50 anni dopo lo Sbarco sulla Luna non me la sento di festeggiare.

Ormai mancano poche ore al cinquantenario dello Sbarco sulla Luna. 
Quando fu scoperta la minaccia dei clorofluorocarburi all’intero ecosistema terrestre, nel 1997 tutti gli Stati della Terra fecero fronte comune e imposero il bando totale dei CFC col Trattato di Montreal; oggi, nonostante le belle parole, ancora non vedo lo stesso impegno per scongiurare le altrettanto gravi crisi ambientali. Per questo ora non riesco a gioire come vorrei lo storico anniversario.

 

L’equipaggio della missione Apollo 11: dalla sinistra: Michael Collins, Neil Armstrong e Buzz Aldrin (nato Edwin Eugene)

Checché alcuni allocchi continuino a sostenere il contrario, il 20 luglio del 1969 per la prima volta nella storia un essere umano mise davvero piede sulla Luna; tre uomini, eccetto uno che rimase in orbita, giunsero là dove nessuno era mai giunto prima.
Non sto a ripetere la storia delle missioni e dell’intero Programma Apollo, in questi giorni un po’ su tutte le testate giornalistiche, blog, TV e social non si parla di altro. Ma se da un lato questo mi conforta — finalmente si torna a parlare dell’esplorazione umana dello spazio in termini concreti — dall’altro mi spaventa pensare che dopo cinquanta anni, cinque decadi da quello storico momento, siamo riusciti ad arrivare sull’orlo di una crisi dell’intero ecosistema terrestre.
Mi spiego meglio: la stessa razza umana che cinquant’anni fa è riuscita a compiere quella fantastica impresa, oggi rischia di soccombere (no, non credo all’estinzione di tutto il genere umano ma al crollo della sua civiltà) per tutti gli errori e le opportunità che non ha saputo cogliere in quest’ultimo mezzo secolo.

Ci sono voluti ben tre lustri, dal 1973 al 1997, per far capire al mondo che i CFC (clorofluorocarburi) stavano distruggendo lo strato di ozono che protegge la vita sulla Terra da almeno 2 miliardi di anni. Il presidente della multinazionale Dupont (industria chimica che era fra i maggiori produttori di CFC nel mondo) bollò i primi studi come “spazzatura da fantascienza“; all’epoca i CFC erano usati dappertutto, dall’industria della refrigerazione (frigoriferi e climatizzatori per esempio) fino all’agricoltura, dall’elettronica alla lacca per capelli (bombolette spray). Eppure, dopo le prime conferme sul campo del 1985 che confermavano le responsabilità umane nella distruzione dello strato di ozono, si giunse al bando operativo su tutto il pianeta dei clorofluorocarburi. Oggi quel bando sta funzionando e,  checché ne dicano — o abbiano detto — i vari “mister Dupont” dell’epoca, quella fu la cosa giusta da fare.
Oggi la situazione è altrettanto pericolosamente grave: all’inizio del mese un’intero distretto in Giappone (Kagoshima, un milione di persone)[1] è stato costretto dalle piogge torrenziali ad abbandonare le proprie case; d’accordo, quando qui la gente aspetta ogni occasione per andare al mare per fare i primi bagni, in Giappone (giugno-luglio) è la stagione delle piogge, ma quell’evento era comunque decisamente fuori dell’ordinario anche per loro.
E anche in altri paesi e regioni climatologicamente distanti si stanno sperimentando fenomeni parossistici sempre più estremi e frequenti: l’eccezionale ondata di caldo che ha travolto l’Europa (45° vicino a Montpellier, in Francia) dopo un giugno insolitamente uggioso e fresco; 21° C. sopra il Circolo Polare Artico [2]; 50,6° C. in India appena il giugno scorso, quando qui era insolitamente fresco (nevicò in Corsica).

