Una meridiana un po’ particolare

20 aprile 2012 Credit: Il Poliedrico

Lo so, la foto qui sopra fa un po’ schifo, sgranata, in bianco e nero,  oggetti non bene identificabili. La fotocamera di ripresa è una Powershot A650, macchina eccellente ma pur sempre una compatta, con tutti i suoi limiti di ripresa in condizioni di luminosità quasi nulla.
Per diverso tempo i fotogrammi sono stati dimenticati in una directory  fino a che l’altro giorno li ho ripescati e sottoposti a pesante restauro. Questo fotogramma  è uno di loro, l’ho recuperato da uno apparentemente nero e questo è proprio il massimo che sono riuscito a fare.
Quello che vedete è un tergicristallo alzato di un’auto, dietro c’è un foglio bianco su ci il braccetto del tergicristallo ha proiettato un’ombra. Il concetto del mio esperimento è lo stesso di un meridiana.

La domanda appunto è:

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Fra una settimana lo saprete!

 

Curiosity scopre le tracce di antichi fiumi marziani

I canali di Marte di Schiaparelli.
Credit: http://tinyurl.com/bpwtdl2

Marte è sempre stato oggetto di accese discussioni in ambito accademico e scientifico.
Quando ancora i telescopi erano semplici lenti di vetro alle estremità di un tubo ottico, le cui prestazioni oggi farebbero sorridere, si speculava se Marte fosse o meno adatto ad ospitare la vita. Le variazioni cromatiche della superficie, legate all’evoluzione delle stagioni marziane, che oggi sappiamo essere provocate da gigantesche tempeste di sabbia, venivano allora interpretate con l’avanzata e il ritiro della vegetazione marziana in prossimità di mari poco profondi alimentati dalla liquefazione delle calotte polari.
L’astronomo italiano Giovanni Schiaparelli durante l’opposizione del 1877 credette di scorgere delle depressioni rettilinee di 100 – 200 chilometri di larghezza e lunghe migliaia di chilometri sulla superficie marziana e suggerì che potesse essere il mezzo con cui l’acqua liquida raggiungesse le parti più aride del pianeta.
Mentre alcuni scienziati quasi immediatamente rifiutarono questa ipotesi ritenendola – giustamente – il frutto di aberrazioni ottiche o di pareidolia, l’astronomo americano Percival Lowell 1 sposò questa tesi, ipotizzando che addirittura le depressioni scorte da Schiaparelli fossero addirittura di origine artificiale.

Quando le prime missioni spaziali negli anni 60 del XX secolo dimostrarono che il Pianeta Rosso era un arido e immenso deserto, il dibattito si spostò nel tempo: forse Marte un tempo possedeva le condizioni per possedere l’acqua allo stato liquido?

Queste immagini mostrano la sublimazione del ghiaccio nel corso di quattro giorni.
Nell’angolo in basso a sinistra dell’immagine di sinistra, è visibile un gruppo di grumi di ghiaccio. Nell’immagine a destra, i grumi sono evaporati.

Credit: NASA/JPL

Agli inizi del XXI secolo la sonda orbitale Mars Odyssey e la Mars Express scoprirono probabili bacini di ghiaccio d’acqua sotto la superficie marziana e il robot Phoenix confermò la presenza di ghiaccio su Marte con questa sua foto.
Adesso il Mars Scienze Laboratory – per gli amici Curiosity – ha scoperto prove concrete della presenza di antichi corsi d’acqua su Marte
Dopo neanche due mesi di infaticabile studio 2 è arrivato in prossimità di quello che pare un antico letto essiccato di un ruscello e ha fotografato un conglomerato sedimentario 3 simile a quelli che si vedono lungo le rive dei corsi d’acqua.
Le dimensioni e la forma particolarmente arrotondata dei clasti appartenenti al  conglomerato indicano che sono state trasportate per lunghe distanze. Gli scienziati hanno tentato di risalire a informazioni più dettagliate sulle caratteristiche di questo antico ruscello marziano. Al di là dei numeri crudi 4, la notizia importante è che pare che il corso d’acqua non sia stato un episodio stagionale o episodico legato a sporadiche particolari condizioni microclimatiche o geologiche, ma piuttosto a un vero fiume stabile nel tempo.

Questo insieme di immagini a confronto il link affioramento di rocce su Marte (a sinistra) con rocce simili visto sulla Terra (a destra).
Credit: NASA / JPL-Caltech / MSSS e PSI

Il letto di questo antichissimo ruscello si trova vicino al bordo nord del cratere Gale e alla base del Aeolis Mons 5, una montagna all’interno del cratere. Qui una depressione chiamata Peace Vallis dà origine a un bacino alluvionale ricco di tracce , suggerendo così la presenza di flussi d’acqua costanti nel tempo.

Ma per quanto possa apparire quasi un controsenso, il greto di un fiume non è un buon posto per cercare delle tracce organiche che potrebbero non essersi conservate per tutto questo tempo, sicuramente i minerali argillosi e i solfati rilevati dall’orbita attorno alle pendici dell’Aleolis Mons, obiettivo principale del Curiosity. Ne è convinto John Grotzinger del California Institute of Technology di Pasadena e Project Scientist della missione Mars Science Laboratory, che comunque assicura che questa è la prima prova concreta di un ambiente passato potenzialmente adatto alla vita.

