di queste differenze è ancora sconosciuto, anche se tra i principali indiziati di questa particolare distribuzione isotopica possono essere sia loro diversa massa (il processo di differenziazione planetaria può aver fatto precipitare il deuterio negli strati più interni dei pianeti più pesanti), ma forse anche alla loro zona di accrezione; mentre Giove e Saturno hanno raccolto il loro materiale nella parte ancora più calda (> 70 – 100° K.) della nebulosa, probabilmente Urano e Nettuno si sono formati in una zona più fresca (< 70° K.) e si sono evoluti da planetesimi piuttosto ricchi di deuterio.

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Un altro rompicapo è l’elevato rapporto D/H di Encelado, una luna di Saturno che, a fronte di un rapporto D/H molto basso del pianeta – non molto dissimile a quello del mezzo interstellare – ha un rapporto non molto diverso da quello degli oggetti della nube di Oort.

Se – per ora – il rapporto D/H degli oceani terrestri appare sfuggire alla comprensione (solo 103P Hartley 2, una cometa gioviana, si avvicina ai valori terrestri), Quello di Venere appare ancora più misterioso: ben 120 volte quello della Terra.
Nel 1993 due ricercatori della Divisione di Geologia e Scienze Planetarie del California Institute of Technology  di Pasadena, Mark A. Gurwell e Yuk L. Yung proposero un interessante meccanismo che poteva spegare efficaemente il rebus venusiano [cite]http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/0032063393900373[/cite] [cite]http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1029/2009JA014055/abstract;jsessionid=36BB06CE6E970E21D7545F06C2508A62.f02t04[/cite]. In pratica la fotodissociazione del vapore acqueo (tutta l’acqua di Venere è in questa forma) tra i 200 e 400 chilometri scinde il vapore acqueo in ossigeno monoatomico e idrogeno molecolare (H2) o deuterato (HD o D2) con diverse velocità; la velocità di espulsione dell’idrogeno giunge così ad essere fino a 8 – 9 volte più veloce del suo isotopo più pesante ed essere così più facilmente disperso nello spazio. Questo meccanismo spiega perché adesso il rapporto D/H sia così alto ma non del tutto: occorre che anche la massa d’ acqua del pianeta (ipotizzando che Venere abbia avuto un rapporto D/H inizialmente simile alla Terra) sia stata interamente degassata solo 500 milioni di anni fa [cite]http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0019103599961869[/cite].
Anche l’indice marziano è almeno 50 volte superiore al nostro; anche lì lo stesso meccanismo di deplezione dell’idrogeno gassoso dall’atmosfera visto per il caso di Venere ha prodotto un incremento notevole del deuterio rimasto. Anche in questo caso, conoscere esattamente il tasso di deperimento dell’idrogeno rispetto al suo isotopo pesante potrebbe consentire di estrapolare quando Marte perse la capacità di sostenere acqua liquida e la sua già tenue atmosfera.

