Illusioni marziane

Ancora una volta sono qui per commentare l’adagio: c’è vita su Marte? L’unica mia risposta è che no lo so, ma sono estremamente scettico sul fatto che il Pianeta Rosso abbia mai ospitato forme di vita. Rimango possibilista verso l’ipotesi di vita procariotica all’inizio della storia marziana, ma anche su questo nutro dubbi. Perché Marte è piccolo, troppo piccolo per aver mai avuto un’atmosfera abbastanza spessa da mantenere l’acqua allo stato liquido per il tempo necessario a sviluppare forme di vita più complesse. 

Il professor William Romoser dell’Università dell’Ohio suggerisce che questa immagine, scattata da un rover su Marte, sia un forma di vita marziana. Per me è semplicemente un caso di pareidolia, . (Credit: William Romoser)

Nell’estate del 1964, poco prima del lancio della missione Mariner 4 (la prima sonda interplanetaria che ci descrisse la realtà marziana) un istituto sponsorizzato dall’ente spaziale americano NASA, organizzò un simposio per tentare di descrivere cosa avrebbe potuto scoprire la sonda nella peggiore delle ipotesi. Ancora nel 1964 si sapeva poco e niente di Marte, della sua atmosfera, del suo suolo ricco di perossidi, della sua abitabilità: tant’è che si speculava persino dell’esistenza di forme di vita complesse delle dimensioni di un orso polare[1].
Oggi, grazie ai numerosi rover e laboratori automatici inviati sul Pianeta Rosso, sappiamo che non è così. 
Ogni giorno Marte si rivela un incredibile laboratorio dove testare le più ardite teorie dell’esobiologia: i pennacchi di metano stagionali[2] e ora di ossigeno[3], spingono i meno informati a immaginare che su Marte, dopotutto, ci sia qualche forma di vita, forse anche abbastanza evoluta. 
Infatti, ancora esistono sacche di pensiero che resistono a quanto si è scoperto in quest’ultimo mezzo secolo su Marte.
L’entomologo americano William Romoser ha presentato, il 19 novembre scorso, un documento al convegno[4] dell’Entomological Society of America tenutosi a St. Louis, nel Missouri.
Romoser sostiene di aver identificato forme di vita complesse, sia fossili che viventi, in diverse immagini scattate dai rover marziani. Le altre immagini, che sono pubblicate nel suo documento,  suggeriscono teste di serpenti fossili, insetti in volo, e così via.
A mio parere, e ringrazio l’amico Stefano che mi ha comunicato la notizia, è semplicemente l’ennesimo caso di pareidolia, dettato in questo caso dall’attitudine mentale di chi è abituato a vedere insetti ovunque: un entomologo, appunto.

Il Volto di Cydonia, conosciuto anche come Sfinge di … , è il più noto caso di pareidolia legato a Marte. Credi: NASA/JPL

Non è la prima volta, e non sarà neanche l’ultima, che nella frastagliata superficie di Marte vengono scorte immagini bizzarre e giochi di luce che si prestano a eccentriche interpretazioni  riconoscendovi cose a noi più familiari: il volto della Sfinge di Cydonia è uno dei più noti, ma c’è chi giura di aver scorto anche piramidi, cupole, resti di statue e cinte murarie. 

Nel 1958, lo psichiatra tedesco Klaus Conrad descrisse un fenomeno chiamato apofenia. L’apofenia indica la tendenza a percepire erroneamente le connessioni e il significato tra cose non correlate. Conrad la legò principalmente alla schizofrenia, ma in realtà nella sua forma non patologica, l’apofenia è qualcosa di molto più profondo. Quando i primi esseri umani si avviavano a conquistare la Terra la capacità di trovare schemi nell’ambiente circostante e ragionare su di essi era essenziale alla sopravvivenza della specie. Questa tendenza la si riscopre oggi in tutte le attività umane: dalla finanza al gioco d’azzardo, dalla ricerca scientifica alla statistica. Possiamo tutti sperimentarlo quando scorgiamo una figura a noi familiare in un sistema caotico, come ad esempio la figura di un animale scolpito dalle nuvole (pareidolia) o quando tentiamo a cercare di evidenziare ed esaltare fatti che confermino le proprie convinzioni (bias di conferma).
Per questo diventa semplice per chi ha dedicato la vita a studiare insetti, vedere un bacarozzo dove altri vedono semplicemente un sasso. 

Ma quando ci si propone di fare della scienza, è assai importante attenersi anche alle pregresse scoperte e dati.
Ad esempio, l’evoluzione verso i metazoi1 avvenne nel periodo Ediacarano fra i 645 e i 542 milioni di anni fa, quando l’ossigeno atmosferico accumulatosi nell’atmosfera della Terra diede origine allo strato di ozono. Questo, su Marte non sembra mai essere accaduto, perché lì non sembra esserci mai stata un’atmosfera abbastanza ricca di quell’elemento.

Per ricavare una certa quota partendo da una data pressione (espressa in millibar) si può far riferimento a questa formula empirica (vale solo per il caso terrestre): $$h_{alt}= \left (1- \left ( \frac{P_{sito}}{1013.25} \right )^{0.190284} \right ) \times 44307.69$$

Poi, altro esempio, è la pressione atmosferica marziana: per frenare la discesa dei robot su Marte servono paracadute giganteschi rispetto a quelli che servono per la discesa sulla Terra. Infatti, la pressione atmosferica media di Marte è di 6,3 millibar, la stessa che ritroviamo sulla Terra a 27 mila metri di quota: 3 volte la quota di un normale aereo di linea. Un ipotetico insetto volante immaginato da Romoser dovrebbe possedere ali come un gabbiano per sostenersi in volo.

Mentre scrivo, scopro che il lavoro dell’entomologo è stato intanto ritirato (infatti il link nei riferimenti non è più funzionante).
E probabilmente è un bene, perché esistono molti scienziati che stanno davvero cercando di rispondere alla domanda principe Esistono altre forme di vita fuori dalla Terra?
Le persone che non conoscono i meccanismi di produzione abiotica del metano e dell’ossigeno, le reali condizioni ambientali di Marte e che quando sentono parlare di chimica organica evocano subito qualcosa di biologico, fanno presto a tirare le somme e immaginare che su Marte ci sia la Vita.
Senza contare i numerosi bischeri che inondano Internet con immagini artefatte e spiritate ipotesi di antiche civiltà marziane e alieni tenuti nella formaldeide, che non fanno che lucrare sul complottismo scientifico che tutto è fuorché scienza.
Al contrario, il ritiro affrettato del lavoro di Romoser potrebbe invece alimentare le medesime illazioni complottarde che potrebbero avere mano facile nell’affermare che la scoperta di insetti marziani ad opera di un emerito entomologo (Romoser) è stata nascosta e messa a tacere dai poteri forti della NASA che vorrebbero tenerci tutti all’oscuro della realtà marziana.

Per questo da sempre dico che l’unica soluzione è studiare, studiare e studiare. E siccome a nessuno di noi è stato concesso il dono dell’onniscenza, magari un pizzico di umiltà nel saper accogliere il giudizio di chi è più preparato su un particolare argomento, è fondamentale.