Questa immagine mostra la topografia, attorno alla zona in cui il rover NASA è atterrato lo scorso 6 agosto. Le zone più elevate sono colorate di rosso, mentre i colori freddi indicano le quote più basse. L’ovale nero indica l’area di destinazione di atterraggio del rover conosciuto come “ellisse di atterraggio”, e la croce mostra dove il rover è effettivamente sbarcato. Il delta alluvionale,  dove i detriti si estendono nel tratto discendente, è stato evidenziato con colori più chiari per una migliore visualizzazione. Sulla Terra, i delta alluvionali spesso sono formati da acqua che scorre nel tratto discendente.   I I dati dell’elevazione sono stati ottenuti dalla  High Resolution Imaging Science Experiment (HiRISE) della sonda NASA Mars Reconnaissance Orbiter.
Credit: NASA / JPL-Caltech / UofA

 


 

Oppy scopre alcune misteriose sfere marziane

Sfere misteriose su Marte

Utilizzando la sua Microscopic Imager, Opportunity ha fotografato questi piccoli oggetti sferici il 6 settembre 2012. La vista si estende su una superficie di circa 2,4 cm di diametro ad un sperone chiamato “Kirkwood” sul bordo occidentale del cratere Endeavour.

Mentre tutti gli occhi del mondo sono puntati sulle gesta del rover Curiosity, il piccolo e longevo rover Opportunity ha restituito un’immagine della superficie di Marte che ha lasciato sconcertati i ricercatori.

L’immagine riprende  un affioramento chiamato Kirkwood sul bordo occidentale del cratere Endeavour e mostra misteriosi oggetti sferici che differiscono in diversi modi dalle sferule ricche di ferro soprannominate mirtilli 1 che Oppy aveva scovato all’inizio del 2004 presso il suo sito di atterraggio.
Queste sferule misurano circa 3 millimetri di diametro. L’analisi, ancora preliminare, indica che queste sfere non hanno un alto contenuto di ferro come i mirtilli marziani.

“Questo è uno dei quadri più straordinari di tutta la missione”, ha detto il ricercatore principale della missione Opportunity, Steve Squyres della Cornell University di Ithaca, NY,  “Kirkwood è pieno zeppo di questi piccoli oggetti sferici. Naturalmente, abbiamo subito pensato ai mirtilli, ma questo è qualcosa di diverso. Non abbiamo mai visto un tale accumulo denso di sferule in uno sperone di roccia su Marte. ”
“Sembrano essere croccanti fuori e morbide dentro”, ha detto Squyres. “Sono diverse nella loro concentrazione. Sono diverse nella struttura. Sono diverse nella composizione. Sono diverse nella distribuzione. Quindi, abbiamo un puzzle geologico di rara bellezza di fronte a noi. Stiamo studiando diverse ipotesi e non abbiamo nessuna ipotesi preferita in questo momento. Quindi l’unica cosa da fare ora è mantenere una mente aperta. “


 

PTF 11kx, un mistero da risolvere

PTF 11kx è il puntino blu in questa galassia a 600 milioni di anni luce di distanza.
Credit: BJ Fulton (Las Cumbres Osservatorio in rete Telescope Globale)

Le supernovae di tipo Ia sono degli ottimi indicatori di distanza su scala cosmica 1. È merito delle loro esplosioni se è stato possibile capire quanto sia enorme il nostro Universo.
Eppure di tutte le supernovae finora osservate non ce n’era una di cui si possedesse qualche indizio sul sistema progenitore, tutto era basato sull’intuizione teorica. Finora …
Infatti i ricercatori del Palomar Transient Factory, attraverso un complesso sistema di allerta computerizzato collegato al telescopio robotizzato Samuel Oschin da 120cm è riuscito a cogliere indizi sul sistema che ha dato origine alla supernova PTF 11kx.

 PTF 11kx è una supernova di tipo Ibis esplosa in una galassia a 600 milioni d anni luce (z = 0.04660) di distanza nella costellazione Lince 2 scoperta il 16 gennaio 2011.
Quando fu scoperta, la supernova mostrava strane righe del calcio il che è abbastanza insolito, tanto che i ricercatori del PTF allertarono subito i loro colleghi dell’Osservatorio Keck alle Hawaii.

PTF 11kx
Credit:astro.berkeley.edu

Presto gli astronomi del Keck si accorsero che il guscio di polveri attorno alla supernova responsabile delle righe di assorbimento del calcio era troppo lento per essere prodotto da una esplosione di supernova ma troppo velocemente per essere frutto del semplice vento stellare.
L’unica spiegazione plausibile era che questo guscio avesse avuto origine da una nova preesistente a PTF 11kx e che stesse rallentando quando fu investito dall’esplosione di supernova.
Nei giorni successivi il segnale del calcio stava scomparendo, quando 58 giorni dopo rieccolo apparire, sintomo evidente che i gusci concentrici erano evidentemente più di uno.
A questo punto era chiaro che il progenitore di PTF11kx era un sistema binario composto da una nana bianca e una supergigante rossa.

Altri studi non sono mai stati conclusivi sui sistemi progenitori di supernova. Una delle supernovae più precoci mai avvistate nonché  la più vicina Ia dal 1972, SN 2011fe, o se preferite PTF 11kly visto che fu scoperta dallo stesso team della nostra eroina e con gli stessi mezzi,  non ha mostrato particolari segnali che potessero dirci quali erano le condizioni fisiche preesistenti al momento dell’esplosione, ponendo limiti assai restrittivi sui possibili sistemi originari 3

PTF 11kx è un bel rompicapo: a un sistema binario come quello ipotizzato dagli astronomi non è insolito produrre più eruzioni di nova: nella nostra Galassia abbiamo RS Ophiuchi a non più di 5000 anni luce che lo fa abbastanza spesso (6 volte negli ultimi 114 anni, l’ultimo nel 2006) e sappiamo bene come funziona: una nana bianca sottrae materia dalla sua compagna gigante rossa per effetto mareale; la materia forma quindi un disco di accrescimento intorno alla nana bianca finché in un punto non si raggiungono temperature e densità tali da innescare una fusione nucleare. l’esplosione susseguente disperde il disco di accrescimento e il ciclo si ripete.
Quindi c’è da chiedersi come questa volta si sia potuto accumulare tanta materia fino al limite di Chandrasekhar di quasi 1,4 masse solari nel sistema progenitore fino a produrre una supernova.