Alla luce di queste informazioni per cercare di rispondere ancora alla domanda iniziale occorre partire dalle origini del Sistema Solare, più di 5 miliardi di anni fa. Allora tutto quello che vediamo oggi era solo polvere e gas interstellari, una tipica nebulosa in lenta contrazione da cui sarebbero poi nati il Sole e i pianeti. 
Fin da quando l’Ipotesi Protonebulare prese credito nella comunità scientifica, i dubbi sulla provenienza dell’acqua sul nostro pianeta furono fonte di discussione. L’acqua era di origine endogena o esogena alla Terra? I calcoli mostravano che il pianeta si era formato 4,5 miliardi di anni fa in una zona (fascia) protonebulare dove la viscosità delle polveri raggiungeva i 900 Kelvin. l’idea che l’acqua esistesse a quelle temperature sembrava impossibile. Eppure probabilmente è quello che avvenne. 
Una certa quantità d’acqua poteva essere intrappolata negli alluminosilicati (zeoliti) e nelle olivine (ringwoottiti) come idrossidi. Anche quando l’evento Theia (la nascita della Luna) rifuse il pianeta, una certa quantità d’acqua rimase ancora intrappolata nel mantello 2 e quando per degassamento raggiunse poi la superficie  può aver contribuito al raffreddamento della crosta terrestre e formato i primi oceani. 
Comunque per quanto una parte dell’acqua terrestre possa essere di origine endogena ancora il conto non torna. Nel 2009 il geochimico francese Francis Albarede, dell’Ecole Normale Supérieure di Lione, propose che la Terra fosse stata essenzialmente arida al momento della sua formazione. Gli altri elementi volatili sarebbero arrivati sulla terra atttraverso l’Intenso Bombardamento Tardivo dagli asteroidi più interni nei 100 milioni di anni successivi alla formazione della Luna  [cite]http://www.nature.com/nature/journal/v461/n7268/full/nature08477.html[/cite]. A conferma di questa teoria c’è l’indice D/H delle varie meteoriti condritiche (CC) che esprimono un valore virtualmente identico a quello terrestre.Per contro, c’è ragionevolmente da aspettarsi che non furono solo gli asteroidi più interni a cadere sulla Terra ma anche oggetti più esterni come le comete della fascia di Kuiper e della Nube di Oort, tutti oggetti con un rapporto D/H molto diverso da quello dei nostri oceani, tanto che questo oggi apparirebbe diverso anche da quello delle condriti 3.
Oppure, è questa l’ipotesi più probabile, il materiale che costituì poi la Terra era solo parzialmente povero di composti volatili. Fu sufficiente una concentrazione da 500 a 3000 ppm di acqua nei planetesimi durante la fase di accrezione per avvicinarsi almeno alla metà di acqua presente sulla Terra e ridimensionare in parte l’importanza dell’apporto tardivo delle comete.  Quindi una miscela di acqua endogena (±50% con DH 1.5 x 10 -4) e acqua esogena (± 25% con D/H 3.0 x 10-4 e ± 25% con D/H 1.7 x 10-4 ) poteva produrre un D/H intorno 1,9 x 10-4, vicino ma forse non abbastanza ai valori attuali.

Certo che acqua con un rapporto D/H uguale agli oceani terrestri che ne giustifichi anche la quantità non si trova da nessun’altra parte del Sistema Solare:gli asteroidi interni hanno grossomodo il giusto rapporto ma non possono giustificarne la quantità e le comete il contrario. Senza dimenticare che su un pianeta dinamico come il nostro nel giro di 4 miliardi di anni i numerosi processi di frazionamento isotopico possibili possono aver alterato il rapporto fra deuterio e idrogeno tanto da renderlo unico in tutto il sistema.
Per concludere, appare evidente che aspettarsi una risposta alla domanda iniziale “Da dove viene tutta l’acqua della Terra?” studiando il solo rapporto D/H è – a mio avviso – del tutto vano. Troppi sono i meccanismi che alterano il rapporto tra deuterio e idrogeno, e qui ne ho descritti solo alcuni.

 

La lunga coda della Terra

Il vento solare colpisce la parte anteriore del campo magnetico della Terra e viene deviata verso il lato notturno del pianeta.
Credit: NASA Goddard Space Flight Center – Minoru Yoneto.

Grazie a un particolare allineamento di ben otto satelliti, tra cui Artemis e Themis, finalmente è stato possibile studiare in dettaglio le interazioni tra il vento solare e il campo magnetico terrestre che sono all’origine delle aurore polari.
Piccoli eventi di riconnessione magnetica della durata stimata in millisecondi avvengono nella coda del campo magnetico terrestre e permettono il passaggio di flussi di energia che possono durare anche mezz’ora e che si estendono per superfici vaste anche dieci volte la Terra. [cite”NASA”]http://svs.gsfc.nasa.gov/vis/a010000/a011300/a011368/index.html[/cite]


Credit: NASA Goddard Space Flight Center 

Venere e Terra, gemelli diversi

Nel nostro sistema solare il pianeta più simile alla Terra è Venere. Composizione chimica, densità e dimensioni sono molto simili tra i due pianeti. Anche la loro distanza al Sole è tutto sommato abbastanza simile. Eppure Venere, a dispetto del nome che evoca la dea romana della bellezza, è in realtà un inferno, torrido e secco. Tutta l’acqua presente sul pianeta risiede nella sommità delle sue nubi e quando lì decide di piovere, piove acido solforico.
Un nuovo studio giapponese spiega come sia avvenuto.