Coralli morti per effetto dell’innalzamento della temperatura e dell’acidità delle acque superficiali a Lizard Island (Australia) sulla Grande Barriera Corallina tra il marzo e il maggio 2016. Prima arriva lo sbiancamento, indice della morte dei minuscoli oranismi e poi la fioritura di alghe (a destra) completa l’opera di distruzione.
Credit: XL Catlin Seaview Survey

Questi segnali dimostrano tutta la fragilità di un sistema, quello climatico, che sta pericolosamente deviando per colpa delle attività umane: nel 2016 in Siberia si raggiunsero ben 33 gradi e nella regione dello Yamal (67° N) il disgelo estivo risvegliò un mortale batterio che era rimasto inerte da chissà quanti anni: il Bacillus anthracis, meglio noto come antrace; l’infezione uccise 2000 renne e un bambino; la più grande struttura vivente, visibile pure dallo spazio, ovvero la Grande Barriera Corallina a nord- est dell’Australia da almeno tre anni registra sbiancamenti (morte dei coralli) senza precedenti nella sua storia 1.

Eppure, ancor oggi, nonostante il parere pressoché unanime degli scienziati di tutto il mondo, miliardi di dollari spesi in conferenze e dibattiti internazionali, e una miriade di parole spese in buone intenzioni, quasi nulla è cambiato. Fior di sciocchi e stolti continuano a negare l’evidenza del Global Warming, alcuni bollandola addirittura come bufala comunista studiata dai cinesi per far svenare l’Occidente con l’acquisto di inutili auto elettriche e pannelli solari (fabbricati con le Terre Rare cinesi).
Ho già illustrato su queste pagine le prove del coinvolgimento umano nel Riscaldamento Globale, tanto che parlare di Anthropogenic Global Warming non è affatto sbagliato, anzi. Dopo quasi 25 anni nel 1997 riuscimmo come genere umano a fermare la grave minaccia all’intero ecosistema terrestre rappresentato dallo spregiudicato uso che facevamo dei CFC, mentre oggi una minaccia altrettanto grave si sta palesando ogni giorno; per questo oggi nonostante il cinquantenario dello Sbarco sulla Luna mi sento sconfortato.

Tornando al Programma Apollo che  portò L’Uomo sulla Luna, al di là di tutto ricordo che ogni onere – e merito – fu frutto dell’impegno di una sola nazione. Nell’anno dello sbarco, il costo per gli Stati Uniti d’America fu di 2.4 miliardi di dollari (PDF): appena un ottavo del costo dell’impegno militare in Vietnam di quell’anno che fu di circa 20 miliardi di dollari. In totale la spesa tra il 1961 e il 1973 fu di 26-28 miliardi di dollari dell’epoca (circa 270 miliardi di oggi) [3]. Nello stesso periodo il costo dell’intero sforzo bellico in  Indocina, per gli USA si avvicinò ai 200 miliardi, circa 2000 miliardi (a spanne) di oggi.
Ma mentre ogni dollaro investito nella ricerca spaziale comportava un ritorno di almeno cento negli anni successivi, i 200 miliardi nella guerra del Vietnam ebbero costi almeno triplicati dalla crisi economica successiva, dai costi sanitari per gli invalidi, la caduta del mercato interno e soprattutto la credibilità economica internazionale ne risentì.
Provate per un attimo ad immaginare se invece il bilancio militare mondiale dal 1970 ad oggi fosse stato dedicato alla colonizzazione dello spazio 2.
Con migliaia di miliardi investiti in ricerca e sviluppo invece che a cercare il miglior modo per farci stupide guerre per l’effimero controllo di un pezzo di terra pressoché tutti i mali che ancora affliggono l’umanità potrebbero essere ora un incubo del passato; oggi avremmo saputo come trasferire nello spazio tutte le attività più inquinanti e inaugurato una nuova era di pace e comunione per il genere umano; l’inquinamento che ogni anno causa milioni di morti — molti di più di un conflitto mondiale — sul nostro pianeta sarebbe potuto non essere più una minaccia per l’intero ecosistema terrestre e quel bambino dello Yamal avrebbe avuto l’opportunità di invecchiare magari proprio sulla Luna.

Ora noi potremmo darci tutte le pacche sulle spalle che vorremmo e raccontarci quanto fummo bravi 50 anni fa a raggiungere la Luna. ma se poi tra altrettanti anni (2069) la nostra civiltà non avrà ancora occasione di festeggiare quello che sarebbe potuto essere l’inizio di una nuova era per tutto il genere umano, sarà stata tutta colpa nostra e della nostra cieca stupidità e cupidigia.