Cieli sereni

Riflessioni serotine

Da diversi mesi ho iniziato a pubblicare alcune mie riflessioni su temi di attualità politica e ambientale su Facebook dal titolo «Riflessione serotina» seguito dalla data giuliana (un mio omaggio alle consuetudini astronomiche) per dare ad esse un minimo d’ordine temporale e farle apparire come un vero e proprio editoriale. Poi però mi sono detto: perché non ripetere qui 

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Partiamo dalle ondate di calore di questa bizzarra stagione che ha investito — e non solo — l’Europa: esse sono provocate dall’anomala espansione a nord dell’Anticiclone Nord-Africano; a sua volta questo fenomeno trae la sua origine nell’eccessivo indebolimento del Vortice Polare Nord, una vasta area di bassa pressione che arriva fin nella stratosfera e che staziona nei pressi del polo (lo dice anche il suo nome). Normalmente queste aree di bassa pressione bloccano le masse di aria fredda e secca sopra i poli, più vicino al suolo, e sono il risultato della forte differenza di temperatura tra le regioni polari e l’Equatore.
In genere questi vortici sono stabili, dal momento che le differenze di pressione e temperatura sono tali da mantenere il sistema in equilibrio. Quando i vortici sono forti l’aria fredda resta confinata nelle aree polari, mentre se invece perdono forza capita che si frammentino in una o più parti, e masse d’aria a bassa pressione e bassa temperatura si spostano verso le zone più temperate interagendo quindi con quelle più calde. Quando il vortice al Polo Nord è molto debole, le zone di alta pressione normalmente presenti alle medie latitudini migrano verso nord, facendo spostare l’aria fredda e secca verso sud.
Quando questo accade — come è successo lo scorso maggio — le temperature scendono drasticamente e si verificano forti precipitazioni, anche nevose. Però, subito dopo l’aria fredda si disperde e l’anticiclone che normalmente investe il Sahara può arrivare fino all’Europa centrale. Questo fenomeno — che io personalmente detesto perché non sopporto il caldo — è una conseguenza del cambiamento climatico indotto dalle azioni dell’uomo ed è un fenomeno del tutto naturale che non può essere fermato.
Hai voglia a dire che Noi siamo Europei, anzi Italianissimi e magari pure discendenti della Lupa (di Remo e Romolo, dimenticando che i lupanari erano i bordelli dell’Antica Roma), l’Anticiclone Africano non lo si può fermare per decreto: sudi, bevi molta acqua, mangi frutta, e non ti resta che sperare nella clemenza del prossimo inverno.
E così come non si può fermare per decreto imperio l’Anticiclone Africano, allo stesso modo non si possono fermare i flussi migratori umani[5]., che li si voglia chiamare clandestini o che altro, perché la migrazione e la perequazione appartengono alla natura intima delle cose — è anche una Legge della Termodinamica — e delle persone.

La storia insegna — e la Storia deve essere studiata e apprezzata proprio perché è la fonte principale della Saggezza, la più importante delle virtù cristiane insieme alla Carità  — che i muri che dividono popoli e nazioni non sono mai forieri di sicurezza e sviluppo sociale ma bensì di miseria e sventura.
L’età moderna del genere umano ha circa 9-11 mila anni: in questo arco di tempo sono sorte civiltà, imperi e commerci: gli uomini intanto hanno conquistato il pianeta. I commerci, gli scambi culturali e scientifici hanno diffuso e arricchito tutta l’Umanità. Quando in una regione vi era ristagno e miseria, un’altra prosperava e arricchiva il sapere umano.
Le prime operazioni di chirurgia oftalmica le svilupparono gli Arabi (sapete quegli omini buffi che immaginiamo tutti con le babbucce e il turbante e che sono musulmani?) nel X secolo in Spagna; la meccanica e l’idraulica, note ai Greci classici furono ricordate e arricchite dagli Arabi e che poi il nostro Leonardo da Vinci spacciò per sue dopo averle studiate e rimaneggiate; la matematica e l’astronomia (tutte le stelle che vediamo ad occhio nudo hanno un nome proprio arabo) senza la cultura araba non sarebbero mai arrivate a noi. Avete mai provato a far di conto coi numeri romani? Magari potrebbe essere un esercizio degno di qualche leader politico che si crede un condottiero (non ho detto Duce) e che ha molto tempo libero anche quando finge di lavorare.
Quando i successori di Pietro si diedero un titolo, scelsero Pontifex, ossia Costruttore di ponti, Colui che supera le barriere, un termine che apparteneva alla cultura romana1.
I muri, i fili spinati, i fucili spianati, sono tutti strumenti incivili e inutili, antistorici e disumani. Spesso assistiamo allo sproloquiare di alcuni figuri che reclamano l’assoluta necessità di tali strumenti per salvaguardare la purezza della razza2 o la superiorità morale e materiale di una cultura rispetto alle altre;  insensati concetti privi di ogni fondamento e chi ne fa uso non potrà mai definirsi costruttore di ponti e difensore della civiltà.

50 anni dopo lo Sbarco sulla Luna non me la sento di festeggiare.

Ormai mancano poche ore al cinquantenario dello Sbarco sulla Luna. 
Quando fu scoperta la minaccia dei clorofluorocarburi all’intero ecosistema terrestre, nel 1997 tutti gli Stati della Terra fecero fronte comune e imposero il bando totale dei CFC col Trattato di Montreal; oggi, nonostante le belle parole, ancora non vedo lo stesso impegno per scongiurare le altrettanto gravi crisi ambientali. Per questo ora non riesco a gioire come vorrei lo storico anniversario.

 

L’equipaggio della missione Apollo 11: dalla sinistra: Michael Collins, Neil Armstrong e Buzz Aldrin (nato Edwin Eugene)

Checché alcuni allocchi continuino a sostenere il contrario, il 20 luglio del 1969 per la prima volta nella storia un essere umano mise davvero piede sulla Luna; tre uomini, eccetto uno che rimase in orbita, giunsero là dove nessuno era mai giunto prima.
Non sto a ripetere la storia delle missioni e dell’intero Programma Apollo, in questi giorni un po’ su tutte le testate giornalistiche, blog, TV e social non si parla di altro. Ma se da un lato questo mi conforta — finalmente si torna a parlare dell’esplorazione umana dello spazio in termini concreti — dall’altro mi spaventa pensare che dopo cinquanta anni, cinque decadi da quello storico momento, siamo riusciti ad arrivare sull’orlo di una crisi dell’intero ecosistema terrestre.
Mi spiego meglio: la stessa razza umana che cinquant’anni fa è riuscita a compiere quella fantastica impresa, oggi rischia di soccombere (no, non credo all’estinzione di tutto il genere umano ma al crollo della sua civiltà) per tutti gli errori e le opportunità che non ha saputo cogliere in quest’ultimo mezzo secolo.

Ci sono voluti ben tre lustri, dal 1973 al 1997, per far capire al mondo che i CFC (clorofluorocarburi) stavano distruggendo lo strato di ozono che protegge la vita sulla Terra da almeno 2 miliardi di anni. Il presidente della multinazionale Dupont (industria chimica che era fra i maggiori produttori di CFC nel mondo) bollò i primi studi come “spazzatura da fantascienza“; all’epoca i CFC erano usati dappertutto, dall’industria della refrigerazione (frigoriferi e climatizzatori per esempio) fino all’agricoltura, dall’elettronica alla lacca per capelli (bombolette spray). Eppure, dopo le prime conferme sul campo del 1985 che confermavano le responsabilità umane nella distruzione dello strato di ozono, si giunse al bando operativo su tutto il pianeta dei clorofluorocarburi. Oggi quel bando sta funzionando e,  checché ne dicano — o abbiano detto — i vari “mister Dupont” dell’epoca, quella fu la cosa giusta da fare.
Oggi la situazione è altrettanto pericolosamente grave: all’inizio del mese un’intero distretto in Giappone (Kagoshima, un milione di persone)[6] è stato costretto dalle piogge torrenziali ad abbandonare le proprie case; d’accordo, quando qui la gente aspetta ogni occasione per andare al mare per fare i primi bagni, in Giappone (giugno-luglio) è la stagione delle piogge, ma quell’evento era comunque decisamente fuori dell’ordinario anche per loro.
E anche in altri paesi e regioni climatologicamente distanti si stanno sperimentando fenomeni parossistici sempre più estremi e frequenti: l’eccezionale ondata di caldo che ha travolto l’Europa (45° vicino a Montpellier, in Francia) dopo un giugno insolitamente uggioso e fresco; 21° C. sopra il Circolo Polare Artico [7]; 50,6° C. in India appena il giugno scorso, quando qui era insolitamente fresco (nevicò in Corsica).

Coralli morti per effetto dell’innalzamento della temperatura e dell’acidità delle acque superficiali a Lizard Island (Australia) sulla Grande Barriera Corallina tra il marzo e il maggio 2016. Prima arriva lo sbiancamento, indice della morte dei minuscoli oranismi e poi la fioritura di alghe (a destra) completa l’opera di distruzione.
Credit: XL Catlin Seaview Survey

Questi segnali dimostrano tutta la fragilità di un sistema, quello climatico, che sta pericolosamente deviando per colpa delle attività umane: nel 2016 in Siberia si raggiunsero ben 33 gradi e nella regione dello Yamal (67° N) il disgelo estivo risvegliò un mortale batterio che era rimasto inerte da chissà quanti anni: il Bacillus anthracis, meglio noto come antrace; l’infezione uccise 2000 renne e un bambino; la più grande struttura vivente, visibile pure dallo spazio, ovvero la Grande Barriera Corallina a nord- est dell’Australia da almeno tre anni registra sbiancamenti (morte dei coralli) senza precedenti nella sua storia 1.