Venere e Terra sono molti simili dal punto di vista fisico ma hanno avuto storie molto diverse a causa della diversa distanza dal Sole.

Venere e Terra sono molti simili dal punto di vista fisico ma hanno avuto storie molto diverse a causa della diversa distanza dal Sole.

L’acqua liquida non è solo necessaria alla vita come la conosciamo. Questa è importante anche per il suo ruolo di lubrificante per le placche tettoniche e del mantello superiore. Essendo infatti abbastanza solubile nei silicati fusi, l’acqua penetra in profondità giù fino al mantello e permette alle placche tettoniche di muoversi più facilmente riducendone l’attrito reciproco. È quindi una componente importante della litosfera, lo strato più esterno del pianeta, che comprende la crosta e la parte più esterna del mantello responsabile della tettonica a zolle.
All’epoca della sua formazione, la relativamente poca acqua presente nella fascia più interna del Sistema Solare era chimicamente legata a silicati idrati e ai composti del carbonio più pesanti. Questa era però sufficiente a fornire una discreta quantità di acqua 1 ai neonati pianeti.
Le condizioni di pressione e temperatura che si stabilirono nei pianeti subito dopo il raggiungimento dell’autosostentamento gravitazionale favorirono la loro differenziazione chimica in base al peso atomico e molecolare degli elementi: nel nucleo si accumularono quelli più pesanti, mentre nella parte più esterna si raccolsero tutti gli elementi più leggeri 2.
Questa differenziazione, altrimenti nota come Catastrofe del Ferro, liberò l’acqua dai silicati fusi e fornì ai pianeti ancora non del tutto formati una prima, spessa atmosfera composta da diossido di carbonio e vapore acqueo.
Al di sotto di quella coltre di gas, i pianeti non avevano ancora una crosta solida ma una superficie di magma caldo e viscoso.

Lo studio giapponese

Due tipi distinti di pianeta terrestre. L'asse x superiore mostra la corrispondente radiazione stellare netto iniziale. La freccia indica la troposferico limite di radiazioni. Il critico distanza orbitale di acr, 0,76 AU separa l'orbitale regimi dei due tipi di pianeta. una, tempo di solidificazione. Le linee tratteggiate indicano il tempo richiesto per la completa perdita di acqua primordiale. Questo fornisce una buona approssimazione del tempo di solidificazione di pianeti di tipo II. il massimo viene visualizzato anche il tempo di solidificazione per I pianeti di tipo (vedi supplementare Informazioni). b, Totale rimanenze acqua al momento della completa solidificazione. A forte transizione è esposta a circa acr.

Le due distinte classi di pianeti rocciosi simili alla Terra
L’ascissa superiore mostra la radiazione stellare iniziale. La freccia indica il limite troposferico alle radiazioni. La distanza orbitale critica di circa 0,76 UA distingue i due tipi di pianeta. Nel riquadro a  è indicato il tempo di solidificazione. Le linee tratteggiate indicano il tempo necessario alla completa perdita dell’acqua primordiale. Questo dato fornisce una buona stima del tempo necessario alla solidificazione dei pianeti di tipo II. il massimo viene visualizzato anche il tempo di solidificazione per I pianeti di tipo I.
Nel riquadro b viene indicata la quantità di acqua rimasta al momento della completa solidificazione della crosta planetaria.
Credit: Keiko Hamano.

Qui entra in gioco uno studio del dipartimento Terra e Scienze planetarie dell’Università di Tokyo condotto da Keiko Hamano, Hidenori Genda e Yutaka Abe e pubblicato su Nature a fine maggio scorso.
Questo studio mostra come la distanza dalla loro stella possa influenzare l’evoluzione dei pianeti rocciosi.