 

Le veterane dello spazio: le sonde Voyager

Voyager2

Riproduzione artistica della Voyager 2. Credit: il Poliedrico

Voyager 1 e 2, così come Pioneer 10 e 11, si stanno avvicinando ai margini del sistema solare. Credit: NASA / Jet Propulsion Laboratory

Voyager 1 e 2, così come Pioneer 10 e 11, si stanno avvicinando ai margini del sistema solare. Credit: NASA / Jet Propulsion Laboratory

Sono passati 37 ani e le due sonde Voyager sono a oltre 17 ore luce da noi. Il loro segnale quando giunge sulla Terra è appena un miliardesimo di miliardesimo di watt. Eppure entrambe ancora oggi paiono in buona salute, tanto da far sperare che lavorino ancora per i prossimi 10 anni. Costruirle ha rappresentato una sfida ingegneristica incredibile e quasi irripetibile, con la tecnologia degli anni ’70 che oggi tutti riteniamo obsoleta.

Le correnti dello spazio

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Credit: Max Camenzind @ CamSoft, University of Heidelberg.

Credit: Max Camenzind @ CamSoft, University of Heidelberg.

Credit:

Credit: H. Courtois, D. Pomarède; SDvision

Credo che ormai siano rimasti in pochi a non avere mai visto una immagine come questa qui sopra: essa descrive in maniera abbastanza accurata la struttura a grande scala dell’Universo, da quando questo ha assunto il suo aspetto attuale dopo il disaccoppiamento tra materia ed energia, la formazione delle prime galassie ad oggi. La pressione di espansione dell’Universo ha diradato la materia in lunghi filamenti che l’attraversano per intero, intervallati da ampi spazi di vuoto che neppure la migliore tecnologia attuale può riprodurre: un atomo di idrogeno – un protone e il suo elettrone – per metro cubo. Però sono tutte immagini più o meno statiche, molti filmati non fanno altro che evidenziare la geometria frattale dell’Universo con zoom più o meno elaborati. Quello che hanno fatto invece i ricercatori Helene Courtois, Daniel Pomarede, Brent Tully, Yehuda Hoffman e Denis Courtois è stato di creare un filmato dell’universo locale tenendo conto  e rappresentando  i moti peculiari di oltre 30000 galassie comprese in circa 350 milioni di anni luce 1.

Il dipolo perfetto mostrato dal Cosmic Background Explorer nella Radiazione Cosmica di Fondo indica che l'Ammasso della Vergine, a cui appartiene la Via Lattea e il Gruppo Locale, è dotato di un moto centrato sul superammasso chiamato Grande Attrattore.

Il dipolo perfetto mostrato dal Cosmic Background Explorer nella Radiazione Cosmica di Fondo indica che  la Via Lattea – e il Gruppo Locale – si muove verso l’Ammasso della vergine che a sua volta si muove apparentemente verso il Grande Attrattore.

Le galassie prese in esame non sono poi molte, tenendo conto di un limite ragionevole alla magnitudine bolometrica pari a $M_B$ -16. Praticamente tutte le galassie comprese entro un raggio di 43 milioni di anni luce sono state incluse nello studio, mentre a 350 milioni di anni luce solo una galassia su 13 è stata presa in esame, per un totale che rappresenta comunque il 40% delle galassie racchiuse nello spazio considerato. I rimanenti oggetti più deboli dovrebbero ragionevolmente seguire le medesime influenze delle galassie più luminose e pertanto la loro assenza non è poi così significativa.

Tra i diversi temi affrontati, questa ricerca prova a dare una spiegazione anche alla polarità osservata nella Radiazione Cosmica di Fondo (Cosmic background radiationCMB in inglese) che mostra come la Via Lattea abbia un moto peculiare di circa 630 km/s rispetto ad essa. Questo studio evidenzia infatti almeno due grandi correnti distinte che si muovono verso strutture molto più grandi – superammassi – di cui solo uno, il Grande Attrattore 2, è compreso nello spazio preso in esame. Queste correnti fanno da cornice a vaste zone di vuoto, il Vuoto Locale 3  e finora sono state staticamente interpretate come fogli, gusci o filamenti di galassie, mentre preferisco vederle in modo più dinamico, correnti di materia che attraversano l’Universo.

Ma adesso lasciamo parlare  le immagini. Buona visione.