Eppure, ancor oggi, nonostante il parere pressoché unanime degli scienziati di tutto il mondo, miliardi di dollari spesi in conferenze e dibattiti internazionali, e una miriade di parole spese in buone intenzioni, quasi nulla è cambiato. Fior di sciocchi e stolti continuano a negare l’evidenza del Global Warming, alcuni bollandola addirittura come bufala comunista studiata dai cinesi per far svenare l’Occidente con l’acquisto di inutili auto elettriche e pannelli solari (fabbricati con le Terre Rare cinesi).
Ho già illustrato su queste pagine le prove del coinvolgimento umano nel Riscaldamento Globale, tanto che parlare di Anthropogenic Global Warming non è affatto sbagliato, anzi. Dopo quasi 25 anni nel 1997 riuscimmo come genere umano a fermare la grave minaccia all’intero ecosistema terrestre rappresentato dallo spregiudicato uso che facevamo dei CFC, mentre oggi una minaccia altrettanto grave si sta palesando ogni giorno; per questo oggi nonostante il cinquantenario dello Sbarco sulla Luna mi sento sconfortato.

Tornando al Programma Apollo che  portò L’Uomo sulla Luna, al di là di tutto ricordo che ogni onere – e merito – fu frutto dell’impegno di una sola nazione. Nell’anno dello sbarco, il costo per gli Stati Uniti d’America fu di 2.4 miliardi di dollari (PDF): appena un ottavo del costo dell’impegno militare in Vietnam di quell’anno che fu di circa 20 miliardi di dollari. In totale la spesa tra il 1961 e il 1973 fu di 26-28 miliardi di dollari dell’epoca (circa 270 miliardi di oggi) [8]. Nello stesso periodo il costo dell’intero sforzo bellico in  Indocina, per gli USA si avvicinò ai 200 miliardi, circa 2000 miliardi (a spanne) di oggi.
Ma mentre ogni dollaro investito nella ricerca spaziale comportava un ritorno di almeno cento negli anni successivi, i 200 miliardi nella guerra del Vietnam ebbero costi almeno triplicati dalla crisi economica successiva, dai costi sanitari per gli invalidi, la caduta del mercato interno e soprattutto la credibilità economica internazionale ne risentì.
Provate per un attimo ad immaginare se invece il bilancio militare mondiale dal 1970 ad oggi fosse stato dedicato alla colonizzazione dello spazio 2.
Con migliaia di miliardi investiti in ricerca e sviluppo invece che a cercare il miglior modo per farci stupide guerre per l’effimero controllo di un pezzo di terra pressoché tutti i mali che ancora affliggono l’umanità potrebbero essere ora un incubo del passato; oggi avremmo saputo come trasferire nello spazio tutte le attività più inquinanti e inaugurato una nuova era di pace e comunione per il genere umano; l’inquinamento che ogni anno causa milioni di morti — molti di più di un conflitto mondiale — sul nostro pianeta sarebbe potuto non essere più una minaccia per l’intero ecosistema terrestre e quel bambino dello Yamal avrebbe avuto l’opportunità di invecchiare magari proprio sulla Luna.

Ora noi potremmo darci tutte le pacche sulle spalle che vorremmo e raccontarci quanto fummo bravi 50 anni fa a raggiungere la Luna. ma se poi tra altrettanti anni (2069) la nostra civiltà non avrà ancora occasione di festeggiare quello che sarebbe potuto essere l’inizio di una nuova era per tutto il genere umano, sarà stata tutta colpa nostra e della nostra cieca stupidità e cupidigia.

 

Global Warming for dummies (seconda parte)

Nella prima parte di Global Warming for dummies mi sono speso a spiegare come si possa senza ombra di dubbio attribuire all’uso dei combustibili fossili — e quindi in definitiva alle attività umane — la responsabilità dell’innalzamento dei livelli di anidride carbonica nell’atmosfera fino a valori mai raggiunti nell’ultimo milione di anni.
Guardate Chernobyl dopo quasi 40 anni: lì dove l’uomo non può più arrivare sono tornate le foreste, gli orsi europei e i lupi. La natura non ha bisogno dell’uomo: siamo noi che abbiamo bisogno di lei per esistere; portiamole il rispetto che le è dovuto.

La Terra riceve energia dal Sole. Un corpo nero ideale alla stessa distanza dalla Stella riemetterebbe quell’energia con una temperatura di 255 K. In realtà la temperatura media della Terra è un po’ più alta (288 K). Questo è dovuto all’effetto serra generato dalla sua atmosfera. Credit: Il Poliedrico

Spiegare in parole semplici cosa fosse l’effetto serra non è così facile come sembra: noi lo chiamiamo effetto serra perché l’accumulo in eccesso di calore (energia termica) provocato da alcuni tipi di gas è sostanzialmente uguale a quello che si sperimenta all’interno di una serra chiusa. Ma se la serra ricava il suo calore bloccando la convezione dell’aria al suo interno, ossia che la stessa aria viene esposta continuamente al tepore di una sorgente (il Sole o una stufa), ragion per cui il calore tende ad accumularsi, l’effetto serra atmosferico ha origini fisiche molto diverse. La comprensione di questi meccanismi deve essere alla base di qualsiasi discussione sul cambiamento climatico in atto.

Tutto ha inizio dall’energia irradiata dal Sole e la distanza che c’è tra la Terra e la Stella. Chi legge questo Blog sa che ho già illustrato questo argomento quando spiegavo cos’è una zona Goldilocks[9] insieme a Sabrina Masiero del Gal Hassin e anche in altri articoli precedenti sul medesimo argomento. Per gli altri faccio un breve riassunto: qualsiasi corpo — idealmente di corpo nero, ossia che assorbe (e poi riemette) tutta l’energia che riceve — si trova in uno stato di equilibrio termico con una sorgente di energia che è dettato unicamente dalla quantità di energia emessa da questa diviso per l’area della sfera basata sulla distanza tra il corpo e la prima1. In altre parole, se la Terra fosse distante la metà dal Sole riceverebbe quattro volte più energia mentre se fosse il doppio più lontano ne riceverebbe appena un quarto di adesso. Attualmente la Terra si trova a una distanza tale dal Sole che il suo equilibrio termico — tenendo conto di un albedo planetario di 0.30 —  è di circa 255 gradi Kelvin2, ossia circa 18° sotto lo 0 Celsius! Questo significa che tutta l’energia che riceve la Terra dal Sole, se questa fosse idealmente un corpo nero, verrebbe riemessa nel lungo infrarosso, con un picco di emissione attorno agli 11μm (vedi immagine qui a lato),  Però la temperatura mediata del Pianeta, cioè depurata dalle variazioni regionali e zonali, è di circa 288 K, ossia di circa 15° centigradi. La differenza tra 255 e 288 è il calore che che trattiene la nostra atmosfera proprio come una serra, ma l’analogia appunto finisce qui!

La composizione della nostra atmosfera ci è nota e ce la insegnano fin dalle elementari (io almeno ricordo di conoscerla fin da allora):

Composizione dell'atmosfera errestre

NOMEFormulaPercentuale %
AzotoN₂78.084
OssigenoO₂20..946
ArgonAr0,934
Anidride carbonicaCO₂0.0427
NeonNe0.0018
ElioHe0.000524
MetanoCH₄0.00016
KriptonKr0.000114
IdrogenoH₂0.00005
XenoXe0.0000087
Vapore acqueoH₂O0.33 (varia da 0% a 6%)
OzonoO₃0.000004 (stratosfera)

La risonanza asimmetrica di dipolo delle molecole è alla base dell’effetto serra causato da queste. Il concetto vista di è da intendersi esemplificativo. Credit: Il Poliedrico