Un mistero che se risolto potrebbe svelarci ancora molte cose sulle origini delle Candele Cosmiche.

Pronto il Sardinia Radio Telescope

Il Sardinia Radio Telescope – Credit: Istituto Nazionale di Astrofisica

Finalmente ci siamo!
Il più grande ed evoluto radiotelescopio interamente italiano ha visto la sua prima luce celeste l’8 agosto scorso.
Il Sardinia Radio Telescope (SRT) è nato grazie all’impegno e il contributo del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, della Regione Autonoma della Sardegna e della Agenzia Spaziale Italiana.
Quest’ultima si avvalsa della preziosissima esperienza dell’Istituto di Radioastronomia di Bologna che gestisce il complesso di Medicina (BO) 1  dove gran parte del radiotelescopio è stato progettato.

La parabola del 32 metri di Medicina (BO)
Credit: il Poliedrico

Il progetto dell’SRT prese il via negli anni ’90 e doveva essere concluso nel 2006 2 anno in cui di fatto è iniziata la costruzione e terminato nel 2011, per una spesa complessiva di circa 60 milioni di euro.
I numeri dell’SRT sono di tutto rispetto: 3000 tonnellate di peso per 70 metri di altezza, e un paraboloide di 64 metri, il doppio rispetto a quello di Medicina. Comunque per le caratteristiche principali ci sono questi splendidi filmati realizzati dall’INAF che sono più esaustivi di mille parole che potete trovare a questo indirizzo.
Sottolineo solo che il paraboloide primario del radiotelescopio è dotato di superficie attiva realizzata con ben 1008 pannelli di alluminio per 1116 attuatori, come i più moderni telescopi ottici.
Questo è essenziale per le osservazioni a lunghezze d’onda millimetriche. Infatti lo spettro in cui opererà SRT comprenderà anche frequenze tra 23 e 100 GHz.
L’SRT potrà osservare nelle bande di frequenza tra 300 MHz fino a 100 GHz semplicemente scambiando i ricevitori nelle loro posizioni focali – ricevitori multi-beam,  uno dei motivi per cui è stata scelta la particolare configurazione gregoriana che genera il fuoco dietro la parabola principale.

Comunque l’SRT non sarà solo uno strumento di ricerca astrofisica, ma svolgerà anche le funzioni di controllo delle missioni automatiche di esplorazione planetaria e dei satelliti artificiali in orbita e analisi geofisiche molto accurate sui movimenti delle placche tettoniche.
Inoltre la superficie attiva dello specchio primario rende l’SRT particolarmente indicato per studiare nel millimetrico lo studio dei corpi celesti e le nubi molecolari.
Integrando l’SRT con gli altri radiotelescopi italiani di Medicina, Noto e San Basilio  si avrà la prima rete interferometrica italiana a lunga distanza (I-VLBI),  un unico radiotelescopio virtuale grande quanto è la distanza fra le varie antenne reali.

Per concludere, l’SRT è un chiaro esempio di cosa sia capace di produrre la ricerca e la tecnologia italiana, un autentico gioiello di cui andar fieri.


L’antico oceano di Marte

Nell’attesa che il rover Curiosity – sbarcato su Marte soltanto ieri l’altro – inizi il suo prezioso lavoro sul campo, vorrei ricordare l’ipotesi della presenza di un antico oceano sul Pianeta Rosso.

La Terra senz’acqua. Eppure da una analisi altimetrica dedurre dov’erano gli oceani non è difficile. Credit: Il Poliedrico

Provate ad immaginare che tutta l’acqua della Terra scompaia improvvisamente. Il favoloso Puntino Blu del cosmo ridotto a una insignificante palla polverosa.
Eppure nonostante tutto, per un osservatore attento non è impossibile ricostruire – con un certo margine di incertezza è ovvio – l’antico aspetto del pianeta.
In fondo non è difficile il concetto di fondo: tutti le foci dei corsi d’acqua terminano più o meno alla medesima quota con uno scarto di poche decine di metri, mentre una mappa altimetrica mostra tutte le aree al di sopra e al di sotto di tale limite.
Riassumendo, il Rio delle Amazzoni e il Gange, la Senna e il Tamigi, oppure lo Huáng Hé (Fiume Giallo) e il Mississippi hanno tutti una cosa in comune: sboccano tutti in diversi oceani comunicanti tra loro. Di conseguenza la quota delle loro foci, con lo scarto di pochi metri, è la stessa.
Una volta stabilito dalle analisi dei depositi di origine alluvionale e dalle tracce minerali che sul sasso polveroso una volta esisteva l’acqua allo stato liquido, immaginare l’esistenza di vaste distese d’acqua al di sotto della quota limite è il passo logico successivo; l’isoipsa 1 che congiunge tutte le foci rappresenta quello che adesso noi chiamiamo livello del mare.

