La Settimana della Scienza e la Notte dei Ricercatori 2014

manifesto-dpi-100_1Nonostante il continuo calo degli investimenti nella scuola e nella ricerca pubblica attuato dai governi di ogni connotazione politica di questi ultimi anni in nome della sostenibilità finanziaria imposta dai vincoli europei e che pone ai ricercatori seri problemi  anche strutturali, la ricerca scientifica in Italia è ancora viva e pulsante. In aggiunta, lo spazio dedicato ad essa nel panorama mediatico italiano è alquanto scarso se non addirittura in molti casi deprimente, eppure i risultati scientifici italiani continuamente ottenuti nel panorama internazionale dimostrano la qualità, e spesso l’eccellenza, della ricerca italiana.

Nonostante tutte queste difficoltà I ricercatori italiani continuano a competere con gli altrettanto preparati ricercatori europei nei loro rispettivi campi d’interesse: fisica, matematica, medicina e biologia, tanto per citarne alcuni.

Proprio per sensibilizzare al massimo l’opinione pubblica su questi risultati è che da 9 anni viene organizzata la Settimana della Scienza (22 – 26 settembre) che terminerà con la Notte Europea dei Ricercatori (26 settembre). Tra le 5 manifestazioni italiane finanziate dalla  Commissione Europea questa, DREAMS, è risultata essere la prima classificata in Europa nell’ambito della Researcher’s Night con ben undici città coinvolte su tutto il territorio nazionale e partner scientifici tra i più autorevoli al mondo, ed è coordinata dall’Associazione Frascati Scienza. Il tema scelto per quest’anno  è la “Sostenibilità”, una parola semplice che racchiude mille problemi urgenti che richiedono di essere risolti nei prossimi anni.

  • Sostenibilità alimentare ad esempio. Questo è uno dei prossimi problemi più urgenti da risolvere. Il Riscaldamento Globale erode la qualità e la quantità dello spazio legato all’approvvigionamento  alimentare globale, procurando un argomento particolarmente sensibile per i suoi risvolti socio-economici per gli anni a venire. Strumenti di monitoraggio dallo spazio, nuovi sviluppi nelle tecnologie genetiche e agro-alimentari etc. saranno importanti per la soluzione di questo problema.
  • Sostenibilità energetica. Anche qui le crescenti difficoltà legate ai combustibili fossili richiedono uno sforzo di ricerca non indifferente. Altri schemi , altre politiche energetiche e altri modi di vivere e pensare l’energia è un’altra sfida in linea col problema della sostenibilità globale.

Questi sono solo due banali esempi  sulla complessità del tema scelto per quest’anno e che i ricercatori italiani ed europei saranno chiamati a d affrontare nei prossimi anni. Nelle undici città  durante tutta la settimana e nella nottata del 26 settembre verranno mostrati al pubblico quello che intanto è stato raggiunto finora attraverso dibattiti, convegni e mostre sia per il pubblico adulto sia per i bambini.

Maggiori informazioni sull’evento e i luoghi che ospiteranno le manifestazioni sono disponibili su
http://www.frascatiscienza.it/pagine/notte-europea-dei-ricercatori-2014

A caccia di mostri: nascita delle galassie più massicce dell’Universo.

La settimana scorsa, giovedì 21 agosto 2014, il Prof. Danilo Marchesini della Tuft University di Boston (potete vedere la cartina qui in basso) è stato ospite presso l’Università di Siena per una conferenza come dal titolo.  Non perdo tempo e vi lascio subito a questa visione.
Ringrazio l’Università di Siena e la persona di Alessandro Marchini per aver reso pubblico  il video dell’incontro.

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Congiunzione Venere – Giove del 18 agosto 2014

Muovi il puntatore sulla figura per vedere le etichette.
Credit: Il Poliedrico

Finalmente la Congiunzione forse più attesa di quest’anno sono riuscito a vederla. Ammetto che è stata una levataccia, alle 04:45, ma ne è valsa la pena!
Purtroppo ho il telescopio guasto, probabilmente è solo un problema di alimentazione che risolverò nei prossimi giorni. La foto qui sopra infatti è stata scattata senza inseguimento, manovrando il tubo alla vecchia maniera come facevano gli astronomi del passato. Quindi anche se seccante, non è stata un’esperienza poi tanto male.
Qui sotto ci sono altre foto di stamani, divertitevi!

IMG_7327b Venus and Jupiter Jupiter and Venus

Come ti calcolo le proprietà di un esopianeta, la massa (metodo radiale)

 

metodo dopplerI metodi per l’individuazione degli esopianeti sono sostanzialmente due: il metodo dei transiti, cioè quello analizzato fin qui nelle scorse puntate e usato dal celebre telescopio spaziale Kepler, e il metodo delle velocità radiali, che consiste nell’individuare lievi spostamenti doppler periodici nelle linee spettrali di una stella provocati dalla presenza di uno o più pianeti in orbita.
I vantaggi di questo metodo sono che attraverso il metodo delle velocità radiali è possibile avere una stima molto più precisa delle velocità orbitali, tant’è che è – per ora – l’unico metodo abbastanza affidabile che consente di ottenere una stima della massa di un esopianeta.
Come il precedente, anche questo approccio per trovare la massa di un pianeta extrasolare è legato alla legge fisica chiamata la conservazione della quantità di moto 1. La legge di conservazione del momento dice che in ogni sistema chiuso (cioè, un sistema in cui le forze esterne sono trascurabili), la quantità di moto totale di tutti gli oggetti del sistema non può cambiare. Pertanto, quando gli oggetti all’interno di un sistema chiuso interagiscono uno con l’altro, la quantità di moto di un singolo oggetto può anche cambiare, ma la quantità di moto totale di tutti gli oggetti all’interno del sistema deve rimanere costante.
Per questo si può scrivere legittimamente la relazione \(p_{\bigstar} = p_{p}\) 2,ovvero:
\begin{equation}
m_{\bigstar}v_{\bigstar}=m_{p}v_{p}
\end{equation}
Da qui ne consegue che si può scrivere anche:
\begin{equation}
m_{p}= \frac{m_{\bigstar}v_{\bigstar}}{v_{p}}
\end{equation}