Entro una certa distanza la radiazione stellare 3 impedirebbe la dispersione del calore in eccesso dei pianeti ancora fusi con conseguenze catastrofiche per la loro evoluzione.
L’evoluzione termica di un oceano di magma è strettamente legata alla formazione di vapore  acqueo nell’atmosfera. Una massiccia presenza di vapore acqueo nell’atmosfera comporta un tremendo effetto serra che diminuisce la radiazione in uscita dal pianeta e ritarda il processo di solidificazione.  A sua volta se questo flusso radiativo viene interrotto da uno stato di equilibro energetico con la radiazione stellare allora la superficie planetaria non può solidificarsi e il processo di rilascio dell’acqua sotto forma di vapore da parte del magma continua, ipersaturando l’atmosfera e svuotando il pianeta di tutta la sua acqua.
Questo processo di feedback positivo può prolungare l’opera di solidificazione del magma fino a 100 milioni di anni portando il pianeta al suo totale disseccamento.
Il resto dell’evoluzione è abbastanza chiara: l’assenza di acqua nella litosfera impedisce la formazione di zolle continentali e quindi di qualsiasi processo tettonico. La crosta planetaria diventa quindi più spessa e uniforme bloccando il flusso di calore che dal nucleo si propaga prima nel mantello e poi alla superficie.
In assenza di correnti convettive nel mantello anche la rotazione differenziale del nucleo si arresta e smette di generare un campo magnetico planetario 4. Intanto la radiazione stellare dissocia il vapore acqueo nei suoi componenti e soffia via l’idrogeno dall’atmosfera, mentre l’ossigeno si lega al monossido di carbonio trasformandosi in anidride carbonica. Così l’atmosfera del pianeta si satura di anidride carbonica 5 e l’effetto serra prima dovuto principalmente al vapore acqueo adesso è sostituito dalla quasi altrettanto efficace CO2.
Così la superficie planetaria rimane molto calda, il calore dell’interno non può quasi più defluire mentre l’atmosfera diviene sede di importanti moti convettivi dovuti all’incredibile gradiente termico tra la superficie del pianeta e lo spazio esterno.

Tutto questo è stato possibile da un iniziale stato di equilibrio energetico tra la radiazione stellare incidente e la temperatura dell’atmosfera del pianeta ancora fuso.
Nel caso in cui invece al calore sia consentito di defluire nello spazio il processo di raffreddamento procede molto più velocemente – pochi milioni di anni – consentendo al pianeta di mantenere gran parte della sua acqua nel mantello e favorendo così lo sviluppo di placche continentali. Una superficie molto più fresca consente al calore del nucleo di raggiungere la superficie attraverso moti convettivi che rimescolano il mantello e consentono al nucleo di girare indipendentemente dal resto del pianeta e generare un campo magnetico planetario. Col raffreddamento della superficie il vapore si converte in pioggia e assorbe parte dell’anidride carbonica dall’atmosfera sotto forma di acido carbonico. La riduzione dei gas serra rende l’atmosfera ancora più trasparente alla radiazione infrarossa che così disperde più energia nello spazio.
Il feedback negativo è evidente, così il pianeta si raffredda così velocemente che in pochi milioni di anni è completamente diverso dal suo gemello nato più vicino alla stella.

Conclusioni

Non c’è motivo per dubitare che gli altri sistemi planetari si siano formati in maniera dissimile al nostro, pertanto è ragionevole pensare che meccanismi simili si possano verificare anche per altri sistemi planetari.
Le supposizioni dello studio giapponese si adattano alla perfezione a quello che sembra che sia successo qui, con Venere caldo e secco e la Terra così fresca e umida.
Un meccanismo semplice, la distanza dal Sole, che si sposa perfettamente con i dati osservativi che abbiamo.
I ricercatori giapponesi suddividono così i pianeti rocciosi in due classi: il tipo I, la Terra che si è evoluta in un mondo fresco e umido, e il tipo II, caldo e secco come Venere. Il limite lo pongono a circa 0,8 U.A. dal Sole 6.
Fermo restando la suddivisione in due diverse classi di pianeti, io credo che sia meglio parlare di limite inferiore per lo sviluppo geologico di un pianeta potenzialmente abitabile. Così come esiste una Circumstellar Habitable Zone dimensionata dalla radiazione stellare, ora scopriamo che questa impone anche un limite che regola l’evoluzione geologica di un pianeta ed è un altro dettaglio importante da non trascurare nella ricerca dei pianeti potenzialmente abitabili.