Una rappresentazione artistica di come sarebbe potuto apparire Marte durante il Noachiano, 3,5 miliardi di anni fa. – Credit Wikipedia

Per nostra fortuna ancora la Terra non ha perso la sua acqua, lo farà fra diversi miliardi di anni se tutto va bene, ma c’è un posto dove si può verificare questo schema: Marte.
In un lavoro apparso nel 2010 su Nature Geoscience 2   i geologi planetari Gaetano D’Achille e Brian M. Hynek, all’epoca in organico all’Università del Colorado,  hanno analizzato i dati delle missioni NASA ed ESA a partire dal 2001 e hanno identificato almeno 56 strutture naturali che appaiono come antichissimi corsi d’acqua e le loro foci, identificandone almeno 29 che hanno in comune la stessa quota.
La superficie equipotenziale risultante pare essere un bacino che copre circa il 36% della superficie 3 marziana, che se fosse riempito d’acqua corrisponderebbe a circa 124 milioni di chilometri cubi distribuiti sull’emisfero settentrionale.
L’emisfero settentrionale di Marte è noto per avere una quota media notevolmente inferiore rispetto al resto del pianeta. Le pianure settentrionali conosciute con il nome di Vastitas Borealis si trovano 4-5 km al di sotto del raggio medio del pianeta; questa curiosa caratteristica di Marte è conosciuta come Dicotomia Marziana, scoperta nel 1972 dalla sonda Mariner 9.
Quindi la famosa dicotomia marziana avrebbe un significato ancora più preciso: circa 3,5 miliardi di anni fa il nord del pianeta occupato da un vasto e poco profondo oceano su cui spiccavano i coni di enormi vulcani. A sud una terra asciutta e solcata da fiumi che sfociavano a nord e una piccola calotta polare.

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L’estensione di Oceanus Borealis su Marte.
Credit: Università del Colorado

Comunque oggi è difficile immaginare Marte con un oceano di acqua liquida.
Adesso la pressione atmosferica diurna (636 Pa) supera appena quella del punto triplo dell’acqua 4 alle quote più basse. Più in alto questa può esistere solo come ghiaccio o vapore. Anche la temperatura media su Marte è di  -65° C, troppo poca percé l’acqua diventi liquida.
Quindi 3,5 miliardi di anni fa, durante il Noachiano 5, le condizioni ambientali dovevano essere molto diverse.
All’inizio Marte possedeva una atmosfera simile a quella attuale come composizione, ma molto più spessa, tanto da garantire sul Pianeta Rosso all’incirca la stessa pressione che c’è ora sulla Terra.
Il Sole, più pallido e piccolo di quello attuale, permetteva però un discreto effetto serra, probabilmente accentuato da più alte concentrazioni di metano atmosferico e nubi di anidride carbonica. Tutto questo avrebbe potuto innalzare la temperatura marziana sopra il punto di congelamento dell’acqua e consentire l’esistenza di un ciclo idrologico simile a quello terrestre, con nubi di vapore acqueo che si formavano sull’oceano e che si scaricavano sulla terraferma formando fiumi e scavando profonde gole.
La mancanza però di un campo magnetico importante 6 ha permesso in seguito al vento solare di spogliare Marte di gran parte della sua atmosfera e fatto evaporare il suo oceano rendendolo la piccola e polverosa palla di adesso.


 

Le Perseidi d’agosto

Credit: Il Poliedrico

Come ogni anno di questo periodo sono qui a ricordarvi dello sciame delle Perseidi, originato dallo sciame di detriti che la cometa Swift-Tuttle 1 disperde lungo la sua orbita in prossimità del suo perielio.

Le prime testimonianze delle Perseidi si trovano nei resoconti cinesi fin dal 36 dC che narrano di 100 meteore in una notte. 
Numerosi sono infatti i riferimenti che appaiono nei documenti cinesi, giapponesi e coreani nel corso dei secoli successivi, dall’8° fino al 11° secolo. Tuttavia, a titolo di cronaca, si riscontrano solo sporadici riferimenti nel 12° e nel 19° secolo.
Le Perseidi sono  comunemente conosciute come le “lacrime di San Lorenzo”, perché probabilmente nel passato il massimo dello sciame cadeva il 10 d’agosto, quando in Italia si festeggia il martirio del Santo che per la tradizione cristiana fu graticolato 2.
Fu comunque Adolphe Quetelet, che nel 1835 si accorse che lo sciame aveva un periodo annuale centrato in agosto e che sembrava provenire dalla costellazione del Perseo.

Quest’anno non sarà come l’anno scorso con  la Luna Piena a offuscare la vista del cielo. Infatti questa sorgerà alle 2 del mattino a circa 50° dal punto radiante dello sciame, ma sarà illuminata solo per il 20%, creando così poco disturbo al fondo cielo.
Le previsioni per quest’anno parlano di almeno 55-60 tracce orarie dopo le 02:00 tempo locale fino all’alba, ma si sa, le previsioni sono fatte per essere smentite.
Per i suggerimenti all’osservazione consultate gli altri articoli che ho già pubblicato, troverete senz’altro altre informazioni molto utili.


Note:

Le misteriose origini del metano marziano

Continuo ancora a parlare di Marte e dei suoi ancora in gran parte irrisolti misteri. Dopo gli esperimenti biologici delle Viking e del carbonio organico marziano ora tocca al metano che, se nessun marziano ha lasciato i rubinetti del gas aperti, dà non pochi problemi agli scienziati spiegarne per le origini. Fra meno di sessanta giorni Curiosity si adagerà sul suolo del Pianeta Rosso e forse avremo delle risposte più concrete alle nostre domande, o forse ne otterremo di nuove.