La massa della stella si ottiene come al solito dalla relazione temperatura/luminosità ricavabile dal diagramma di Hertzsprung-Russell che consente di risalire alla massa della stella 3.
Purtroppo l’equazione qui sopra chiede la velocità orbitale del pianeta mentre attraverso la periodicità dello spostamento spettrale (V. figura in alto) restituisce il periodo orbitale del pianeta \(P_{p}\) attorno al centro di massa del sistema. Ma semplificando la Terza legge di Keplero per la Legge di Gravitazione di Newton si può scrivere che:
\begin{equation}
P_{p}^2=\frac{a_{p}^3}{M_{\bigstar}}
\end{equation}
dove appunto \(a_{p}\) è il semiasse maggiore dell’orbita del pianeta. Assumendo come nel caso scorso che sia un’orbita perfettamente circolare, si può dire anche che \(a_{p}\) è uguale al raggio dell’orbita, pertanto la circonferenza orbitale è pari a \(a_{p}\cdot 2\pi\), mentre la velocità orbitale non è altro che questa distanza diviso per il suo periodo \(P_{p}\):
\begin{equation}
v_{p}=\frac{2\pi a_{p}}{P_{p}}
\end{equation}
ecco la nostra velocità orbitale del pianeta e di conseguenza la sua massa!

equazione


Note:

 

Nubi mesoseriche polari e riscaldamento globale

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cloudsclouds

Nubi nottilucenti in streaming attraverso il cielo a Utrecht, Paesi Bassi il 16 giugno 2009 Credit: Robert Wielinga

Non è la prima volta che mi occupo delle nubi mesosferiche polari, più comunemente note come nubi nottilucenti [cite]http://ilpoliedrico.com/2011/11/le-nubi-nottilucenti-e-il-buco-nellozono-artico.html[/cite].
Il loro spettrale aspetto è dovuto alla particolare struttura delle particelle di ghiaccio d’acqua che le costituiscono: particelle che vanno dai 20 ai 70 miliardesimi di metro (nanometri), un decimo delle lunghezze d’onda visibili, che si formano quando la temperatura scende a -130° Celsius. A quella scala dimensionale lo scattering della luce solare diffonde infatti soltanto la luce blu, ed è quello appunto il colore con cui le vediamo.

Le prime osservazioni sicure di queste nubi particolari sono successive alla terribile eruzione del vulcano Krakatoa del 1883, tant’è che all’inizio si pensò che queste nubi mesosferiche fossero una conseguenza diretta della notevole esplosione e in genere delle molteplici attività vulcaniche del pianeta.
Oggi non è più così, o almeno non  lo è in parte. Lo spazio intorno alla Terra non è veramente vuoto. E in realtà polveroso, risultato della sublimazione delle comete nei pressi del Sole e dei detriti asteroidali non più grandi della di un chicco di riso . I risultati di questi fiumi di polvere li vediamo in queste ore d’estate guardando il cielo: lo sciame delle Perseidi  è uno di questi.

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 “Strane nuvole luminose non aurorali a NW” Estratto di un rapporto meteorologico dell’astronomo Romney Robinson’s riguardante  l’osservazione un fenomeno simile alle nubi mesosferiche polari del 1 e 4  maggio 1850.

Quando uno di questi granelli di polvere cade sotto l’influenza gravitazionale della Terra e raggiunge la quota tra i 90 e gli 80 chilometri si incendia e si disintegra in pulviscolo ancora più piccolo. Noi quaggiù vediamo la scia di ionizzazione dell’aria del granello che sublima e lo chiamiamo stella cadente.

Questo pulviscolo impiega poi mesi, ed addirittura anni, per depositarsi finalmente al suolo; si calcola che ogni giorno cadano sulla Terra così dalle 5 alle 300 tonnellate di materiale cosmico ogni giorno!
Ed è proprio questo pulviscolo che rimane in sospensione tra gli 80 e i 90 chilometra di quota (la mesosfera) a fungere da seme per i cristalli di ghiaccio d’acqua a quelle quote.

Appurata l’origine dei semi e la composizione delle nubi, resta da capire come il vapore acqueo arrivi fino a quote mesosferiche, un luogo dell’atmosfera estremamente freddo e asciutto è ancora un mistero, o quasi. Quello che è ormai appare quasi sicuro è che all’aumentare della temperatura troposferica corrisponde un aumento della concentrazione del vapore acqueo nella mesosfera. Una conferma indiretta arriva dalla frequenza delle osservazioni: Agli inizi del XX secolo per osservare questo straordinario fenomeno  accorreva recarsi nei pressi dei circoli polari, oggi stanno diventando abbastanza comuni anche a latitudini molto più basse, le nubi mesosferiche sono state osservate da paesi come la Germania, il Colorado e perfino dall’Italia! Anche il periodo di osservazione di questo peculiare tipo di nubi si è esteso dai primi giorni di maggio delle prime osservazioni fino al giugno e luglio di oggi.

graficoIl meccanismo che porta il vapore acqueo nella mesosfera è in gran parte sconosciuto, ma il principale indiziato è il metano [cite]10.1007/978-94-015-9343-4_1[/cite].
Il metano sulla Terra è praticamente tutto di origine biologica, di cui la maggior parte sono legate alle attività umane. Dai carotaggi artici è dimostrato che la concentrazione di metano atmosferico negli ultimi 450 mila anni si è mantenuto pressoché costante tra i 450 e i 700 ppbv (Parts Per Billion by Volume – parti per miliardo in volume) raggiunti prima dell’Era Industriale [cite]http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23038470[/cite] fino agli oltre 1700 ppbv di oggi.
Attualmente vengono dispersi circa 66 teragrammi (66 milioni di tonnellate) di metano all’anno nell’atmosfera contribuendo così in modo significativo al riscaldamento globale. E più la tropospera (la parte dell’atmosfera in cui viviamo) si riscalda, che questa diventa umida per effetto dell’evaporazione degli oceani e si espande, portando il vapore acqueo nella troposfera e da qui anche nella mesosfera, accompagnata dal metano.
In quell’area il vapore acqueo viene scisso in ossidrile ($\cdot OH$) che attacca e distrugge lo scudo d’ozono che ci protegge dalle radiazioni ultraviolette. Contemporaneamente l’ossigeno biatomico reso disponibile dalla distruzione dell’ozono si combina col metano restituendo ancora acqua e anidride carbonica: ${CH_4}_{(g)}+{2O_2}_{(g)} \rightarrow {CO_2}_{(g)}+{H_2O}_{(g)}$. Per il dettaglio delle trasformazioni chimiche rimando ai documenti citati in fondo alla pagina.