Bibliografia:

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Note:

22 Aprile 2011: Giornata Mondiale della Terra

4 luglio 2010, mare di Chukchi, missione ICESCAPE Credit: NASA / Hansen Kathryn

Il 22 aprile 2011 si festeggerà la Giornata Mondiale della Terra, un giorno speciale per ricordarsi del nostro mondo.

Mi chiedo con quale spirito andremo a festeggiare questo giorno quando siamo rei di aver distrutto – come esseri umani – interi ecosistemi, avvelenato mari e fiumi e terre.
Abbiamo forti responsabilità nel Global Warming 1, nello sterminio di altre specie animali – come le balene tanto per fare l’esempio più noto,  eppure pur riconoscendo la gravità delle  nostre colpe non facciamo abbastanza per invertire il nostro comportamento.
Siamo ormai una scheggia impazzita dell’evoluzione, capace di commuoversi per un orso bianco isolato su una zattera di ghiaccio nel mare che però ama la comodità del telecomando per accendere la televisione.

Molti nostri elettrodomestici vanno solo in standby, sono specificatamente progettati senza chiedere più il fastidio di azionare un interruttore per accenderli, giusto giusto per succhiare avidamente quel poco di energia da giustificare l’incessante rincorsa alla sempre maggiore produzione di questa.
Nel 2005 l’Unione Europea stimò in oltre 40-45 Twh 2 i consumi degli apparati elettrici in standby in Europa e per questo emise una direttiva 3 per dimezzare questi consumi e oltre, a partire proprio dal 2011. Ma anche solo 20 o 10 Twh sono sempre tanti per un solo continente, troppi per un pianeta al limite del collasso ecologico.

Dovremmo festeggiare il 22 aprile col capo chino e cosparso di cenere,  piangere per quello che abbiamo distrutto e chiedere scusa alle future generazioni per lo stato in cui abbiamo ridotto il nostro pianeta: inquinato, sporco e febbricitante.
Dovremmo ricordarci del Nostro Pianeta invece tutti i giorni ed esprimergli il nostro amore con i nostri gesti quotidiani, attraverso il riciclo dei rifiuti o la conservazione dell’acqua, lo staccare la spina agli apparecchi in standby o la manutenzione delle nostre automobili.

Se vogliamo festeggiare degnamente il 22 aprile la Giornata Mondiale della Terra, iniziamo a cambiare le nostre abitudini già dal giorno prima e manteniamole nei giorni successivi, la Terra ce ne sarà grata.

Flare verso la Terra dalla regione attiva 1123

Credit: SpaceWeather.com

la formazione 1123 accanto alla 1121 - Credit Spaceweather

Avevamo lasciato qualche giorno fa la regione attiva 1121 che aveva emesso il suo flare di classe M 5,4 uno dei più intensi flare degli ultimi anni, che questa si è affievolita riposizionandosi subito accanto (ad est)  in una nuova formazione di macchie solari, la 1123, che si è mostrata fin da subito esuberante quanto la precedente. Infatti nelle prime ore di oggi 12 novembre, ha prodotto un flare di classe C 4 proprio in direzione della Terra. Si prevedono magnifiche aurore boreali e australi.

L’antica storia della Terra

Ho già affrontato l’enigma dell’età della Terra, adesso tocca alla sua origine, o meglio, alla sua straordinaria atmosfera.