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Altri riferimenti:

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Note:


La Panstarrs dallo spazio

In poche altre occasioni sono stato in apprensione per il meteo come in questi giorni. In queste sere appunto sarebbe visibile ad ovest subito dopo il tramonto la cometa C/2011 L4 PanSTARRS. Il condizionale è d’obbligo perché proprio in questi giorni la mia regione, come buona parte dell’Italia, è investita dal maltempo che ostacola qualsiasi occasione di osservare la cometa.

Esistono un paio di osservatori che sono immuni al maltempo atmosferico, anche se sono sicuramente esposti a tempeste ben più gravi: sono le sonde Stereo A e B che studiano costantemente il Sole da sei anni.

Lo scorso 10 marzo la sonda Stereo B è riuscita ad offrire una immagine unica della PanSTARRS vista dallo spazio insieme a Mercurio e alla Terra. L’immagine è stata pubblicata su Twitter da Sungrazin Comet, un sito che chi è a caccia di comete non può mancare di apprezzare.
Lascio a Voi giudicare queste immagini che non voglio commentare più di tanto. Buona visione e … Cieli Sereni!

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Credit: SOHO/Sungrazing Comets/SSC

Credit: SOHO/Sungrazing Comets/SSC

Credit: SOHO/Sungrazing Comets/SSC

Il transito di Venere visto dallo spazio

Proprio non ce l’ho fatta.

Avrei voluto pubblicare qualche immagine ripresa da me ma è stato impossibile. L’orrendo caseggiato che hanno costruito un paio di anni fa davanti alla mia casa mi ho impedito di vedere sorgere il Sole nelle ultime fasi del transito. E così ripiego su qualcosa di altrettanto spettacolare e sicuramente più valido dal punto di vista scientifico, ma ahimé, non mio.

In ogni momento il disco di Venere si proietta contro il Sole, la rarità dell’evento è solo legata al fatto che Venere e la Terra hanno piani orbitali leggermente diversi che solo quando si intersecano e Venere transita proprio di lì è possibile vedere la sagoma del secondo pianeta proiettarsi contro la luminosa superficie del Sole.
Questo avviene ogni 243 anni, con coppie di transiti separate da un intervallo di 8 anni (ricordate? le orbite della Terra e di Venere sono in risonanza 13/8), che si ripetono in periodi più ampi di 121,5 e 105,5 anni. Al di là della freddezza dei numeri e dell’assenza di magia nella spiegazione scientifica del curioso fenomeno, non possiamo non apprezzare la bellezza di quello che ogni istante la natura ci offre.

Anche nei filmati che qui sotto propongo possiamo cogliere la bellezza del fenomeno oppure la raffinatezza della scienza che dai tempi di Galileo ha imparato a mostrarci un universo sconosciuto ai normali sensi umani e tutti i fenomeni ad esso associati. Ringrazio la NASA che ha reso pubbliche queste immagini riprese dagli strumenti del Solar Dynamic Observatory.

Buona visione.

Transito di Venere sul Sole osservato dallo strumento HMI (Helioseismic and Magnetic Imager) a bordo dell’osservatorio spaziale Solar Dynamic Observatory della NASA (NASA/SDO).

AIA 1 94: Ripresa del transito alla lunghezza d’onda di 94 Å (estremo ultravioletto). L’analisi del Sole a questa lunghezza d’onda consente di studiare la corona a temperature estremamente elevate (circa 6 milioni di gradi Kelvin) e i brillamenti solari.

AIA 171: a 171 Å (ultravioletto estremo) vengono studiati gli archi dei plasma che si muovono lungo le linee del campo magnetico e si estendono fuori del Sole. Qui le temperature in gioco sono dell’ordine di 1,8 milioni di gradi Kelvin.

AIA 193: alla lunghezza d’onda di 193 Å (ultravioletti estremi) si studia la corona solare a una temperatura di 1,25 milioni di gradi. I brillamenti solari e i CME qui appaiono come più luminosi mentre le regioni più scure sono i buchi coronali, zone relativamente più fredde responsabili di gran parte del vento solare.

AIA 304: qui si studiano i filamenti e le protuberanze solari sopra la fotosfera. Alla lunghezza d’onda di 304 Å (ultravioletto estremo) le aree più chiare sono quelle dove il plasma è più denso. Qui la temperatura è di soli 50000 Kelvin.