Come ho illustrato anche nel mio precedente articolo sullo stesso argomento, tutto questo è preoccupante. Fatevi un giro su Accuweather.com e guardatevi le temperature estive della Siberia. Le temperature insolitamente alte fino  a qualche decennio fa stanno diventando ormai la norma. Il permafrost siberiano che contiene miliardi di tonnellate di metano intrappolato nel ghiaccio si sta sempre più rapidamente sciogliendo da un anno all’altro [cite]http://www.greenreport.it/news/clima/siberia-scoperto-gigantesco-buco-nel-permafrost-non-finire-gallery/[/cite].
Le nubi mesosferiche polari potrebbero essere l’ennesimo campanello d’allarme che la natura ci mostra per avvertirci che ormai quaggiù ci sono sempre più cose che non vanno affatto bene riguardo la sostenibilità del pianeta. La vita sulla Terra certamente non scomparirà e tra qualche migliaio di anni la natura avrà trovato qualche altro equilibrio ecologico adatto ad essa. Peccato che probabilmente non ci sarà posto per il folle, predatore genere umano.


 

I catastrofismi di mezza estate

Sono diversi giorni che va in scena la favola del super brillamento solare, o evento Carrington , prossimo venturo.; tant’è che anche blasonate riviste scientifiche hanno abboccato, pur riconoscendo loro una correttezza nell’esporre i fatti che altre testate hanno tralasciato.
Un evento Carrington ha la probabilità di realizzarsi in media ogni 150 anni e la probabilità statistica che possa verificarsi di nuovo entro 10 anni è circa del 12%. L’ultima volta fu nel 1859 [cite]http://ilpoliedrico.com/2011/03/brillamenti-solari-e-tempeste-geomagnetiche.html[/cite]; da qui il teorema che tanto assilla in questi giorni d’estate.
Restando in tema catastrofico, ci si aspetta che il Vesuvio faccia un’eruzione di tipo pliniano da non so più quanti anni. Eppure continuano a costruire case fin quasi al cratere principale e, ci sono stato, scappare da lì è praticamente impossibile, ci sono pochissime strade che portano all’autostrada principale dopo un viaggio che normalmente richiede 40 minuti. Se dovesse accadere una eruzione pliniana al Vesuvio, i morti sarebbero milioni nel giro di molto meno tempo, mentre un evento Carrington potrà mettere in ginocchio forse un continente per un po’ ma non tutto il pianeta ….

Come ti calcolo le proprietà di un esopianeta, la massa

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Nella prima parte ho dimostrato come si possono ottenere con dei semplici calcoli alcune proprietà di un ipotetico pianeta in orbita ad una stella remota. La parte più difficile è però calcolare la massa dell’esopianeta, una sfida difficile ma ricca di soddisfazioni.

Credit: Il Poliedrico.

Credit: Il Poliedrico.

La Seconda Legge del Moto di Newton e la Legge di Gravitazione Universale mostrano che esiste un elegante rapporto tra il semiasse maggiore dell’orbita e il periodo di rivoluzione di un qualsiasi pianeta.
Di conseguenza, conoscendo esattamente il periodo orbitale e la distanza che divide un pianeta dal suo centro di massa con la stella a cui appartiene è possibile estrapolarne la massa:
\begin{equation}
\frac{P^2}{a^3}=\frac{4\pi^2}{G(M_{\bigstar} +M_{p})}
\end{equation}

Pertanto osservando le leggi universali del moto e della gravitazione di Newton potrebbe sembrare che sia abbastanza semplice estrapolare la massa di un esopianeta 1; quello che occorre è la conoscenza più accurata possibile degli elementi orbitali dell’esopianeta.
La distanza prospettica tra la proiezione della corda di transito e la corda del massimo transito è descritta matematicamente come $b=a \hspace{2} cos(i)$, dove $a$ è il raggio dell’orbita del pianeta, assumendo per assurdo che l’orbita dell’esopianeta osservato sia perfettamente circolare ($\varepsilon =0$ e velocità orbitale costante). Osservando la figura qui sotto si nota che il cateto $l$ opposto all’ipotenusa $R_{\bigstar}+R_{p}$ e pari alla metà del percorso del pianeta davanti alla sua stella, lo si può scrivere come :
\begin{equation}
l=\sqrt{\left( R_{\bigstar} + R_{p}\right)^2 – b^2}
\end{equation}.

Pertanto il percorso osservato del’esopianeta (A -> B) sul disco stellare è pari a 2$l$.
Osservando la figura all’inizio è evidente che l’esopianeta mentre transita davanti alla stella muovendosi tra A a  B  compie un angolo (espresso in radianti) $\alpha$ dove il centro è il centro di massa del sistema 2.
Così si ha per il triangolo $\overline{AB}$ e il centro di massa, la durata visibile del transito:
\begin{equation}
sin \left( \frac{\alpha}{2}\right)=\frac{l}{a}
\end{equation}\[\rightarrow\]\begin{equation}
D_{transito}= P\frac{\alpha}{2\pi}=\frac{P}{\pi}sin^{-1} \left(\frac{l}{a}\right)=\frac{P}{\pi}sin^{-1} \left(\frac{\sqrt{\left( R_{\bigstar} + R_{p}\right)^2 – b^2 }}{a}\right)
\end{equation}

Per procedere oltre, occorre stimare la durata massima del transito, come se si osservasse il piano orbitale  proprio di taglio, quando il pianeta cioè attraversa la stella sul suo equatore. Infatti la durata del transito osservato è generalmente minore rispetto a quella massima possibile che si avrebbe solo quando il piano planetario è parallelo all’osservatore, data la casualità dei piani planetari delle altre stelle rispetto all’osservatore.

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Come è possibile osservare nella figura qui sopra la proiezione del pianeta sul disco stellare è falsata dall’angolo $i$, inteso come l’angolo compreso tra la linea di vista e il piano orbitale effettivo dell’esopianeta ($i$=90° se il piano orbitale è sulla stessa linea di vista). Conoscere l’ampiezza dell’angolo $i$ restituisce l’idea di come è pertanto posizionato nello spazio il sistema planetario extrasolare rispetto all’osservatore. Quindi in realtà la durata del transito osservata sarà pari a $D_{transito}= D_{max} \cdot sin(i)$. Ma non solo, come è possibile osservare nella simulazione qui a fianco,  lo sviluppo del transito su una corda diversa dalla corda massima (il diametro) influenza anche la curva di transito osservata, accorciando il periodo del picco minimo osservabile e stirando i periodi parziali [cite]http://arxiv.org/abs/astro-ph/0210099[/cite].
Adesso la durata massima del transito si può descrivere matematicamente come:
\begin{equation}
\frac{P\frac{\alpha}{2\pi}}{sin \left (i \right)}
\end{equation}

perché la lunghezza della corda di transito è falsata (e quindi minore) rispetto alla corda massima disponibile dal $sin(i)$.
Quindi applicando la legge dell’anno siderale di Gauss  si scopre che:
\begin{equation}
\frac{2\pi}{k}=D_{max}\frac{2\pi}{\alpha}
\end{equation}\[\rightarrow
\]
\begin{equation}
\alpha / D_{max}=k
\end{equation}

Il periodo orbitale rilevato dalla frequenza dei transiti restituisce la durata dell’anno siderale reale, ovvero quello che è prodotto con il contributo delle due masse, quella stellare e quella planetaria. Viceversa l’anno gaussiano del pianeta tiene conto solo della massa della stella. La differenza tra i due diversi periodi restituisce il contributo dovuto alla sola massa del pianeta.