I due gas principali (azoto e ossigeno in forma molecolare, ricordiamolo) compongono da soli circa il 99% della nostra atmosfera e questo fa un po’ la differenza tra un pianeta con temperature accettabili come la Terra e e un pianeta come Venere col 95% di CO2.
Il segreto sta nella natura delle molecole diatomiche di azoto e ossigeno che possono eseguire solo vibrazioni simmetriche che non alterano il loro momento di dipolo e che quindi sono piuttosto trasparenti alla radiazione incidente. I gas più complessi, come ad esempio l’anidride carbonica, un gas triatomico, può produrre sia vibrazioni simmetriche che quelle che alterano il momento di dipolo della molecola, col risultato che queste oscillazioni la fanno entrare in risonanza ad una particolare lunghezza d’onda. Questo significa che a tali lunghezze d’onda la radiazione in ingresso viene assorbita e poi riemessa dalle molecole che entrano così in risonanza, il medesimo meccanismo che è alla base del concetto del laser. In pratica l’energia radiativa che viene catturata da quelle molecole viene poi diffusa in tutte le direzioni e intercettata da altre molecole uguali, e così via;  è così che a quella caratteristica lunghezza d’onda l’atmosfera risulta opaca.
Questo meccanismo che brevemente ho cercato di illustrare non vale soltanto per l’anidride carbonica, ma anche per tutte le altre molecole che possono avere vibrazioni sbilanciate nel loro momento di dipolo come l’acqua (vapore acqueo, H2O), il metano (CH4), il protossido di azoto (N2O) e così via. In pratica tutti i gas biatomici composti da atomi differenti, come il monossido di carbonio (CO) e tutti i gas composti da 3 o più atomi, per esempio l”ozono (O3), assorbono e riemettono radiazione infrarossa.

Gas SerraMolecola Contributo all'effetto serra (%)Forcing Radiativo (W/m²)Concentrazione troposfericaGWP (100 anni)Emivita atmosfericaNoteBande principali di assorbimento IRLunghezza d'onda (μm)Frequenza (cm⁻¹)Note vibrazionali
Anidride carbonicaCO₂9–26%~1.82~425 ppm130–100 anniBase di riferimento, accumulo costante4.3 μm, 15 μm4.3 μm, 15 μm~2349, ~667Asimmetrica e bending
MetanoCH₄4–9%~0.54~1.9 ppm25–30~12 anniPotente, ma meno persistente della CO₂3.3 μm, 7.7 μm~3.3, ~7.7~3010, ~1300Stretching e bending
Vapore acqueoH₂O36–70%Variabile, non quantificabile direttamenteVariabile (0.01–4%)Ore/giorni (dipende da pioggia)Non direttamente emesso, dipende dalla temperatura2.7 μm, 6.3 μm, >12 μm~2.7, ~6.3, >12~3700, ~1600, <800Molte bande, molto attivo
Protossido di azotoN₂O~2%~0.17~0.3 ppm~300~120 anniEmesso da fertilizzanti e combustione4.5 μm, 7.8 μm~4.5, ~7.8~2220, ~1280Stretching e bending
OzonoO₃ 3-7%~0.40~10–100 ppb (variabile stagionale)20-25Ore/giorni ma con impatto cumulativoInquinante secondario: si forma da NOx + VOC + luce solare9.6 μm~9.6~1040Vibrazione asimmetrica
Gas fluorurati
CFCs / SF₆ / PFC<1%
~0.34 (media stimata)
Tracce (ppb)1,000–23,500Centinaia a migliaia di anniEstremamente persistenti e artificiali8–12 μm, 10.5 μm~8–12~830–1250Bande forti e persistenti

Come si può vedere dalla tabella qui sopra in realtà il contributo netto dell’anidride carbonica al riscaldamento globale non pare essere così rilevante quanto quello prodotto dal vapore acqueo. Ma c’è una cosa molto importante che occorre tenere bene a mente: l’acqua di superficie del pianeta, ossia mari, fiumi, ghiacciai e oceani, ricoprono più del 70% del globo. Questo significa che ogni più piccolo aumento della capacità di trattenere calore nell’atmosfera si traduce immediatamente in un aumento della quantità di vapore acqueo contenuto in essa e quindi anche dell’energia termica trattenuta. E anche se l’aumento della copertura nuvolosa provoca un aumento dell’albedo, ovvero la riflessione della radiazione solare in ingresso fino al 90%, altrettanto questa impedisce alla radiazione del pianeta di uscire, un po’ come una coperta trattiene il caldo.
Questo è un circolo vizioso: se non viene trovato il modo di fermarlo non può che peggiorare. E l’unico modo è quello di impedire che altra CO2 si accumuli nell’atmosfera e che porti alla formazione di altro vapore acqueo e anzi, sarebbe pure opportuno cercare di ridurla. E per farlo non c’è che un modo veloce, rapido e naturale: piantumare nuove foreste e rigenerare quelle già esistenti, ridurre se non proprio eliminare l’uso dei combustibili fossili e i loro derivati; insomma occorre ridurre l’impronta antropica nell’ambiente: proprio il contrario di quello che incoscientemente abbiamo fatto nell’ultimo secolo perché i primi allarmanti segnali di quello che stavamo facendo al nostro pianeta sono conosciuti da almeno altrettanto3.
Finora gli oceani sono riusciti a stabilizzare abbastanza bene il clima ma questa loro capacità è quasi arrivata al suo limite. Inoltre la loro capacità di assorbire l’anidride carbonica diminuisce con l’aumentare della loro temperatura mentre l’aumento dell’acidificazione di questi è letale per gli ecosistemi più fragili come le barriere coralline che sono alla base della catena alimentare dei mari.

C’è più energia nell’aria

Ed eccoci al rebus che crea tanto sconcerto ai profani: come può essere in atto il Riscaldamento Climatico se qui, oggi, fa freddo?
Tralasciamo per un attimo la confusione che c’è tra clima e condizione meteorologica come  ho spiegato la volta scorsa. Spesso le persone credono che siano sinonimi ma non è affatto così: il clima si riferisce a un arco di tempo lungo, non necessariamente globale ma che comunque interessa una regione più o meno vasta o con caratteristiche simili: il clima mediterraneo, oppure tropicale o quello desertico; il tempo meteorologico invece interessa una porzione limitata nel tempo e nello spazio, ad esempio qui domenica quasi certamente pioverà mentre a Marsiglia oggi fa caldo. Allo stesso modo, se dico che nell’era pleistocenica i dati indicano che era più caldo di ora, mi riferisco all’andamento globale del clima di quel periodo e non che magari un giorno del Pleistocene accadde che nevicò sui Balcani.
Chiarito — una volta per tutte spero — questo concetto, passo ad illustrare perché proprio la settimana scorsa qui era freddo: nell’atmosfera c’è più energia; molta più energia di quanto serva a far sì che le escursioni termiche siano piccole come le vorremmo.  Immaginate di segnarvi anno dopo anno le temperature della vostra località sul calendario e poi di riportare quei valori su di un grafico; oggi le serie storiche di quasi tutto il mondo sono liberamente disponibili a chiunque: qui accanto potete vedere quella di New York. Come potete vedere quella che appare è una sinusoide: un picco minimo nella stagione più fredda e un massimo in quella più calda.
Se l’energia atmosferica fosse contenuta, anche le oscillazioni tra il minimo e il massimo lo sarebbero. Ma con l’aumentare dell’energia intrappolata nell’atmosfera anche le escursioni termiche aumentano di conseguenza e si fanno sempre più estreme e imprevedibili, come ho cercato di illustrare nella figura qui sopra. Ecco spiegato perché qui oggi fa quasi fresco mentre in questi giorni la Cina sperimenta un’insolita ondata di calore.

Conclusione

I rapporti isotopici che inchiodano le responsabilità umane nell’aggravare il naturale effetto serra della nostra atmosfera sono lì, nell’aria che respiriamo ogni istante; essi sono disponibili a chiunque abbia interesse a volerli studiare. Certo, occorre avere accesso alle strumentazioni appropriate per leggerli oppure ci si può rivolgere a un ente terzo come il NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration) verso cui confluiscono tutte le serie storiche mondiali a cui generalmente i climatologi di tutto il mondo fanno riferimento, o a enti analoghi — in Italia ci sono le ARPA (Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale)  — oppure a qualche università. Anche per farsi spiegare meglio di quanto abbia fatto io qual’è la differenza tra clima e tempo e cosa sia il Global Warming ci sono fior di accademici e professori — so che qualche fantademente usa questo termine in modo dispregiativo ma non me ne curo — pronti a farlo gratis.
Con queste due puntate ho tentato, e spero di esservi riuscito, a fare un po’ di luce su questo bruciante argomento; mi auguro che da adesso non vi facciate più trarre in inganno da incoscienti vestiti per bene che danno fiato alle trombe esclusivamente per i loro interessi.