Tra pochi giorni il Mars Science Laboratory finalmente arriverà su Marte per cercare di rispondere a tantissime domande che finora le altre missioni precedenti hanno solo scalfito o che hanno prodotto di nuove.
Una di queste è forse poco nota, riguarda la sua atmosfera, o meglio un suo componente: il metano 1.
Nel 2003 – anno della scoperta – la scoperta del metano nell’atmosfera marziana suscitò un vespaio di domande, tanto più che successivamente si scoprì che la sua presenza nella tenue atmosfera di Marte 2  seguiva un andamento stagionale ed era localizzata soltanto in alcune regioni ben precise 3, come la Arabia Terra, la regione Nili Fossae e l’antico vulcano  Syrtis Major, una regione basaltica molto scura 4.

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Contrariamente a quanto si potrebbe supporre, l’atmosfera di Marte è stracolma di ossigeno, peccato che esso sia spesso combinato con il carbonio – come mostra la tabella.
Tutti gli altri elementi o composti chimici sono presenti in tracce o poco più, tra questi  ci sono  anche questi pennacchi estivi di metano che sono un vero rompicapo per i planetologi.
Il metano nell’atmosfera è chimicamente instabile, la radiazione ultravioletta del Sole lo decompone, e su Marte arrivano un sacco di ultravioletti 5 .
L’origine per  ora è ancora sconosciuta , anche se è improbabile che questi pennacchi siano di origine biologica; stando alla natura altamente localizzata di questi pennacchi dovremmo affermare che la presenza di queste forme di vita siano legate solo ed esclusivamente a certi habitat particolari presenti solo in alcuni siti del Pianeta Rosso e non – come ci dovremmo attendere – su tutto il pianeta e a particolari condizioni climatiche presenti solo in alcuni periodi dell’anno marziano; oppure forse dovremmo pensare che questi siano gli ultimi scampoli di vita 6 in un pianeta ormai morto da eoni.
Un po’ troppe condizioni a contorno secondo me per cui si possa parlare di origine biologica dei pennacchi di metano.
L’altra ipotesi è che ci siano dei depositi di gas intrappolati in profonde valli o nel sottosuolo sotto forma di permafrost o di depositi di clarati idrati 7. Questi depositi potrebbero parzialmente sciogliersi durante l’estate marziana ed essere responsabili dei famosi pennacchi 8.
Infine oppure, il metano di chiara origine abiotica, può essere emesso da una qualche forma  residua di attività vulcanica secondaria, come i resti di antichi camini vulcanici, fumarole o pozzi termali.

Qualunque sia comunque il meccanismo di diffusione del metano marziano, rimane da scoprire la sua origine, ovvero se questo sia di  origine biologica o meno.
Il meccanismo biologico è chiaro, il metano sarebbe il prodotto di scarto dell’attività metabolica di microrganismi che ancora non sappiamo 9 con certezza se esistano o meno.
Il meccanismo abiotico è un po’ più complicato da spiegare. Questa ipotesi vuole che il metano venga prodotto in profondità nella crosta marziana attraverso un fenomeno di serpentinizzazione 10 delle rocce basaltiche 11 12.

Entrambe le teorie sono intriganti dal punto di vista scientifico, possono essere vere entrambe o nessuna delle due, ma quale scegliere?
In mancanza di una prova diretta e definitiva di una una qualche attività biologica su Marte, si possono cercare altri marcatori tipici dei processi di generazione del metano.
Sulla Terra infatti l’attività metabolica dei batteri metanogeni è quasi sempre accompagnata da altre molecole organiche complesse formate da carbonio e idrogeno come l’etano o l’acetilene 13, mentre per il metano di origine vulcanica è quasi sempre accompagnato da anidride solforosa etc.
Quindi riuscire a scoprire quali marcatori secondari sono presenti nei pennacchi di metano può aiutare senz’altro a comprenderne l’origine, ma se nessuno di questi fossero presenti?
Esiste una terza via. La Vita tende a ottimizzare i suoi processi col minor consumo di energia possibile per cui tende ad usare gli isotopi più leggeri degli atomi disponibili in un ambiente.
Quindi c’è da aspettarsi che il metano di origine biologica abbia meno deuterio dell’acqua marziana; se il rapporto isotopico D/H del metano è inferiore a quello dell’acqua, allora ci sono pesanti probabilità che sia trovato un altro indizio sulla presenza di Vita su Marte.


Intervista a Giorgio Bianciardi sul Labeled Release Experiment

L’8 maggio 2012 ho intervistato  il Dott. Giorgio Bianciardi – che conosco personalmente da anni – in proposito alla sua ricerca sui risultati dell’esperimento Labeled Release  (LR), come seguito del mio precedente articolo Caccia ai microrganismi marziani, le nuove ricerche sugli esperimenti Labeled Release.
Colgo l’occasione per scusarmi col dott. Bianciardi per non aver forse sottolineato abbastanza che lui è il primo firmatario della ricerca 1 e che è anche medico oltreché biologo presso l’Università di Siena e attuale vicepresidente dell’Unione Astrofili Italiani.
Ecco a voi  l’intervista, ma prima facciamo un veloce ripasso della storia della ricerca biologica delle Viking:

Il Labeled Release Experiment

L’esperimento Labeled Released (LR) fu ideato dal dott. Levin alla fine degli anni cinquanta del secolo scorso per cercare attività biologica su Marte 2 e venne scelto insieme ad altri tre esperimenti per sondare il suolo marziano alla ricerca di tracce biologiche nelle due missioni gemelle Viking giunte su Marte nel 1976.