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Il Telescopio nazionale Galileo – Credit: Sabrina Masiero[/fancybox]

La tecnologia osservativa attuale basata sui transiti non è ancora così precisa da consentire di rilevare differenze così piccole 3. Diversa storia invece per l’analisi spettrografica che consente con molta maggiore accuratezza di risolvere le velocità relative del sistema esoplanetario; per ora rimane infatti il solo modo per stabilire con sufficiente approssimazione la massa di un pianeta extrasolare.
Per questo strumenti spettroscopici di grandissima risoluzione sono ospitati nei maggiori complessi astronomici del mondo. Due di questi, gli HARPS sono ospitati in strutture europee: l’HARPS è ospitato presso l’Osservatorio di La Silla, in Cile sul telescopio da 3,6 metri dell’ESO fin dal 2002. L’altro, l’HARPS-N, è stato montato nel 2012 sul Telescopio Nazionale Galileo, all’Osservatorio del Roque de Los Muchachos nell’isola di La Palma, alle Canarie.
Il metodo delle velocità radiali rilevate spettroscopicamente  è molto simile a quello che qui è descritto, solo che è molto più efficace grazie a questa nuova classe di spettroscopi ultra precisi a cui gli HARPS appartengono. Se adesso è possibile fare una stima della massa ad un esopianeta lo si deve ad essi.


Note:

L’intervista

Il 6 luglio scorso io e Sabrina Masiero, abbiamo partecipato come ospiti radiofonici in una trasmissione radio regionale 1. Sabrina è stata intervistata telefonicamente in diretta e ha illustrato il suo ruolo di divulgatrice presso l’Istituto Nazionale di Astrofisica dove ha curato le immagini per il  libro Astrokids, dedicato ai più piccoli ma utile anche ai grandi che per la primissima volta si avvicinano all’astronomia, e del suo lavoro a Las Palmas (Isole Canarie), dove ha sede il Telescopio Nazionale italiano Galileo (TNG) col medesimo ruolo. Nel mio piccolo invece, ho preferito intervenire attraverso domande e risposte lette in studio dai conduttori che qui ripropongo nella versione integrale, perché ho una pessima, bassa e incomprensibile voce.

La congiunzione astrale del 4 settembre 1970 ricostruita attraverso il software Stellarium. Questa congiunzione è  stata il motore di tutta la mia vita. E poi gli astronomi dicono che le stelle e i paneti non influenzano gli esseri umani:-P

La congiunzione astrale del 4 settembre 1970 ricostruita attraverso il software Stellarium.
Questo momento è stato il motore di tutta la mia vita.
E poi gli astronomi dicono che le stelle e i paneti non influenzano gli esseri umani 😛

Presentazione: Umberto Genovese, 48 anni, nel tempo libero si occupa di divulgazione scientifica principalmente attraverso i suoi due blog: il Poliedrico (http://ilpoliedrico.com), che spazia dalla fisica alla cosmologia, dalla planetologia ai suggerimenti per astrofili (nel blog è disponibile anche un abbastanza dettagliato calendario degli eventi astronomici più rilevanti) e Progetto Drake (http://drake.ilpoliedrico.com), nato per raccogliere quante più informazioni, articoli o notizie riguardanti le famose variabili frazionarie che compongono la celebre Equazione di Drake e gestito insieme alla Dott.sa Sabrina Masiero dell’Università di Padova. Il Progetto Drake fu presentato nell’Edizione Unificata dei Carnevali scientifici (di Chimica e di Fisica) in occasione del 4° Congresso IAA (International Academy of Astronautics) “Cercando tracce di vita nell’Universo”, tenutosi a San Marino dal 25 al 28 settembre 2012. In più ha scritto qualche articolo per la rivista di astronomia Coelum (alcuni di questi sono ancora da pubblicare).

  • Domanda: Com’è nata la tua passione per l’astronomia?
    Umby: Per me fu illuminante la congiuzione Giove-Venere-Luna del 4/9/1970. Avevo solo 4 anni ma il ricordo di quel disegno nel cielo è ancora vivido quanto lo avessi visto poc’anzi. Da allora ho voluto capire di più su cosa fossero quelle luci sospese nel cielo. E credo di essere arrivato a un buon punto.
  • Domanda: Qual è la tua ricerca più importante?
    Umby: Credo che sia stato quando cercavo di interpretare (a soli 14-15 anni) l’influenza dell’attività solare sulla ionosfera analizzando le trasmissioni ad onde corte. Purtroppo i miei dati erano insufficienti per avere un fondamento statisticamente valido; ma perlomeno c’ho provato. 
  • Domanda: Qual è stato il fenomeno celeste che più ti ha impressionato?
    Umby: Quella congiunzione del ’70 mi ha aperto alla scienza e l’astronomia. Se dovessi scegliere direi questa.
  • Domanda: Cosa ne pensi della vita extraterrestre?
    Umby: Tralasciando le solite banalità di rito, l’Universo è troppo grande per un mondo solo ecc., penso che la vita sia una logica conseguenza del Big Bang.
    Tutte le costanti fisiche, dalla carica dell’elettrone alla massa del protone e così via, sono esattamente quelle che ci vogliono per avviare la nucleosintesi stellare. Mi spiego meglio; Il Big Bang ha prodotto sia materia che antimateria. Ma un fenomeno chiamato “Violazione della Simmetria CP”  ha permesso che una delle due avesse il sopravvento numerico sull’altra, permettendo a quella che oggi chiamiamo materia barionica di condensarsi in stelle e avviare così i processi di nucleosintesi che hanno poi prodotto gli elementi chimici più pesanti dell’idrogeno di cui noi tutti, il tavolo, le pietre nel nostro giardino e mondi lontanissimi come Kepler 22b, siamo fatti. Queste stelle primordiali (che gli astronomi chiamano di Popolazione II) esplosero dopo alcuni milioni di anni come supernovae e disseminarono il loro prezioso contenuto nel Cosmo. Da questi “scarti stellari” hanno poi avuto origine i pianeti, comete e così via.
    Alcuni di quegli elementi sono estremamente reattivi, come il carbonio, che dà origine a catene molecolari estremamente complesse appena si verificano particolari condizioni chimico fisiche; cosa che quasi sicuramente avvenne sulla Terra circa 3,5 miliardi di anni fa. Quelle catene sono gli aminoacidi, i mattoni fondamentali per la vita a base di carbonio, come la conosciamo noi sulla Terra. Condizioni analoghe possono essersi verificate un po’ ovunque nell’Universo, e questo lo si sta cercando di scoprire con la ricerca degli esopianeti.
    Pertanto credo che la vita sia piuttosto diffusa nell’Universo.