Global Warming for dummies (prima parte)

Ho ascoltato con somma pazienza qualcuno affermare che a Bergamo con un paio di gradi in più si starebbe meglio.
Ma quando leggo di professori universitari o politici di una certa rilevanza — almeno mediatica — sparare castronerie come quelle che sento in questi piovosi giorni che “siccome oggi fa freddo allora il Global Warming è tutta una truffa mediatica“, vengo assalito dal tremendo dubbio se realmente stiano marciando così per propria convenienza (più probabile) o perché ne siano convinti (assai meno probabile).
Per questo ho deciso di tornare sull’argomento.

 

Articolo di giornale

Prima pagina di un (pessimo) giornale a tiratura nazionale.Il nome della testata è stato volutamente cancellato.

Nei giorni scorsi qualcuno mi fece notare la prima pagina di un quotidiano a tiratura nazionale, che qui ripropongo, per dimostrare quanto sia ancora controverso il dibattito sul Global Warming
Sì, qui ora mentre scrivo fa ancora freddo per essere metà maggio. Ma mentre qui e su più o meno tutta l’Europa centrale fa un po’ più freddo della media stagionale, in Spagna, nel sud della Francia e in Turchia la situazione è opposta. 
Coloro che denunciano l’inesistenza del Riscaldamento Globale trincerandosi dietro a una situazione meteorologica particolare hanno torto marcio. Non posso affermare se questa loro convinzione derivi dalla mancata comprensione del tema, dalla confusione che spesso viene fatta tra tempo meteorologico (locale sia nello spazio che nel tempo) e clima (andamento regionale o globale esteso nel tempo e depurato da fattori stagionali), oppure che si tratti di una scelta cosciente e ponderata.
Purtroppo propendo per questa seconda ipotesi, portata avanti da una corrente politica conservatrice e reazionaria transnazionale che si fa beffe del rischio globale che la civiltà umana in questo momento corre.
No, non penso che l’umanità corra il rischio di soccombere entro i prossimi decenni o secoli, ma tutta la nostra civiltà, il villaggio globale che faticosamente abbiamo costruito negli ultimi due secoli, potrebbe soccombere molto presto a causa della nostra scelleratezza se non abbiamo la volontà e la forza di correggere i nostri errori. 

Quindi non mi sento tranquillo quando sento gioire un uomo politico per lo scioglimento dell’Artide perché così si aprono nuove rotte commerciali[10] (dopo che il suo governo ha sempre negato che esista il Global Warming) e neppure quando vedo certi titoloni sbattuti in prima pagina come questo sopra che gioca pure sulle parole dando di fatto degli idioti a chi, in tutti questi anni, ha denunciato le pesanti responsabilità umane nell’attuale cambiamento climatico.

Dopo questa pesante filippica dove respingo ai mittenti la definizione di sciocco indirizzata verso chi si batte per sensibilizzare l’opinione pubblica e promuovere politiche di contenimento di un processo ormai quasi irreversibile quale è il Global Warming antropogenico, torno a spiegare cos’è e perché capita che, nonostante la tendenza al rialzo delle temperature medie del pianeta nel lungo periodo, possa in alcuni momenti fare ancora più freddo del solito.
Impiegherò un paio di puntate perché l’argomento non è difficile da comprendere ma lungo da spiegare ma spero lo stesso di riuscire nell’intento. Dopodiché sta a voi lettori cercare di spiegare agli scettici che incontrerete come stanno le cose.

Le prove che inchiodano le pesanti responsabilità umane: gli isotopi del carbonio.

Ciclo del carbonio atmosferico

Il ciclo del carbonio atmosferico in sintesi. La riga di centro indica i principali serbatoi naturali di carbonio. In verde sono descritti i principali processi che sottraggono il carbonio nella forma di CO2 dall’atmosfera. In rosso tutti gli altri, che cioè rilasciano carbonio. Credit: Il Poliedrico

Nessuno scienziato nega che il clima nei secoli scorsi sia stato anche molto diverso da quello attuale, ma i meccanismi di scambio gassoso con la litosfera hanno mantenuto per milioni di anni il tasso di concentrazione dell’anidride carbonica dell’atmosfera entro i 150-300 parti per milione. I complessi meccanismi alla base del ciclo naturale del carbonio (in realtà sono due: il ciclo organico e quello geologico) sono i responsabili di queste contenute oscillazioni: una minor concentrazione della CO2 atmosferica — sottratta dalle piante — porta all’abbassamento della temperatura a livello globale, ossia a una glaciazione; di conseguenza, anche le foreste che sequestrano l’anidride carbonica atmosferica trasformandola in lignina diminuiscono di pari passo con l’avanzata dei ghiacci mentre le emissioni vulcaniche intanto rimangono sempre abbastanza costanti. Questo ultimo fatto porta lentamente a un rialzo della percentuale di CO2, un riscaldamento globale naturale che sottrae di nuovo spazio ai ghiacciai e lo restituisce alle piante. E così all’infinito: cicli interglaciali caldi con alti (max 300 ppm) tassi di anidride carbonica atmosferica intervallati da periodi glaciali in cui la CO2 è più bassa (150-180 ppm).
L’anidride carbonica sequestrata dalle foreste sotto forma di lignina tramite processi di marcescenza e alte pressioni finisce per trasformarsi in carbone, mentre i medesimi processi trasformano in petrolio e gas naturale gli animali che, nella loro catena alimentare, in definitiva si sono nutriti di quelle stesse piante. Con l’inizio dell’Era Industriale tutto questo è cambiato: in appena 250 anni, e specialmente nell’ultimo secolo, l’Uomo ha imparato a sfruttare a proprio vantaggio l’energia racchiusa in quei serbatoi naturali di carbonio attraverso la combustione di quelle sostanze (combustibili fossili). Quindi buona parte di quel carbonio sequestrato dall’atmosfera in milioni di anni è stato liberato di nuovo in appena un paio di secoli e poco più.

Clima

Concentrazione della CO2 nell’atmosfera negli ultimi 800 mila anni (ppm). Credit NOAA/Il Poliedrico

La riprova di quanto ho detto sta nei rapporti isotopici del carbonio atmosferico: il 12C e il 13C sono due isotopi stabili del carbonio e poi c’è anche il 14C, un radioisotopo del carbonio che ha origine dall’interazione dell’azoto atmosferico coi raggi cosmici secondo lo schema: $$ n + \ ^{14}N \rightarrow p +\ ^{14}C $$
Il radiocarbonio 14 (6 protoni e 8 neutroni) ha una emivita di appena 5715 anni, ossia circa la metà degli atomi di una certa quantità di 14C torna ad essere 14N (azoto 14) per effetto del decadimento β in quasi 6000 anni.  Siccome la quantità di raggi cosmici negli ultimi 100 mila anni è più o meno costante, anche la quantità di 14C atmosferico è rimasta pressappoco la stessa (circa 70 tonnellate) nel medesimo arco di tempo[11]. Il naturale decadimento radioattivo del carbonio 14 comporta che esso sia praticamente assente nei combustibili fossili, e infatti sono circa due secoli che i naturali rapporti tra gli isotopi 12C, 13C e 14C espressi negli ultimi 800 mila anni stanno mutando come conseguenza al consumo di questi 1.
Sempre rimanendo a parlare di isotopi del carbonio, occorre anche ricordare che a parità di proprietà chimiche i processi biologici prediligono sempre gli atomi più leggeri 2: per questo nell’anidride carbonica prodotta dall’uso dei combustibili fossili il δ13C è sbilanciato in favore della versione più leggera dell’atomo di carbonio (12C).
E come detto in precedenza, dalla combustione di fonti fossili è assente la versione più pesante del carbonio (14C) perché esso dopo appena 75 mila anni è ridotto a circa 1 millesimo di quanto era stato sequestrato all’inizio. Quindi, è l’analisi temporale dei rapporti fra i diversi isotopi che ci conferma che l’attuale surplus di anidride carbonica atmosferica è dovuta all’uomo e alle sue attività energivore basate sui combustibili fossili.

Non sono io, non è qualche scienziato prima di me o la ragazzina svedese Greta Thunberg a dirlo: sono gli isotopi del carbonio a farlo; i fatti, quelli su cui ogni giornale dovrebbe basarsi e sui quali qualsiasi politico dovrebbe tener conto prima di prendere una decisione che potrebbe influire sulla collettività, sono questi.