L’esperimento LR consisteva nel prelevare alcuni campioni di suolo marziano e aggiungervi una soluzione altamente nutritiva – e molto diluita –  composta da alcuni semplici elementi organici derivati dagli esperimenti di Miller e Hurey (glicina, D-alanina e L-alanina, formato, D-lattato di sodio e L-lattato di sodio, glicolato)  a cui però il comune carbonio era stato sostituito con la versione radioattiva di questo: il carbonio 14 (14C). Eventuali microrganismi eterotrofi avrebbero assimilato le sostanze nutritive e rilasciato il 14C nell’aria. L’atmosfera sopra i campioni veniva monitorata per diversi giorni al ritmo di una rilevazione ogni 16 minuti.

Fin da subito il monitoraggio dei campioni di suolo marziano trattato con i composti nutrienti evidenziò un rilascio di 14C 3. Invece i campioni di suolo pretrattati con un riscaldamento di 160° centigradi per tre ore, il rilascio non avvenne, segno inequivocabile di una qualche attività metabolica o di qualcosa che potesse imitarne gli effetti.

Una sonda Viking – Credit: NASA

Alla fine fu convenuto da molti scienziati che si fosse trattato della seconda ipotesi, che il terreno marziano fosse ricco di perossidi 4 e che questi avessero prodotto un risposta di stampo biologico all’aggiunta dei nutrienti, mentre il riscaldamento dei campioni aveva distrutto i legami covalenti dell’ossigeno nei perossidi e quindi inibito qualsiasi risposta.
Intanto il gascromatografo di massa (CG/MS) non rilevò alcuna presenza organica nei campioni di suolo, ma solo anidride carbonica, acqua e composti del cloro (clorometano e diclorometano) che furono scambiati per residui dei solventi usati sulla Terra per pulire le celle dei due laboratori. Fu solo con la sonda Phoenix che il mistero è stato risolto 5:  la sonda scoprì che il terreno marziano è ricco di perclorati che una volta riscaldati distruggono le molecole organiche rilasciando appunto i due prodotti scoperti dal gascromatografo delle Viking.

Il dott. Levin non fu mai persuaso dalla tesi ufficiale, e per oltre un decennio studiò e ripeté l’esperimento LR con campioni di suolo diversi ottenendo risultati paragonabili a quelli su Marte 6. Altri scienziati poi nel corso di questi 36 anni hanno ipotizzato che sia i perossidi che i perclorati possono essere essenziali a una biologia sviluppata su Marte, soprattutto per la loro capacità di abbassare il punto di congelamento della – comunque scarsa – acqua marziana.

L’intervista a Giorgio Bianciardi

il dott. Giorgio Bianciardi, esobiologo e vicepresidente dellUAI

Grazie dott. Bianciardi per il tempo concesso. Partiamo proprio dall’inizio. In cosa consiste essenzialmente la tua analisi numerica e come può distinguere tra un processo di natura chimica e uno di origine biologica, e in quale ambito viene comunemente  utilizzata?

Analizzo i modelli caotici nei sistemi biologici allo scopo di evidenziare disturbi che nascondono delle patologie. Un sistema biologico ha un certo comportamento caotico riproducibile su diverse scale temporali (un minuto, un ora etc.) mentre un sistema non biologico ha una risposta diversa, più semplice. Un sistema malato avrà l’attrattore caotico 7 compromesso rispetto a un sistema biologico sano.

Quindi la tua ricerca sui dati degli esperimenti LR su Marte ha evidenziato qesta risposta caotica?

Si, i risultati dei conteggi dei marcatori di carbonio 14 emessi dai campioni di suolo marziano dopo il nutrimento con la pappa biologica mostravano il tipico andamento che ci si può aspettare da una risposta di tipo biologico.
Questo tipo di risposta era lo stesso ottenuto dalla ripetizione degli esperimenti di rilascio marcato ottenuti in laboratorio con campioni terrestri e, come era stato ottenuto su Marte con il suolo sterilizzato, anche sulla Terra i campioni sterilizzati non mostravano alcuna risposta di alcun tipo. Segno evidente che qualsiasi cosa  avesse rilasciato il carbonio 14 era andato distrutto.

Eppure il gascromatografo nelle sonde non fu in grado di rilevare alcuna materia organica e così gli altri esperimenti, e come fu detto (ed esempio dal celebre Carl Sagan) “se c’è vita, dove sono i cadaveri?”

Il gascromatografo a bordo delle Viking (esperimento CG/MS – nda) non riuscì a rivelare alcuna traccia di sostanze organiche, ma solo acqua, anidride carbonica e tracce di solventi che gli scienziati dell’epoca interpretarono come residui dei solventi usati per pulire le celle delle analisi. Fu solo nel 2008 che la sonda Phoenix scoprì che il suolo di Marte è particolarmente ricco di perclorati 8 che se riscaldati distruggono qualsiasi materia organica presente rilasciando quelle tracce di solventi che il CG/MS aveva trovato.
Inoltre il gascromatografo di massa a bordo dei lander Viking era molto poco sensibile, circa un decimilionesimo di grammo di materia organica per grammo di campione, ossia 10-7 gr, mentre l’efficienza del processo di analisi riduceva questa ad appena un decimo, diciamo che in realtà la sensibilità complessiva si riduceva a  10-6 gr per grammo. Un normale batterio terrestre pesa circa 10-12 grammi e il 90% del suo peso è acqua, mentre il resto, 10-13 gr, è materia organica. Il gascromatografo avrebbe potuto rivelare solo  oltre una soglia di 10 milioni di batteri terrestri per grammo, troppi anche per molti ambienti terrestri 9.

Quindi uno strumento matematico pensato e concepito per evidenziare attività biologica sulla Terra può funzionare anche per la vita extraterrestre?