•  Domanda: Allora l’Universo secondo te sarebbe pieno di extraterrestri come noi?
Umby: È presto ancora per dirlo.
Per quanto riguarda la vita senziente, come l’uomo sulla Terra tanto per capirsi, credo che comunque sia abbastanza rara. Sulla Terra la comparsa dell’Homo Sapiens è il frutto di diverse estinzioni di massa e del concatenarsi di eventi locali e condizioni particolari che credo sia piuttosto improbabile si replichino così su altri mondi. Se altrove la vita intelligente è comparsa, deve avere una sua storia unica che poi l’ha plasmata anche nello sviluppo della civiltà.
Nel bacino del Mediterraneo e nel vicino Oriente si è passati 10000 anni fa dal concetto del tempo ciclico (fasi lunari, stagioni, maree, financo al ciclo mestruale femminile) al concetto di tempo lineare, ossia ad un inizio e una fine di tutto. Questo concetto, tutt’altro che banale, è stata la spinta che poi ha portato alla nascita delle grandi civiltà del passato e infine allo sviluppo della nostra tecnologia. Nel frattempo altri gruppi di umani che erano emigrati nelle Americhe e poi in Oceania, hanno seguito altri percorsi sociali. Le attuali civiltà degli Indios sudamericani, ad esempio, sfruttano quello che ricevono dalla Foresta Amazzonica; bravissimi a sfruttare le immense risorse locali, il loro sviluppo non è andato oltre a quello dei cacciatori nomadi dell’Età della Pietra che arrivarono lì per primi.
Quindi questo deve farci riflettere quanto sia difficile lo sviluppo di una civiltà in grado di compiere i viaggi spaziali – anche locali – come noi.

  • Domanda: Pensi che nei prossimi anni arriverà una scoperta significativa in merito?
    Umby: Anche scoprire che per assurdo siamo soli in questa parte dell’Universo, dovrebbe spingerci a capire l’unicità della specie umana come frutto importante dell’Universo – io considero la nostra specie come una infinitesima parte dell’Universo che prende coscienza di sé stesso e che si interroga su cosa “Lui” sia – e la fragilità di tutto l’ecosistema che la sostiene. E un tesoro così unico in questa parte di Universo va curato, difeso e custodito più di qualsiasi altra ricchezza materiale e immateriale che ci siamo finora inventati.
  • Domanda: Potrà l’umanità un giorno colonizzare Marte?
    Umby: Penso che questo sia possibile già con le tecnologie attuali o sviluppabili nel futuro molto prossimo.
    L’unico appunto che mi va di fare su questo argomento è che non credo che sarà mai possibile terraformare Marte e che quindi i futuri Coloni Marziani dovranno vivere costantemente dentro a strutture artificiali e a città sotterranee. Marte è troppo piccolo per trattenere una qualsiasi atmosfera complessa (tant’è che la maggior parte della sua la perse almeno 3 miliardi di anni fa) e non ha un campo magnetico sufficiente a schermare le radiazioni cosmiche; mentre gli ultravioletti solari senza un adeguato strato di ozono troposferico sarebbero per noi dannosi.
  • Domanda: Cosa ne pensi degli Universi Paralleli?
    Umby: Gli universi paralleli sono una conseguenza diretta di molte teorie cosmologiche. Ancora una teoria cosmologica definitiva non la conosciamo, quindi gli universi paralleli per ora rimangono solo un interessante esercizio matematico. E se anche esistessero avrebbero probabilmente leggi fisiche e dimensioni diverse dalle nostre che dubito potremmo mai comunicare con loro.
  • Domanda: Quali sono i vantaggi e le ricadute economiche della ricerca astronomica?
    Umby: La tecnologia astronomica ha permesso di testare e sviluppare le più raffinate tecnologie di precisione conosciute. La ricerca aerospaziale ha permesso lo sviluppo di materiali più leggeri e resistenti.
    Materiali come la fibra di carbonio, alcuni tipi di acciaio ad alta resistenza, leghe e fibre plastiche che oramai sono diventate di uso comune furono sviluppate per le missioni Gemini e  Apollo.
    Tecnologie come la telemedicina, i satelliti di comunicazione e GPS non sarebbero esistiti senza l’interesse per i fenomeni astronomici e l’astronomia che ci hanno fatto scoprire le leggi fisiche della Meccanica Celeste, la Relatività e la Meccanica Quantistica.
    I “nasi elettronici” che controllano le nostre case da incendi e perdite di gas sono nati per prevenire disastri nelle missioni spaziali, il cui motore è la curiosità innata dell’essere umano di avvicinarsi alle stelle.
    I CCD per le foto da dispositivi cellulari e fotocamere, le immagini ad alta risoluzione che apprezziamo in uno show televisivo, devono il loro concreto sviluppa alle necessità di possedere sensori ad alta risoluzione in campo astronomico.
    Gli scanner biometrici come la Risonanza Magnetica non esisterebbero senza le tecnologie di interferometria sviluppate per i radiotelescopi.
    Mi fermo qui ma potrei andare avanti per delle ore.

Come ti calcolo le proprietà di un esopianeta (prima parte)

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La scoperta di un enorme numero dei pianeti extrasolari in questi ultimi vent’anni ha sicuramente rivoluzionato l’idea di Cosmo. A giugno di quest’anno erano oltre 1100 i pianeti extrasolari scoperti e accertati nel catalogo di exoplanet.eu, facendo stimare, con le opportune cautele dovute a ogni dato statistico, a circa 60 miliardi di pianeti potenzialmente compatibili con la vita. Questo impressionante numero però non deve far credere immediatamente che 60 miliardi di mondi siano abitabili; Venere, che dimensionalmente è molto simile alla Terra, è totalmente incompatibile con la vita terrestre che, probabilmente, si troverebbe più a suo agio su Marte nonostante questo sia totalmente ricoperto da perossidi, continuamente esposto agli ultravioletti del Sole e molto più piccolo del nostro globo.