(fine prima parte)

SAY IT AIN’T SO STEPHEN (the last part)

Planets of the apes

Make love, not war Unlike their chimpanzee cousins, the bonobo apes often resort to sex as a social tool for conflict resolution.

Make love, not war
Unlike their chimpanzee cousins, the bonobo apes often resort to sex as a social tool for conflict resolution.

Humans and chimpanzees share much more than a common ancestor some four million years in the past. They share, in particular, a not infrequent and sometimes decidedly disastrous tendency to solve problems with individuals of the same species—even the same social group—by violent means.
It can be argued that in the long run such bad manners do actually offer some sort of evolutionary advantage. Big strong males scaring rivals off mate more frequently, passing their traits along. Hierarchical order enforced through a blow or two to the head helps keep rules from being broken by rogue individuals. Territory is defended fiercely, which results in better survival chances for the tribe. Et cetera.
It is not widely known, though, that chimpanzees do have very close relatives, one of the two species making the genus Pan (the other one being the chimpanzees themselves). The bonobo—or Pan Paniscus, if you really want to be formal—differs from Pan Troglodytes in a just a few details here and there physically, like relatively longer legs, pink lips, dark face, and parted long hair on its head. It all boils down as something very much like what happens with crocodiles and alligators, which would be basically the same kind of creature to the average beholder.
Physically that is. Now socially is an entirely different pair of shoes.

Make love, not war (2) In a few moments of human history there have been pacifist movements on a global scale. The Hippies of the late 60s are an example. But the Hippy culture also had an important historical role for the subsequent technological computer revolution.

Make love, not war (2)
In a few moments of human history there have been pacifist movements on a global scale. The Hippies of the late 60s are an example. But the Hippy culture also had an important historical role for the subsequent technological computer revolution.

Bonobos have been found to drastically lack the aggressiveness exhibited as a norm by chimpanzees—matter of fact, they seem to spend a lot of their awake time engaged in what could be best described as Peace And Love. Literally, in case you were wondering: sexual activity generally plays a major role in bonobo society, being used as what some scientists perceive as a greeting, a means of forming social bonds, and a means of conflict resolution. (They also do not seem to discriminate in their sexual behavior by sex or age, with the possible exception of abstaining from sexual activity between mothers and their adult sons. Male/male or female/female interaction are quite common.) Their unique approach to life does not end there—according to observations in the wild, when bonobos come upon a new food source or feeding ground, the increased excitement will usually lead to communal sexual activity, presumably decreasing tension and encouraging peaceful feeding. (!)
So there. We have basically the same kind of creature, with the same abilities and capacities yet a totally opposite attitude, which does not appear to be the result of any Ten Commandments brought down from the inexistent mountains in the Congo river. It can be rightly argued that such a peaceful bonobo society anyway has not, technologically and scientifically, done a whole lot—no spaceflight, fire, or advanced agriculture—but then neither have the aggressive chimps, come to that.
So at the very least the remote possibility would seem to exist that an alien society on a nearby world could very well be found to virtually lack the worst hostile impulses that have long plagued our own human societies. They, in a sense, would be the bonobos to our Homo Sapiens. Meaning no wars—and more importantly, no Wellsian invasions of neighboring planets.
Absolute certainty? Of course not. But we can hope, we can hope….
It could be pointed out that at any rate aggressiveness has worked for us humans, helping us fend off all those pesky predators to eventually come to rule the world as the dominant species. And yet even we have slowly begun to understand the perils of our ways. We haven’t always been able to stop the lunacy: right up to 1914 virtually everybody and his kid brother in polite society was fond of explaining why wars had become obsolete and totally absurd in the brave new world we had created by then. Yet we had the horrible and totally unprecedented Great War—and, only a few decades later, an even more devastating one ending in a potentially world-ending scenario.
And still.

[…]
but these NIGHTS!
Heights of the summer’s nights, stars above and stars of Earth besides: O to be dead at last and at long last eternally to know the stars… the stars! How, how, how can they ever be forgotten?
[…]
Rainer Maria Rilke: Duineser Elegien

The Cold War didn’t end in a hot one. And when we stepped onto another world, for the first time ever in history, we did it in peace, with no weapons.
The universe did not come with guarantees. There were no guarantees we could achieve the level of knowledge required to explore the Solar System, to take that small step for a man that became a giant leap for all of humankind. There are no guarantees we have brethren of some kind out there in this vast sea of stars around us; intelligences like ours—or vastly different from ours, conceivably—from which we can learn, and keep going on as a society, a species. As there are no guarantees those intelligences, if found at all, will be as peaceful and friendly as we would like them to be.

There’s just the one way to know—to boldly go where we haven’t gone before. For that to happen, we can’t look at the stars above in abject fear and despair. We’ll have to turn to poet Rainer Maria Rilke for the right emotion to feel when looking up at the night sky, when we contemplate the thought that up there we have before us the greatest adventure ever, a journey that hopefully—no guarantees—will take humankind to heights we ourselves today won’t get to see but can dream about:

March 2019

SAY IT AIN’T SO, STEPHEN (third part)

Pride And Punishment

On Easter Island we can see a perfect example of the collapse of an isolated civilization. It was the isolation and over-exploitation of the available natural resources that were considered inexhaustible to trigger it.

Company isn’t just an antidote for boredom—when it comes to cultures, it may mean the difference between stagnation and growth.
Australian aborigines, cut off from contact with other human groups (and the fresh achievements in technology and knowledge they would bring with them), hit a technical peak—and stopped there. Without any new input, any new ideas to add to their own savvy, to crossbreed with their own knowledge to result in a breakthrough conducive to a higher mastery of their environment and resources, they could go no further. Uncorroborated reports point out to some Tasmanian groups even losing the capacity to make fire—which they would thereafter remedy by borrowing it from friendly neighbors—if admittedly this would be an extreme case of technical retrogradation.
Cultural and technological isolation can also, oddly enough, happen by deliberate choice. After developing a very interesting civilization the Chinese during the Qing dynasty in the 15th century pretty much decided what they had achieved so far was good enough for them, and that was it. They from then on stopped virtually all contacts with the outside world (and the new developments in both science and technology) until the outside world then by the late 1800s drastically showed them what they had been missing all along. The consequences are arguably felt even to this day.
Japan was another such case, if here the reaction to Commodore Perry’s forceful opening of the islands to the world was a policy of quickly catching up on what the previously ignored neighbors had to offer, which turned Japan into a world power some decades later.
Contact with other cultures, then, appears to be a sine qua non for any civilization to live long and prosper, to borrow a phrase. Sufficiently interested readers are invited to take a look at I. Shklovskii’s Universe, Life, Intelligence, (Moscow, USSR Academy of Sciences Publisher, 1962)—later developed into Intelligent Life In The Universe, after a collaboration with Carl Sagan—for a number of insights on this issue.
And, once more, science fiction was there first. Aside from all the fast-paced adventures of the space explorers he depicts as stranded on Earth, the premise of Chad Oliver’s The Winds Of Time (1957) is indeed the plight of a lonely civilization looking desperately everywhere else for company. It of course helped that Oliver was an anthropologist himself, a point evident throughout the novel.
So, at the very least, then a case can be made as well for a hypothetical technically advanced alien culture being also self-contained and averse to foreign contacts—which greatly diminishes the chances they need to come all the way to Earth to show what their weaponry can do.
Which, naturally, brings us once again to the issue of which is the more advanced civilization (in what science and/or technological field??) and what exactly can you do when you come to Earth with all guns firing.