Ripeto: una risposta biologica è sempre diversa da una risposta chimica, questa è organizzata secondo un grado di complessità diverso, come lo è ad esempio il battito cardiaco rispetto al movimento di un pendolo che si smorza col tempo.

È possibile che il tuo metodo di analisi numerica possa essere sviluppato in futuro tanto da poter essere utilizzato per scoprire attività biologica su altri mondi per esempio analizzando la curva di luce stagionale e lo spettro dell’atmosfera di un intero pianeta?

A noi non interessava trovare un metodo universale per scoprire sicuramente dell’attività biologica, anche perché probabilmente un metodo universalmente valido forse non esiste. Sono molti i sistemi naturali che seguono schemi di risposta non lineare, come accade nella rotazione assiale di un pianeta ad esempio, o nella risposta elettronica di un transistor. Quindi questo metodo non può essere utilizzato in questo senso, a noi è servito solo per dimostrare che le risposte del contatore indicavano un rilascio di radiocarbonio nell’ambiente con uno schema non riconducibile ad alcun processo fisico naturale in quel contesto, tipico però dei sistemi biologici.

Quale è stato il ruolo del dott. Miller nella ricerca?

Il dott. Levin si è speso per venti anni cercando di dimostrare al mondo che il Labeled Release aveva identificato dell’attività biologica. Nel 2000 il dott. Miller, neurofarmacologo, ha proposto a Levin  di ricominciare da capo e insieme hanno  ripetuto tutti gli esperimenti dei Viking sulla Terra, dimostrando che i risultati erano gli stessi  che su Marte. Miller scoprì tra l’altro che i risultati delle Viking mostravano una correlazione  col periodo circadiano marziano.
Poi nel 2003 Miller e Levin lessero i miei lavori indipendenti e mi contattarono per applicare le mie ricerche al complesso dei dati in loro possesso. Successivamente mi proposero di mettere il mio nome come primo ricercatore e io accettai.

Perché la vostra ricerca è stata approvata e pubblicata dalla Società Coreana per lo Spazio, piuttosto che la NASA 10 proprietaria del progetto Viking?

La ricerca è terminata l’anno scorso, ma abbiamo avuto delle difficoltà alla sua pubblicazione per i tempi molto stretti che ci eravamo prefissati, noi volevamo che la pubblicazione avvenisse prima che la sonda Mars-Curiosity sbarcasse su Marte.
Un conto è dire adesso che le Viking avevano individuato dell’attività biologica, e un altri è dirlo dopo che Curiosity avrà individuato le stesse.

E se Curiosity dimostrerà il contrario?

Allora ci saremo sbagliati, ma la posta in gioco è troppo grande per non rischiare!

(ps. a questo punto raccomando il lettore di leggere: Errata Corrige, Il Poliedrico 8 novembre 2012)


Sole Sporco

In collaborazione con Sabrina Masiero

Questo è un articolo scritto a quattro mani, da me e Sabrina Masiero. Dopo la proficua collaborazione del pesce d’aprile (vedi STEREO Serendipity: scoperto pianeta gemello) abbiamo deciso di unire le nostre conoscenze per questo post e per altri interessanti articoli che abbiamo in mente per offrire ai nostri lettori solo il meglio del meglio. Spero che lo apprezzerete.



Traveling Sunspots (Feb 7 – 20, 2011)  Credit: NASA SDO

Credit: Il Poliedrico

Le prime note sulle macchie solari si devono – come spesso è accaduto nell’antichità – agli acuti osservatori cinesi, i quali annotavano diligentemente i fenomeni celesti osservati ad occhio nudo già nei secoli prima di Cristo, probabilmente sfruttando condizioni particolarmente favorevoli che si possono avere solo all’alba o al tramonto.

Anche se macchie solari particolarmente grandi furono notate diverse volte nella storia 1in Europa le prime osservazioni documentate risalgono intorno al primo decennio del XVII secolo, con varie dispute inutili sulla scoperta tra Galileo Galilei e altri osservatori europei. Prima di Galileo le macchie solari venivano spiegate come ombre del transito di pianeti sul Sole, nel Vecchio Continente parlare di macchie sul Sole era considerata opera di blasfemia che andava contro i dettami della Chiesa e contro gli insegnamenti dei padri della cosmologia ufficiale Tolomeo e Aristotele.
Fu infatti l’astronomo pisano che nel 1612 riuscì a dare una spiegazione corretta al fenomeno indicandole come macchie sulla superficie del Sole e misurando il periodo di rotazione della stella, appena in tempo che questa cadesse nel primo dei periodi di quiescenza documentati dell’era moderna: il minimo di Maunder (1645-1715).Se la scoperta del cannocchiale per usi astronomici avesse tardato di soli cinquanta anni, probabilmente una delle scoperte astrofisiche più importanti dell’era moderna sarebbe stata rimandata di cento.

Il numero di Wolf

Il numero di Wolf è una grandezza che misura il numero di macchie solari e dei gruppi di macchie solari presenti sulla superficie del Sole.
Il relativo numero di macchie solari R è calcolata utilizzando la formula (raccolti come un indice giornaliero di attività delle macchie solari):

R = k(10g + s) \,

dove

  • s è il numero di punti individuali,
  • g è il numero di gruppi di macchie solari
  • k è un fattore che varia con la posizione e la strumentazione (anche conosciuto come il fattore osservatorio o la riduzione del personale coefficiente K ).

Fu infatti nel XIX secolo  che l’attenzione degli astronomi per il Sole permise importanti e significative scoperte: la spettroscopia della luce solare permise la scoperta della parte termica del continuum elettromagnetico, come il continuo monitoraggio delle macchie solari permise la scoperta del ciclo undecennale del Sole ad opera dell’astronomo tedesco Heinrich Schwabe e della codificazione del metodo di conteggio di queste da parte dell’astronomo svizzero Rudolf Wolf che completò le ricerche di Schwabe.