In concreto come si fa a calcolare i parametri fisici di un pianeta extrasolare? Prendiamo l’esempio più facile, quello dei transiti. Questo è il metodo usato dal satellite della NASA Kepler, che però soffre dell’handicap geometrico del piano planetario che deve giacere sulla stessa linea di vista della stella,o quasi. Ipotizziamo di stare osservando una debole stellina di 11a magnitudine, che però lo spettro indica come una K7:

 [table id=57 /]

diagramma di luce

La distanza

La tabella di Morgan-Keenan suggerisce per questo tipo di stella una massa di 0,6 masse solari,  una temperatura superficiale di appena 4000 K. e un raggio pari a 0,72 volte quello del Sole. Analizzando invece questo ipotetico diagramma del flusso di luce 1 proveniente dalla stella, appare evidente  la periodicità dell’affievolimento (qui esagerato) della sua luce.
Un periodo pari a 76,86 giorni terrestri, un classico evento tipico anche di una semplice binaria ad eclisse per esempio, solo molto più veloce. Un semplice calcolo consente di trasformare il periodo espresso qui in giorni in anni (o frazioni di esso). Pertanto il suo periodo rispetto agli anni terrestri è $76,86/365,25= 0,2104$. A questo punto è sufficiente applicare la terza Legge di Keplero per ottenere la distanza del pianeta dalla sua stella espresso in unità astronomiche:

\begin{equation} D_{UA}^3=P_y^2\cdot M_{\bigstar}= \sqrt[3]{0,2104^2 \cdot 0,.6}= 0,2983 \end{equation} Quindi l’esopianeta scoperto ha un periodo orbitale di soli 76,86 giorni e orbita a una distanza media di sole 0,2368 unità astronomiche dalla stella, ossia a poco più di 44.6 milioni di chilometri dalla stella. Una volta scoperto quanto dista il pianeta dalla stella è facile anche calcolare la temperatura di equilibrio del pianeta, per vedere se esso può – in linea di massima – essere in grado di sostenere l’acqua allo stato liquido.

La temperatura di equilibrio

\begin{equation}\frac{\pi R_p^2}{4\pi d^2} = \left ( \frac{R_p}{2d}\right )^2\end{equation} L’energia intercettata da un pianeta di raggio $R_p$ in orbita alla sua stella  a una distanza $d$

Per comodità di calcolo possiamo considerare una stella come un perfetto corpo nero ideale. La sua luminosità è perciò dettata dall’equazione: $L_{\bigstar}=4\pi R_{\bigstar}^2\sigma T_{\bigstar}^4$, dove $\sigma$ è la  costante di Stefan-Boltzmann che vale  $5,67 \cdot{10^{-8}} W/m^2 K^4$). Qualsiasi pianeta di raggio $R_p$ che orbiti a distanza $d$ dalla stella cattura soltanto  l’energia intercettata pari alla sua sezione trasversale $\pi R_p^2$ per unità di tempo e  divisa per l’area della sfera alla distanza $d$ dalla sorgente. Pertanto si può stabilire che l’energia intercettata per unità di tempo dal pianeta è descritta dall’equazione: \begin{equation} 4\pi R_{\bigstar}^2\sigma T_{\bigstar}^4\times \left ( \frac{R_p}{2d}\right )^2 \end{equation}

Ovviamente questo potrebbe essere vero se il pianeta assorbisse tutta l’energia incidente, cosa che per fortuna così non è, e riflette nello spazio parte di questa energia. Questa frazione si chiama albedo ed è generalmente indicata con la lettera $A$. Quindi la precedente formula va corretta così: \begin{equation} \left ( 1-A \right ) \times 4\pi R_{\bigstar}^2\sigma T_{\bigstar}^4\times \left ( \frac{R_p}{2d}\right )^2 \end{equation}

Il pianeta (se questo fosse privo idealmente di una qualsiasi atmosfera) si trova così in uno stato di sostanziale equilibrio termico tra l’energia ricevuta, quella riflessa dall’albedo e la sua temperatura. L’energia espressa dal pianeta si può descrivere matematicamente così: $L_{p}= 4\pi R_{p}^2\sigma T_{p}^4$ e, anche qui per comodità  di calcolo, si può considerare questa emissione come quella di un qualsiasi corpo nero alla temperatura $T_p$. Pertanto la temperatura di equilibrio è: \begin{equation}

4\pi R_{p}^2\sigma T_{p}^4 =\left ( 1-A \right ) \times 4\pi R_{\bigstar}^2\sigma T_{\bigstar}^4\times \left ( \frac{R_p}{2d}\right )^2 \end{equation}

Ora, semplificando quest’equazione si ottiene: \begin{equation} T_{p}^4= (1-A)T_{\bigstar}^4 \left ( \frac{R_{\bigstar}}{2d}\right )^2 \rightarrow T_{p}=T_{\bigstar}(1-A)^{1/4}\sqrt { \frac{R_{\bigstar}}{2d}} \end{equation}

Con i dati ottenuti in precedenza è quindi possibile stabilire la temperatura di equilibrio dell’ipotetico esopianeta ipotizzando un albedo di o,4: \begin{equation}

T_{p}=4000 \enskip K \cdot 0,6 ^{1/4}\sqrt { \frac{500 000 \enskip km}{2\cdot 4,46\cdot 10^7\enskip km}} =263,47 \enskip K.

\end{equation}

Risultato: l’esopianeta pare in equilibrio termico a -9,68 °C, a cui va aggiunto alla superficie l’effetto serra causato dall’atmosfera. Ma in fondo, anche le dimensioni contano …

Il raggio

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Il calo della luminosità indica le dimensioni dell’oggetto in transito: $r^2/R^2$

Nel momento del transito, si registra un calo della luminosità della stella.  L’ampiezza di questo calo rispetto alla luminosità standard della stella fornisce una stima della misura del raggio del pianeta. Il calo non è immediato, ma segue un andamento proporzionale alla superficie del pianeta occultante, uguale sia in ingresso che in  uscita. In base a queste osservazioni si possono ricavare i flussi di energia luminosa (indicati appunto dalla lettera $F$) provenienti nei momenti del transito. $F_{\bigstar}$ è la quantità di energia luminosa osservata nella fase di non transito, normalmente normalizzato a 1, mentre l’altra $F_{transito}$ rappresenta il flusso intercettato nel momento di massimo transito:. la differenza tra i due flussi ( $\frac{\Delta F}{F}=\frac{F_{\bigstar}-F_{transito}}{F_{\bigstar}}$) è uguale alla differenza tra i raggi della stella e del pianeta.

\begin{equation} R_p=R_{\bigstar}\sqrt{\frac{\Delta F}{F}} \end{equation}

Il diagramma (ipotetico) a destra nell’immagine qui sopra mostra che il punto più basso della luminosità è il 99,3% della luminosità totale. Risolvendo questa equazione per questo dato si ha: \begin{equation} \frac{R_{p}}{R_{\bigstar}}=\sqrt{\frac{\Delta F}{F}} =\sqrt{\Delta F} = \sqrt{1-0,993}=\sqrt{0,007}=0,08366 \end{equation}

Conoscendo il raggio della stella, 500000 km, risulta che l’esopianeta ha un raggio di quasi 42 mila chilometri,  quasi il doppio di Nettuno!