AIA 335: anche a 335 Å viene messa in evidenza la zona attiva della  corona solare. Anche qui le regioni più attive, i brillamenti solari, e le espulsioni di materia coronale appaiono luminose mentre le aree più scure sono i buchi coronali.

AIA 1600: a 1600  Å (ultravioletto lontano) viene messa in evidenza la fitta trama dei campi magnetici sulla fotosfera superiore. La temperatura qui è di appena 6000 gradi Kelvin. Le regioni più oscure sono dove i campi magnetici sono più fitti, come accade intorno alle macchie solari e alle regioni attive.

 

Buckminsterfullereni nello spazio


Embedded video from
NASA Jet Propulsion Laboratory California Institute of Technology

Credit: http://www.spitzer.caltech.edu

Usando il NASA Spitzer Space Telescope gli astronomi (Sellgren ed altri) hanno trovato traccie di carbonio in tutta la nostra galassia:  prima attorno a NGC 2023, vicino alla famosa Nebulosa Testa di Cavallo nella costellazione di Orione, poi attorno a  NGC 7023, conosciuta come la Nebulosa di Iris, nella costellazione di Cefeo: nello spazio interstellare e intorno a stelle morenti.  Ma com’era prevedibile tracce di carbonio sono state trovate anche attorno a un’altra stella morente nella Piccola Nube di Magellano: l’equivalente in massa come 15 volte la Luna.
Non è carbonio atomico comune, ma sono molecole di fullerene, cioè 60 atomi di carbonio legati fra loro a comporre un poliedro, una pallina. Il fullerene deve il suo nome per la sua somiglianza con le cupole geodetiche disegnate da Buckminster Fuller.

In matematica, un fullerene è un poliedro convesso trivalente con facce esagonali e pentagonali. Usando la formula di Eulero, si può dimostrare facilmente che ci sono esattamente 12 pentagoni in un fullerene. Il più piccolo fullerene è il C20, il dodecaedro. Non ci sono fullereni con 22 vertici. Il numero di fullereno C2n si sviluppa velocemente con l’aumento di n = 12, 13, …
Per esempio, ci sono 1812 fullereni non-isomorfici C60 ma soltanto uno di essi, il fullerite, non ha accoppiamento di pentagoni adiacenti.

Per l’astronomo Letizia Stanghellini del National Optical Astronomy Observatory di Tucson, in Arizona, l’aver scoperto che i fullereni sono molto più comuni di quanto inizialmente supposto può avere importanti implicazioni sulla chimica della Vita: è possibile che questi possano aver fatto da vettori per il trasporto di molecole prebiotiche sulla giovane Terra a cavallo di comete e meteore.
Infatti la chimica del fullerene è impressionante: è una delle molecole non organiche più grandi conosciute e la sua struttura composta unicamente dal carbonio la rende  particolarmente resistente. Il suo interno però è vuoto e per questo è in grado di intrappolare altre molecole proteggendole dalle dure condizioni dello spazio cosmico. Fullereni di origine extraterrestre ritrovate nei meteoriti hanno mostrato di contenere gas al loro interno, come una palla da calcio contiene aria.
Questa caratteristica rende le molecole di fullerene uniche e interessanti dal punto di vista della chimica interstellare e prebiotica, oltre che per la memdicina, la metallurgia, i materiali ottici, i superconduttori etc.
Inoltre le ricerche astronomiche hanno provato quello che in laboratorio era considerato impossibile, ossia la coesistenza dei fullereni con l’idrogeno atomico, quando invece si riteneva che questo avrebbe spinto il carbonio a formare altri composti come catene e altre strutture molecolari piuttosto che poliedri, e questo per Anibal García-Hernández dell’Instituto de Astrofísica de Canarias in Spagna è importante capire perché. García-Hernández è l’autore principale di uno studio il cui co-autore è Letizia Stanghellini [1]·

Ora quando vedrete un fullerene, o più semplicemente il logo di questo Blog, capirete perché l’ho scelto.

[1] http://arxiv.org/abs/1009.4357

Altre fonti:

http://www.jpl.nasa.gov/news/news.cfm?release=2010-351

http://www.spitzer.caltech.edu/news/1212-feature10-18