Per la maggior parte della sua storia l’uomo ha creduto che la Terra fosse immutabile ed eterna, salvo quando accadevano i terremoti, alluvioni o le eruzioni vulcaniche che ne rimodellavano repentinamente l’aspetto. In questi casi la causa era quasi sempre attribuita alla scelleratezza umana, punita a questo modo dalle diverse divinità del pantheon di riferimento.
Per questo all’aria, invisibile e intangibile, ma sede dei più comuni e violenti fenomeni naturali come inondazioni, tempeste e anche siccità, era generalmente attribuito il regno delle divinità più potenti: Zeus, ad esempio, oltre ad essere continuamente alla ricerca di nuove amanti, era sempre arrabbiato per qualcosa, e scagliava fulmini e saette come punizione divina.
Adesso sappiamo che non è così, non crediamo più a certe superstizioni, anche se talvolta il genere umano meriterebbe qualche scappellotto per la sua immorale condotta ambientale. Non crediamo più alla teoria geocentrica e alla Terra piatta, anche se ci sono ancora sacche di resistenza di questo mito ancora oggi, come la Flat Earth Society che si propone di dimostrare la piattezza della terra con un filo a piombo e uno specchio d’acqua.
Ma esiste un’altra credenza dura a morire: l’immutabilità dell’atmosfera, o meglio della sua composizione principale: 78% di azoto e il 20% di ossigeno, più altri gas che sommati fanno il rimanente 2%. Non è sempre stato così: nell’arco dei 4,5 miliardi di anni  di vita del nostro pianeta l’atmosfera planetaria è cambiata più volte sostituendosi completamente alla precedente.

La nascita della Terra

Aria e acqua: i componenti indispensabili alla vita sulla Terra: distruggerli dovrebbe essere considerato un crimine contro l’umanità

La Terra nacque per aggregazione dei resti della nebulosa che dette origine al Sole, in una zona dove i silicati e il ferro erano una parte importante della composizione del disco protoplanetario, appena 10 milioni di anni dopo al Sole.
In quel periodo si formarono non uno, ma ben due pianeti a circa 150 milioni di chilometri di distanza l’uno dall’altro in un punto lagrangiano detto L5 del pianeta più grande, la Terra;  l’altro era un po’ più piccolo, poco meno di Marte, oggi battezzato come Theia.
La Terra (e Theia) avevano raccolto anche una parte del gas residuo della nebulosa protoplanetaria, soprattutto idrogeno ed elio. La Terra allora molto piccola, era appena la metà di oggi e non aveva quindi un’importante campo gravitazionale come oggi; sotto la pressione del vento solare del Sole appena nato (fase T Tauri) e il calore del pianeta ancora molto alto, ben presto quell’atmosfera evaporò. Questa è stata la 1a atmosfera della Terra: idrogeno ed elio.

Fase T Tauri

Appena nasce una stella, l’avvio dei processi di fusione termonucleare, genera anche un fortissimo vento stellare che spazza via in pochi milioni di anni i gas residui della protostella. Questa fase prende  il nome dal prototipo di questa classe T Tauri,. Solo dopo la stella entrerà nella sequenza principale

Le rocce fuse che componevano il pianeta emettevano grandi quantità di diossido di carbonio che rapidamente sostituirono la 1a atmosfera, ed essendo più pesante il diossido di carbonio dell’idrogeno, questo resistette un po’ di più alla dispersione causata dal vento solare che, non avendo la Terra un campo magnetico molto forte, non poteva contrastare. Questa è stata la 2a atmosfera della Terra: diossido di carbonio.