Seconda Parte

 

 Errata corrige

Un banale errore di calcolo successiva all’equazione (1) ha parzialmente compromesso il risultato finale dell’equazione (7) e del risultato della ricerca. Il valore della distanza del pianeta dalla sua stella è di 44,6 milioni di chilometri invece dei 35,4 milioni indicati in precedenza. Ci scusiamo con i lettori per questo spiacevole inconveniente prontamente risolto.


Note:

L’indice ESI (Earth Similarity Index)

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Il metodo dei transiti, che è quello usato da Kepler è basato sulla lievissima variazione di luce di una stella dovuta al transito di un pianeta davanti a questa. Per un pianeta come la Terra, il transito davanti a una stella simile al Sole causa una variazione di luminosità pari a soltanto 84 parti per milione. Invece il transito di un pianeta come Giove provoca l'affievolimento della luce della stella di circa l'1-2%. La figura mostra in scala sia un transito di Giove attraverso l'immagine del nostro sole sulla sinistra e un transito terrestre sulla destra. L'effetto della Terra è paragonabile a quello di una pulce che passa sui fari di un'auto visto da diversi chilometri di distanza.Image credit: NASA

Il metodo dei transiti, che è quello usato da Kepler è basato sulla lievissima variazione di luce di una stella dovuta al transito di un pianeta davanti a questa. Per un pianeta come la Terra, il transito davanti a una stella simile al Sole causa una variazione di luminosità pari a soltanto 84 parti per milione. Invece il transito di un pianeta come Giove provoca l’affievolimento della luce della stella di circa l’1-2%. La figura mostra in scala sia un transito di Giove attraverso l’immagine del nostro sole sulla sinistra e un transito terrestre sulla destra. L’effetto della Terra è paragonabile a quello di una pulce che passa sui fari di un’auto visto da diversi chilometri di distanza.Image credit: NASA

Appena la tecnologia lo ha permesso, negli ultimi vent’anni abbiamo assistito alla scoperta di nuovi pianeti in orbita attorno ad altre stelle. I primi sistemi planetari rilevati erano anche quelli in cui gli effetti gravitazionali erano più evidenti, come i sistemi con i gioviani caldi o con pianeti in orbite caotiche e retrograde; tant’è che all’inizio si era addirittura supposto che i modelli di formazione planetaria sviluppati per spiegare il nostro Sistema Solare non fossero poi così universalmente validi.
Con l’affinarsi dei mezzi e della ricerca, ecco comparire sistemi planetari un po’ più ordinari e ordinati, simili al nostro. Magari più spesso questi appartengono a stelle un po’ più piccole del Sole – che comunque non è affatto un gigante, semplicemente perché l’influenza di un sistema planetario sulla sua stella è anche in questo caso più facilmente misurabile.
Sono principalmente due le tecniche che hanno permesso, dal 1995 ad oggi, di individuare il maggior numero di pianeti extrasolari: la tecnica delle velocità radiali e quella dei transiti. La tecnica delle velocità radiali misura la variazione della velocità della stella mente si muove attorno al baricentro del sistema stella-pianeta. Infatti, non è corretto dire che il pianeta orbita attorno alla stella: i pianeti orbitano attorno al baricentro comune  del sistema stella-pianeta, un punto che nel caso del sistema Sole-Terra si trova all’interno del Sole e molto vicino al suo centro. Non solo il pianeta orbita attorno al baricentro del sistema, ma anche la stella orbita attorno allo stesso punto. Poiché questo movimento è legato, tramite le leggi di Keplero, alla massa della stella e del pianeta, se si conosce la massa della stella si ricava anche la massa del pianeta.
C’è un problema però: se si osservasse il nostro Sistema Solare dall’esterno e si volesse vedere l’effetto della variazione della velocità radiale della Terra sul Sole si dovrebbe fare una misura della velocità radiale con una precisione di un centimetro al secondo, cosa che al momento non è ancora possibile fare con l’attuale strumentazione. Lo strumento HARPS-N, definito il cacciatore di pianeti extrasolare e montato al Telescopio Nazionale Galileo (TNG), permette di misurare la variazione della velocità radiale delle stelle con una precisone dell’ordine del metro al secondo. Quindi, di fatto pianeti come la Terra attorno a stelle di tipo solare alla distanza Terra-Sole non sono ancora in questo momento identificabili.

L’indice ESI non è universalmente accettato dalla comunità scientifica. Per i pianeti extrasolari confermati, la massa del pianeta indicata spesso ha solo un limite inferiore e non è poi comunque molto precisa. Poi per gli esopianeti indicati da Kepler spesso non c’è una stima della massa ma solo del raggio. D’altra parte, la maggior parte pianeti extrasolari confermati non hanno una stima del raggio. Inoltre, anche la temperatura teorica si basa su ipotesi che potrebbero essere sbagliate anche di centinaia di gradi centigradi. Per finire, nell’attuale formula, l’ESI attribuisce un esponente molto alto alla temperatura col risultato di deviare anche di molto l’indice rispetto al valore effettivo del dato. Questo significa che da uno a tre parametri utilizzati per calcolare l’indice ESI è frutto di supposizioni, calcoli e raffronti col Sistema Solare, senza alcuna evidenza osservativa diretta. Alla luce di queste considerazioni, l’utilità della ESI è certamente discutibile.