Go native or go home

A very overlooked aspect in the collective imagination is that our world may seem more dangerous and threatening to aliens than they are to us.A hydrothermal worm. Credits: Philippe Crassous

Suppose, if you will, you’re parachuting on the Amazon jungle. (Let’s ignore that nasty canopy of treetops where your parachute has every chance to become entangled, and assume you’ll make it to the ground all right.) All through the descent you’re surrounded by the best technology available, from the ingenious device that allows you to slow down what otherwise would be a freefall, to the boots protecting your feet from the rough ground.
And now, having made it to the floor of the jungle, you’re ready to show those tribesmen who’s boss. As soon, that is, as you can wipe all that sweat from your forehead. And fend off those insects flying around you. Oh, yes, also the snakes. Did we mention the insane heat?
Oh, well, at least you can call for reinforcements, in case things get slightly out of hand. Right? Right? “What do you mean, help may take decades to come?” “Er, we mean lightspeed. Like nothing can go faster than that, unless you develop some Star Trek-like warp speed. And even then travelling through interstellar distances will still take some time. Hellooo!”
Meh, forget it—your call for help won’t be answered for several years, and it’ll take twice as long for you to be able to hear the response. That uncooperative limit set by the speed of light, remember.
Supplies, supplies, supplies. You’re using up your bullets on those pesky aborigines like water; better save some for a rainy day. (Rainy day in the jungle, now that you mention it, how about that. Not nice, no sirree.) Food, of course; the local fare is inedible when available at all.
So you can see the problem here. Unless the planet you’re bent on invading is a rather close duplicate of your own, chances are you’ll find the whole enterprise as charming as invading Hell. The local gravity field, for starters: Wells’ Martians had to resort to some serious technical props to move about in a world where they felt three times heavier, and conceivably didn’t have it any easier either when trying to sleep at night (imagine you’re wearing a full-body cast after an accident, say). It could be the other way around—a weaker gravity that initially will make you feel like a star athlete capable of the most astonishing feats until you start losing muscle and bone mass, and become irreversibly unable to set foot on your home world again.
And yes, the environment; temperature and such details. What liquid did you say plays the role of water in your home world? Ammonia? How nice—but no, it isn’t a liquid here; kind of too hot here on Earth for that. You might decide you’ll then forgo taking showers, but how about dying of thirst?
Oh well, is your home “water” instead a silicone fluid? Then I’m afraid this planet is a tad too cold for you—you’d need another one with a hotter mean temperature than a blast furnace.
Invading a planet with a totally alien biochemistry would have one advantage though—the local microbial fauna and flora conceivably wouldn’t be able to eat you alive, like they did Wells’ Martians. Only, of course, that might not be enough of an incentive to travel lightyears away from your home world, fight natives that outnumber you (and might have a trick or two up their technological sleeve) and, if you’re lucky, conquer a world you can’t live in unprotected.
A thought here: Even for a race so addicted to war and conquest as the human race, environment counts. All invasions here have taken place under the same gravity, with a similar atmospheric composition, and with an adequately edible fauna and flora. Also within the same mean temperature range—nobody has rushed to conquer Antarctica, or sent armored divisions to occupy that nicely dry Sahara Desert.
So that would then leave terraforming—or “alienforming,” if you will. You will conquer that alien, uninhabitable world, and then spend conceivably centuries trying to turn it into some place nicer where you can hope the grandkids of your grandkids may one day live. A case can be made for trying that with a world closer to yours though—preferably on your own star system, if you already have that kind of technology at hand.
Unless, of course, those aliens are so incurably aggressive.


(To be continued…)

SAY IT AIN’T SO, STEPHEN (second part)

Sweet Home Amazon

Countless Americans were fooled into believing a real Martian invasion of America was taking place on October 30, 1938. The perpetrator of this supposed “hoax” was The War of the Worlds. Performed primarily by Orson Welles — and based on the 1897 H.G. Wells novel of the same name — the show was unprecedented in bringing fictional aliens into american’s homes. Thousands panicked, and police even showed up at the radio studio to shut it down.

For the sake of argument, we’ll freely agree to stipulate there are alien lifeforms out there, (whatever you may mean by that) of an adequately intelligent variety (again, we’ll accept any working definitions), on as many planets around as many stars as you would like to include in this here conversation. We’ll even go ahead and also grant them the capacity to exercise a modicum of control of their environment—i.e., consider them gifted with hands, trunks, tentacles, or whatever suitable piece of anatomy of theirs can be used for similar purposes as our own upper paws.
That, in ultimate analysis, would appear to be the mark of a technology-capable species with a serious chance to become dominant in its world. You need something that can grasp that stone ax (or its equivalent) so you can hit dead that nasty creature trying to eat you before you can even tame fire (or whatever passes for it), don’t you. And how exactly do you plan to build that spaceship to invade Earth if you don’t have a good pair (or dozen pairs) of tentacles?
Since they can be argued to be related, we’ll also from now on loosely regard both science and technology as two sides of the same coin, and accordingly imply either, or both, as convenient. You have roughly the technology that your science allows you to develop; and in turn, your technology allows you to acquire more science (ever heard of the Hadron Collider?)
So there. You have your intelligent, technically savvy, and science-oriented aliens. What of it?
If you feel tempted to occasionally agree with those worried about a potentially hostile, scientifically and technologically more advanced alien civilization, rest assured it is a perfectly natural, and even logical, feeling—it would take more than a moderate dose of narcissism to believe that Earth, and only Earth, is the science and technology leader in the known universe. Our Sun is roughly five billion years old, with the slightly younger Earth boasting tool-using hominids for possibly just three million years—and did we mention the Industrial Revolution, which gave us steam power, mass production, and ultimately, our present fledgling space exploration program, came about a mere three centuries ago?
Meanwhile, the closer stars are to the Milky Way nucleus, the older they are—way older than our comparatively juvenile Sun. It would make sense to consider the possibility they have planets, and civilizations. Cultures which, in accordance with the same basic reasoning, should boast a science and technology arguably surpassing those of Earth by the same margin as, say, modern Western ones outpace the knowledge and technical skills of the last remaining isolated Amazon tribes….
Distance, of course, may play a role here—the Eskimos were never conquered by Chaka Zulu, say. The Australian aborigines don’t seem to have needed to plan in a hurry how to hold off the Roman legions. At least preliminarily, therefore, we’ll consider just the immediate neighborhood of our Solar
System, and hope the nasty guys next galaxy have their hands full with their own neighbors.
At first blush, it would then appear there are three main possibilities
a) We have technologically capable neighbors all right, but they happen to be less advanced than we are. (So we don’t have to worry about them, at least for a good while, depending on how far ahead we are. Whoopee.)
b) Our neighbors, alas, are roughly as science and technically savvy as we ourselves are. (Think, if you will, of a Star Trek-like scenario; everybody with about the same gadgets. Or, given our present capabilities, every other civilization in the area enjoying a Western, middle-class life standard.) We can’t reach them, they can’t reach us. Still acceptable so far, but we can’t rule out the possibility they get ahead of us by some unexpected discovery or two. (Think America in 1945 suddenly coming up with the atomic bomb.)
c) We are the Amazonian tribe in this neighborhood—everybody else and his kid brother is way, but way ahead of us in everything science and technology. (Depressing, scary, and arguably absolutely plausible.) Uh-huh.
And now we feel it is a good time to put something to you here.

Relativity and linearity

The first European explorers of Australia carried with them a number of technological products the likes of which the aborigines had never seen and couldn’t even begin to make sense of. In turn, the explorers were equally baffled by a piece of indigenous technology arising from an empirical if adequate knowledge of aerodynamics they themselves had no clue of—the returning boomerang.
Native American groups like the Innuit could (and did) teach the first visitors from Europe a thing or two about insulation techniques. Maya medicine and calendar were more knowledgeable than those of their eventual conquerors. Interestingly enough, they seem to have never hit on the idea of the wheel, for all that they were of course aware all right of its shape.
At this point, if not earlier, you have conceivably guessed what the underlying issue here is—assessing scientific and technological superiority, or inferiority, is a tricky proposition.
Complicating things even further, the development of science and technology is anything but a linear process.
A given culture may have excellent marks on this area of technology, and that area of knowledge—only to miserably fail to grasp that other science concept that could conceivably give it an edge, and completely skip yet this other technology that you would swear was so vital that everybody should be able to discover it in due time—and thus go from A to C without having a clue B even existed. Again, both the Maya and Inca civilizations went on to achieve impressive heights without even imagining that metallurgy, with all the advantages it implies, was within their reach.
Next, there’s absolutely no guarantee that a scientific or technical development, once discovered or achieved, will go on to become part of that civilization’s capabilities—or even be taken further to a stage where it becomes a distinct advantage.
Though the Chinese invented the rocket as far back as the 10th century, it remained a relatively modest auxiliary weapon that had all but disappeared from battlefields (and from China herself) by the time the Germans at Peenemunde decided to take a different approach to it. The fifth century Greeks were already experimenting with steam machinery—only, unfortunately, they failed miserably to see its possibilities. It’s anybody’s guess what modern history would be like if that incipient technical revolution had taken root.
And in the early 1900s electrical automobiles were thought to be the future, only to be rendered moot by petrol ones—a trend that many try to reverse today. Incidentally, petrol cars used the same combustion engine technology that in turn allowed heavier-than-air flying machines, cutting short the hitherto seemingly unstoppable development of blimps for air transport….
Therefore we can go ahead and postulate the possibility (and plausibility) of an alien culture in possession of some of our technologies, while lacking some others. Like, say, they have space-faring vehicles, but no radio (which

incidentally was the case of Wells’ Martians). Or they developed the laser, but have no hint that computers could be even a possibility. Or…or…
A strong advantage here—an Achilles’ heel there. What side could emerge the winner in a (wildly speculative, we would hope) clash between any one of those myriads of plausible civilizations and ours is left as an exercise for the gentle reader.