La nascita della Luna

Cortesia Harvard College Observatory

Cortesia Harvard College Observatory

Vi ricordate della gemella Theia?  Fu in quel periodo che cadde sulla Terra: la colpa  come al solito, fu di Giove, non la divinità – anche se qualche antico greco potrebbe sentirsi di attribuire a lui la causa – ma il pianeta. Con i suoi passaggi orbitali causava una leggerissima spinta ai pianeti interni e, spingi oggi e spingi domani, alla fine destabilizzò l’orbita di Theia  abbastanza da farla uscire dal punto lagrangiano e farla cadere sulla Terra. L’impatto fu devastante: il nucleo terrestre che aveva iniziato a differenziarsi durante la catastrofe del ferro, si arricchì ulteriormente del nucleo probabilmente già differenziato di Theia, formando un nucleo ferroso molto più grande ed esteso degli altri pianeti interni del sistema solare. Un nucleo così grande era capace di sprigionare un intenso campo magnetico in grado di contrastare efficacemente l’azione ionizzante e dispersiva del vento solare, ma sarebbe stato anche determinante per lo sviluppo di forme di vita superiori sulla Terra.
Circa il 2% della crosta dei due pianeti fu proiettata in  orbita e finì per formare un anello di particelle incandescenti. Adesso la Terra poteva anche lei vantare il suo anello a 20.000 – 25.000 chilometri di quota, mentre la durata del giorno passò da 8 a 5 ore e anche la seconda atmosfera appena formata (qui una simulazione) andò perduta.
Lo spettacolo degli anelli non durò a lungo: nei primi 100 anni i frammenti di crosta terrestre proiettati in orbita cominciarono a coagularsi tra loro dando origine alla Luna.Il neonato satellite generava forze di marea sulla crosta ancora fusa (1.600° centigradi) 3.400 volte più forti di quelle attuali arrivando anche a deformare la struttura interna della Terra, ma stabilizzando l’asse di rotazione di questa nei pressi dei valori odierni e rallentandone notevolmente la rotazione, un po’ come un pattinatore che piroetta allarga le braccia per fermarsi.
Anche il gigantesco nucleo fece la sua parte generando a sua volta tensioni nella parte superiore del mantello abbastanza forti da impedire la formazione di un’unica crosta solida: è l’inizio della formazione delle zolle continentali.

Le comete

Una giornata al mare nell’Adeano

Il sistema solare allora era un posto piuttosto affollato: asteroidi e comete orbitavano intorno alla nuova stella e precipitavano spesso sui pianeti più grandi appena formati. Fu così che si formò la 3a atmosfera della Terra.
La composizione chimica delle comete è nota: ghiaccio d’acqua, metano, ammoniaca e altri idrocarburi: nella sua opera di spazzino la neonata Terra si arricchì di altra materia e di acqua, la quale raffreddò la superficie fino a creare definitivamente una crosta solida e i primi oceani che, sotto l’azione dell’attrazione lunare, contribuirono ulteriormente a rallentare la rotazione terrestre finendo per portare la durata del giorno a 22 ore.
Questi impatti   cometari quindi, oltre che a creare gli oceani, portarono sulla Terra gli elementi che avrebbero prodotto una nuova atmosfera, molto più ricca e densa: metano, ammoniaca e diossido di carbonio, e forse… la Vita. A  quel tempo l’ossigeno molecolare (O2) era rarissimo: le molecole di ossigeno appena erano disponibili si legavano chimicamente con i minerali della crosta e con quelli disciolti negli oceani, che a quel tempo, per la presenza di questi, avevano una bella colorazione verde; dimenticavo: a quel tempo l’aria non era blu come oggi per colpa dell’ossigeno: era rosa per colpa del metano, che con l’azoto era il gas più importante dell’atmosfera.

La rivoluzione fotosintetica

Sviluppo della concentrazione dell’ossigeno atmosferico

Fu con lo sviluppo delle prime forme di vita unicellulari, i cianobatteri, che la composizione dell’atmosfera cambiò radicalmente per la quarta volta, avvicinandosi alla composizione attuale: queste forme di vita, avevano letteralmente ricoperto gli oceani ed emettevano una grandissima quantità di ossigeno molecolare nell’atmosfera; finché ci furono minerali (come ad esempio le rocce ricche di ferro) disponibili per l’ossidazione, i livelli dell’O2 nell’atmosfera rimasero bassi, dopo incominciarono a salire rapidamente sostituendosi al metano. Questa è la 4a atmosfera della Terra. Una premessa: a quel tempo il Sole era circa il 20% più piccolo di oggi e l’energia solare da sola non bastava a mantenere l’acqua allo stato  liquido: il metano, che è un gas serra 23 volte più efficace dell’anidride carbonica, suppliva alla mancanza di energia con un poderoso effetto serra, che però venne a mancare quando fu sostituito dall’ossigeno.
Questo provocò il rapido congelamento degli oceani fino all’equatore trasformando un pianeta ricco di vita, una vita che ne aveva ristrutturato pesantemente la composizione chimica superficiale e atmosferica,  in una enorme palla di neve di quasi 13.000 chilometri di diametro.