Nel 1769 l’astronomo scozzese Alexander Wilson scoprì che le macchie solari sono depressioni sulla superficie del Sole che ora sappiamo essere profonde anche 1000 chilometri anche se osservazioni e ricerche  più recenti spiegano tali depressioni   con la maggiore trasparenza del materiale posto rispetto alla fotosfera 2.

Dai Lavori di Schwabe  e di Wolf si arrivò nel 1861 ai lavori di Carrington eSpörer che scoprirono la relazione che lega lo spostamento della latitudine di apparizione sulla superficie solare delle macchie solari durante un ciclo, aprendo così la strada all’attuale modello interpretativo del fenomeno.

Le macchie solari appaiono sulla fotosfera come piccoli “pori” rotondi di 2″- 4″ di diametro (1500-3000 km) o come gruppi imponenti di dimensioni angolari fino a 5′-6′ (200 000-250 000 km) tali quindi da poter essere percepite ad occhio nudo.

diagramma a farfalla di Spörer

diagramma a farfalla di Spörer

Visivamente le macchie solari si formano di solito da minuscoli pori che tendono a svilupparsi fino a formare delle vere e proprie macchie composte da una regione centrale, chiamata ombra, che appare nera sullo sfondo luminoso della fotosfera. In realtà, la regione centrale della macchia è molto luminosa anche se meno brillante dello sfondo su cui si osserva perchè la temperatura è inferiore, dell’ordine dei 4000 K, rispetto ai 5700 K del resto della fotosfera. L’ombra è circondata da una zona detta di penombra e, qualche volta, attorno alla penombra appare come un anello brillante, 2-3 volte più luminoso della fotosfera.

Sul Sole possiamo osservare macchie isolate, anche di grandi dimensioni, ma per lo più esse tendono a raccogliersi a gruppi, che comprendono anche decine di macchie grandi e piccole associate fra loro che tendono a mostrare due centri di addensamento, uno che precede e l’altro che lo segue nel verso della rotazione solare. Spesso si formano attorno altre macchie, che eventualmente si fondono insieme, fino a formare grossi gruppi, con penombra comune, con punti luminosi che si estendono da una macchia all’altra. I gruppi di macchie tendono ad assumere formale ovale, con gli assi maggiori leggermente inclinati rispetto alla direzione Est-Ovest in modo che la macchia di testa sia più vicina all’equatore solare di quella di coda. L’angolo di inclinazione dipende dalla latitudine e può raggiungere i 20° a latitudini di 30-35 gradi eliocentrici.

Lo sviluppo di un gruppo di macchie, partendo dalla macchia di origine, può durare per un tempo superiore all’intera rotazione solare. Il gruppo, che partecipa alla rotazione, scompare quindi al lembo ovest, per riapparire, dopo 13 giorni e mezzo al lembo est. Nel momento di massimo sviluppo un gruppo di macchie può avere diametro fino a 100 000 km o più.

Raggiunto il massimo, fra il 12° e il 16° giorno, il gruppo di macchie comincia a dissolversi. Lentamente le macchie scompaiono, finché, dopo un periodo di 40-50 giorni, restano soltanto una o due minuscole macchioline (una delle quali è la macchia di testa), da cui poi, col passare del tempo, si origina un nuovo gruppo.

Le macchie solari sono sedi di intensi moti convettivi, con struttura vorticosa. In altri termini, gas solari salgono a spirale dall’interno della macchia, con velocità di alcuni chilometri al secondo, espandendosi e quindi raffreddandosi. La diminuzione di temperatura dei gas comporta una minore luminosità della macchia.

Macchie solari durante l’eclissi di Sole del 4/1/2011   Credit: Il Poliedrico

La più grande macchia solare osservata si ebbe nel 1858 con un diametro di 200 000 chilometri, lunga cioè 18 volte il diametro della Terra. Una macchia di diametro superiore a 40 000 chilometri può essere osservata a occhio nudo (ovviamente con le adeguate protezioni contro l’abbagliante luce solare che potrebbe danneggiare irreparabilmente l’occhio3)
Le macchie si spostano di moto proprio, sulla superficie del Sole. In genere, in un gruppo, la macchia di testa tende a muoversi in avanti, nel verso della rotazione, e quella di coda all’indietro. Il gruppo quindi diverge e si allarga. Quando il moto divergente si interrompe, il gruppo di macchie si scioglie.
Le macchie solari sono zone di intensi campi magnetici. L’intensità del campo magnetico, che ha direzione ortogonale al piano su cui si proietta la macchia, può variare tra un minimo di 100 Gauss e un massimo di circa 4000 Gauss.

Ora  sappiamo che la vera natura delle macchie solari  è dovuta alla rotazione differenziale del Sole, più veloce all’equatore e più lenta ai poli, che provoca l’attorcigliamento localizzato di correnti convettive e del loro campo magnetico. Questi tubi di plasma si isolano dal resto delle correnti convettive sottostanti la fotosfera e impediscono che il trasporto energetico generale li riscaldi, per questo sono più fredde.
Quando emergono in superficie, come viene mostrato dal filmato – che ricorda la polvere di cacao che emerge dalla schiuma di un cappuccino, si possono vedere gli archi di materia magnetizzata, i vortici magnetici del plasma talmente attorcigliati che alla fine si possono rompere liberando energia equivalente a migliaia di bombe nucleari: i magnifici brillamenti solari.

Umberto Genovese & Sabrina Masiero