(To be continued…)

SAY IT AIN’T SO, STEPHEN (first part)

Con questo articolo, suddiviso in quattro puntate per motivi di lettura, inizia la nostra collaborazione con lo scrittore americano Ricardo L. Garcia. Gli episodi di questo saggio usciranno uno per settimana per tutto il mese di aprile e … saranno in inglese!
Cieli sereni

 

“We come from a planet far beyond this galaxy. A planet far more developed than Earth.” To Serve Man (1962)

For most of us, the sight of the skies at night brings a feeling of awe—so many stars, so far away, so full of mystery.
Some will see in them the mark of a Creation with a purpose and a message, a timeless show of power infinite and logical and coherent. Others will instead regard the distant points of light up above and argue how inevitable it was—considering what we have come to know about the laws governing at least this Universe—that they formed out of the Legos of matter and antimatter, energy and dark energy, given enough space-time and a Big Bang or two.
And still some others (hopefully few in number if in the utterly baffling company of minds like Stephen Hawking’s, no less) will look at the stars above in fear, of all feelings.
Not fear that the stars fall down and wreck this green, sweet world of ours—for all that the slightly misnamed “falling stars” (aka meteorites) do deserve some serious attention, viz. Tunguska, 1908—but that strange and powerful civilizations, evolved on planets orbiting those same points of light embellishing the night sky, may make it their next New Year’s resolution to attack and conquer a defenseless Earth.
Anybody else blaming Herbert George Wells please raise your hands.
Let it be entered into evidence that prior to The War Of The Worlds (1897) all imagined aliens (literary or not) were considered benign, when not decidedly saintly and having a soft spot for their laughingly naïve earthly cousins, as in Voltaire’s Micromegas. It was only, alas, after Wells’ tale of bellicose Martians braving a crippling gravity to go on to beat the earthlings with weapons resulting from a vastly superior technology that the idea of conquerors out of space started to draw some attention.

While so far we seem to be living in a safe neighborhood—no signs of civilizations, the nasty kind or else, have been detected from Mercury to the Kuiper Belt apart from our own, which we don’t propose to label here—the sea of stars up above could very well, we are told, be a different story (pun shamelessly intended). Not that long ago, the late world-renowned
astrophysicist Hawking warned us against the perils of advertising our presence here to the universe at large; like, say, insisting on such adolescent behavior as beaming radio messages at star cluster M13 or (the horror!) even irresponsibly inflicting our musical tastes on any entities out there retrieving the records on Voyagers 1 and 2. (What conceivable retaliation could follow listening to Johnny B. Goode is an alarming thought.)
It is, to be sure, a little late for that, and not only because those proofs of our existence have already been sent on their way. Granted, the 1974 message sent from the Arecibo, Puerto Rico, radio telescope (consisting of 1,679 binary digits, approximately 210 bytes, transmitted at a frequency of 2,380 MHz and modulated by shifting the frequency by 10 Hz, with a power of 450 kW, with a total duration of less than three minutes) will merely take some 25,000 years to reach its target, and anyway it was intended more as a technology exercise than a real hello. Voyager 1, more in keeping with certain post office standards for delivery of packages, will instead take some 40,000 years to come within shouting distance of star AC 79 3888.
All of which would seem to suggest we still have some time to prepare ourselves to be gallantly—and inevitably—defeated by that superior alien technology. Except, of course, we may not have that long: Ever since 1920 a lot of our radio, and then later also TV transmissions, passing with relative ease through the ionosphere, conceivably have given us already away decades ago to any alien civilization out there.
So there. What can we possibly do?


(To be continued…)

VLTI (Gravity) registra la prima atmosfera extrasolare

HR8799. Una stella distante 129 anni luce, è la prima ad ospitare un pianeta di cui si sia osservata direttamente l’atmosfera!

Sono passati appena 40 anni da quando fu accertata l’esistenza dei pianeti attorno alle altre stelle; non che vi fossero dubbi al riguardo ma si riteneva che dimostrarne l’esistenza e perfino scrutarne qualcuno — come poi è stato fatto — fosse impossibile. E invece … eccoci qua!
Sfruttando l’ eccezionale apertura interferometrica di ben 100 metri (vedi nota a piè di pagina), gli astronomi sono riusciti a ricavare lo spettro dell’atmosfera di HR 8799 e, uno dei quattro pianeti di una stella molto giovane — appena una trentina di milioni di anni — di classe F0, distante appena 129 anni luce [12]. Il corpo celeste è un gioviano caldo, con una massa superiore di circa 10 volte quella di Giove ed è altrettanto giovane quanto la sua stella. Questa è una fortuna, perché permetterà in seguito di studiare nel dettaglio la sua evoluzione.
Comunque intanto sono stati raggiunti, e superati, diversi traguardi: il primo, e sicuramente il più importante, riguarda la capacità tecnologica di riuscire ad osservare finalmente l’atmosfera di un esopianeta, ossia di un mondo che non appartiene al nostro sistema solare; il secondo è che quell’atmosfera non è esattamente come i modelli standard delle atmosfere planetarie descrivono. E questo spingerà senz’altro gli astronomi a cercare e studiare altre esoatmosfere per cercare di comprenderne meglio i meccanismi. Intanto vi invito a consultare i link a fine articolo per vedere i risultati scientifici.
Questo è il link al comunicato ufficiale dell’ESO

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Note:

 

Schizzo della disposizione dell’interferometro del VLT. La luce da un oggetto celeste distante entra in due dei telescopi del VLT e viene riflessa dai vari specchi nel tunnel interferometrico, al di sotto della piattaforma di osservazione sulla cima del Paranal. Due linee di ritardo con carrelli mobili correggono in continuazione la lunghezza dei cammini in modo che i due fasci interferiscano costruttivamente e producano frange di interferenza nel fuoco interferometrico in laboratorio.

L’Interferometria viene usata da decenni nel campo delle onde radio, dove si possono ottenere immagini con strumenti virtuali pari quasi al diametro terrestre, Il principio di funzionamento di un apparato interferometrico si basa sulla sovrapposizione in fase di due o più segnali coerenti allo scopo di esaltarne il segnale; per ottenere questo effetto però la differenza tra i cammini ottici dei fasci stessi deve rimanere inferiore ad un decimo della loro lunghezza ottica. Ora, nella radioastronomia il margine è piccolo ma comunque ottenibile senza grosse difficoltà: a 21 cm di lunghezza d’onda — ossia quella dell’idrogeno interstellare — la tolleranza è di appena 2 cm; anche se questa è misurata su basi lunghe migliaia di chilometri (Very-Long-Baseline Interferometry). Ma ricorrendo a trucchi che prevedono l’uso combinato di orologi atomici locali e maser all’idrogeno, l’ostacolo è comunque facilmente risolvibile.
Ma questi non funzionano nell’interferometria ottica dove le fasi del segnale sono lunghe appena 1μm (ossia nel vicino infrarosso) e dove quindi la tolleranza richiesta deve essere ancora dieci volte più piccola, Questo risultato però è ottenibile facendo convergere i fuochi dei 4 telescopi del VLT in un unico punto avendo cura che tutti i segnali percorrano esattamente la stessa distanza. In questo modo, e sfruttando sapientemente le ottiche adattive dei telescopi, si può raggiungere l’incredibile risultato di avere una risoluzione pari a circa un millesimo di secondo d’arco a  1μm di lunghezza d’onda. Il che significa risolvere un oggetto grande appena un paio di metri sulla Luna!

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