 

Quanti anni ha la Terra?

Agli inizi del 20° secolo, gli scienziati ancora non erano sicuri di quanto la buona, cara e preziosa Terra sia vecchia. Al giorno d’oggi, gli scienziati usano sistemi radiometrici su vari tipi di roccia – sia terrestri ed extraterrestri – per individuarne l’età.
Molti grandi pensatori nel corso della storia c’hanno provato. Per esempio, già nel 1862 Lord Kelvin calcolò quanto tempo la Terra avrebbe impiegato per raffreddarsi dal suo originale stato fuso. Arrivò a determinare che  la Terra era nata tra 20 e 400 milioni di anni di anni fa. Oggi gli scienziati ritengono che la risposta sia sbagliata nella sostanza ma non nella forma,  in quanto  Kelvin basò sul ragionamento logico e su basi matematiche il suo studio.
Oggi gli scienziati cercano di determinare l’età della Terra attraverso lo studio degli strati di roccia del nostro pianeta, pensando che essi si siano creati col tempo. Chiunque può vedere questi strati di roccia e osservare una sezione di una montagna, magari percorrendo una strada che le scorre in mezzo. Ma gli strati rocciosi non rivelano il segreto dell’età della Terra tanto facilmente, il loro messaggio è molto difficile da decifrare. Quanti anni ha dunque la Terra? 
Abbiamo visto che ancora agli inizi del 20° secolo esistevano molte perplessità irrisolte, come ad esempio che l’età stimata di alcuni fossili indicasse date piu antiche della Terra stessa o che l’età del Sole alla luce delle scoperte di Bethe  sui meccanismi energetici delle stelle fosse molto più alta di quanto fosse mai stato prima supposto. Tuttavia, studiando gli strati di roccia depositati col passare delle ere, gli scienziati giunsero a credere che la scala di età della Terra non fosse misurabile in milioni di anni, ma in miliardi di anni.
I m
oderni metodi di datazione radiometrica  sono venuti alla ribalta tra il 1940 e il 1950. Questi metodi si basano sul principio del decadimento degli atomi di un elemento chimico in un altro,
ovvero sul fatto che alcuni elementi molto pesanti possono decadere in elementi più leggeri, come l’uranio che ad esempio decade in piombo. Lo studio di questo processo naturale ha dato luogo alla tecnica nota come datazione radiometrica.
Questo metodo si basa sul confronto tra la quantità misurata di un elemento radioattivo presente in natura e dei suoi prodotti di decadimento, ipotizzando un tasso costante di decadimento, conosciuto come tempo di dimezzamento o emivita.
Utilizzando questa tecnica, gli scienziati sono in grado attraverso l’analisi dei campioni di crosta terrestre, di ricavare le quantità di uranio e di piombo in esse presenti e il rapporto di questi valori con il tempo di dimezzamento in una equazione logaritmica, determinando così l’età delle rocce. 
Nel corso del 20° secolo, gli scienziati hanno documentato decine di migliaia di misurazioni età radiometriche. Considerate nel loro insieme, questi dati indicano che la storia della Terra si estende a ritroso dal presente ad almeno 3,8 miliardi anni nel passato.
Inoltre,  si suppone che la Terra  sia costituita degli stessi elementi  e si sia formata insieme al nostro sistema solare, quindi gli scienziati utilizzano il metodo delle datazioni radiometriche per determinare l’età di oggetti extraterrestri, come le meteoriti. Esse sono rocce provenienti dallo spazio che orbitano attorno al nostro Sole ma che vengono intercettate dal nostro pianeta durante la sua orbita. Allo stesso modo, sono state studiate le rocce lunari portate (sarebbe meglio dire riportate, ma questo sarà argomento su un futuro articolo sulla genesi della Luna) dagli astronauti.
Presi insieme, questi metodi danno risultati che suggeriscono  l’età della nostra Terra, dei meteoriti, e della Luna (e per deduzione quindi del nostro sistema solare) compresi tra i 4,5 a 4,6 miliardi di anni.  

  

Liberamente tratto da un articolo apparso su EartSky