La tecnica dei transiti, quella che Kepler ha sfruttato fino al default dei sui giroscopi, è teoricamente una tecnica ancora più efficiente nel trovare pianeti. Però la probabilità di avere un pianeta come la Terra in transito davanti ad una stella come il Sole è dell’ordine dell’1 percento. Inoltre, la diminuzione della luminosità del Sole durante il transito della Terra è meno di 80 parti su un milione per un periodo di appena 8 ore in un anno: una quantità infinitamente piccola in un periodo smisurato di tempo. Questa sensibilità si può ottenere solo con i telescopi spaziali, quelli terrestri sono troppo limitati dalla turbolenza atmosferica.
A  giugno di quest’anno i pianeti extrasolari accertati erano 1795, suddivisi in  1114 sistemi planetari, di cui 461 sono sistemi multipli come il nostro (fonte exoplanets.eu).  Molti di questi sono stati individuati dal fortunato telescopio spaziale Kepler della NASA che ha studiato soltanto un piccolissimo fazzoletto di cielo compreso tra le costellazioni del Cigno e della Lira grande appena 12° quadrati. Una regione  abbastanza vicina al Piano Galattico da potersi ritenere, con le opportune cautele necessarie per un qualsiasi calcolo statistico, abbastanza significativa. È così che Kepler ha potuto studiare oltre 100 ooo stelle comprese tra 600 e 3 000 anni-luce di spazio, portando a supporre che la Galassia ospiti qualcosa come 60 miliardi di pianeti potenzialmente compatibili con la vita.
Come si sia giunti a questo numero è ancora oggetto di dibattito, ma in nocciolo è tutto nel numero delle nane rosse (classi K e M) presenti nella Via Lattea, stimato in almeno 75 miliardi. Anche supponendo che solo il 6 per cento di queste abbia un pianeta compreso nella Fascia Goldilocks si arriva a ben 4,5 miliardi di pianeti considerati biologicamente compatibili. Altri studi sulla sostenibilità planetaria [cite]http://arxiv.org/abs/1307.0515[/cite] fanno lievitare la stima fino a 60 miliardi.
Però dire che ci possono essere fino a 60 miliardi di mondi potenzialmente adatti alla vita e stabilire quali possono esserlo davvero è un altro discorso. Per risolvere questo problema viene in soccorso uno strumento matematico ideato dal Dott. Schulze-Makuch , professore alla School of Earth and Environmental Sciences dell’Università statale di Washington, l’Earth Similarity Index (ESI) – in italiano Indice di Somiglianza alla Terra – che esprime il grado di similitudine tra un qualsiasi pianeta extrasolare – può essere applicato anche ai grandi satelliti naturali  – e la Terra in un valore compreso tra zero (nessuna similarità) e uno (identico alla Terra) [cite]http://online.liebertpub.com/doi/abs/10.1089/ast.2010.0592[/cite]. I parametri dell’equazione vengono calcolati partendo da una o più variabili note, come il periodo orbitale e la distanza del pianeta dalla sua stella. Queste variabili sono ovviamente influenzate dal metodo di osservazione utilizzato, e anche le altre stime successive,  quando non sono conosciute, sono frutto di  calcoli ponderati. Ad esempio, la temperatura della superficie è influenzata da una infinità di altri fattori come l’irraggiamento, l’albedo, l’inclinazione assiale e l’effetto serra atmosferico; quando questa non è conosciuta a priori viene fatto riferimento alla temperatura di equilibrio di irraggiamento.
In sostanza l’ESI è una cifra, o figura, di merito; uno strumento matematico molto usato nell’industria e in ingegneria per indicare un parametro che ne racchiude molti altri. In questo caso però i parametri fondamentali di cui si tiene conto sono indicati nella tabella 1.

[table id=54 /]

Come vediamo questi parametri sono solo quattro. Si tratta di quattro parametri fisici facilmente ricavabili matematicamente dai dati orbitali della scoperta.

  • Raggio medio
    La scala delle dimensioni dei pianeti extrasolari è pressoché infinita; anche nel nostro Sistema Solare, la Terra è piccola rispetto a Giove e Saturno. Tuttavia alcuni studi suggeriscono che solo i pianeti che hanno un nucleo fluido in rotazione differenziale rispetto al mantello del pianeta possono avere un campo magnetico capace di proteggere la propria ecosfera dal vento stellare e dai raggi cosmici  [cite]http://arxiv.org/abs/1010.5133 [/cite]. Questi dati indicano che pianeti con un raggio superiore a due raggi terrestri possono avere difficoltà a mantenere liquido un loro  nucleo di ferro, mentre altri studi indicano che oltre 1,75 raggi terrestri debbano essere considerati sub-nettuniani i [cite]http://arxiv.org/abs/1311.0329 [/cite]
  • Densità
    Anche le densità che i pianeti extrasolari possono assumere è pressoché infinita. Per appartenere alla classe di Pianeta Roccioso simile alla Terra si considera generalmente una densità compresa tra 0,7 e 1,5 quella terrestre (4,4 -8,3 g/cm3). Questo perché una densità troppo bassa nelle dimensioni indicate, suggerite alla voce precedente, potrebbe indicare un corpo senza un nucleo metallico liquido e quindi senza un campo magnetico ben sviluppato. Questo vale anche per un pianeta troppo massiccio, il cui nucleo cristallizza per la pressione eccessiva  e si ferma.
  • Velocità di fuga
    La velocità di fuga è un parametro fondamentale per stabilire la presenza o meno di una atmosfera planetaria. Anche qui si ritiene che per un pianeta simile alla Terra la velocità di fuga debba poter trattenere gli atomi come l’azoto – e quindi anche il vapore acqueo, l’anidride carbonica e l’ossigeno,  a una temperatura di superficie media compresa tra 0 e 50° Celsius (273-323 K). Questo è un intervallo minimo, ma abbastanza ampio, in cui l’acqua si presenta allo stato liquido e può quindi esercitare il suo ruolo di solvente, funzione fondamentale per la vita.  mentre l’idrogeno, molto più leggero, è libero di disperdersi nello spazio. Pertanto la velocità di fuga di un pianeta compatibile con la vita di tipo terrestre può ritenersi compresa  tra 0,4 e 1,4 volte quelle della Terra (pari rispettivamente a sei volte la velocità di fuga dell’azoto atomico a  -18° C (255 K) e a sei volte quella dell’idrogeno atomico alla medesima temperatura).
  •  Temperatura superficiale
    Credit: Il Poliedrico

    Credit: Il Poliedrico

    La temperatura di equilibrio termico è la temperatura che possiederebbe un pianeta in assenza di una atmosfera e il cui unico fattore di regolazione è rappresentato dall’albedo ed è unicamente dettata della legge di Stefan-Boltzmann 1 e la Legge dell’Inverso del Quadrato. La temperatura di equilibrio della Terra è di soli -18°c che l’effetto serra atmosferico porta a + 15° C.

 

\[

ESI = \prod_{i=1}^n \left(1 – \left| \frac{x_i – x_{i_0}}{x_i + x_{i_0}} \right| \right)^\frac{w_i}{n}

\]

l’equazione dice come questi parametri devono essere utilizzati:

  • x i è il valore del i-esimo parametro planetario (ad esempio la temperatura superficiale)
  • x I0 è il valore del i-esimo parametro planetario di riferimento (la Terra)
  • w i è l’esponente di ponderazione assegnato al i ° parametro planetario (valore arbitrario che indica il valore relativo)
  • n è il numero di parametri planetari trattati

In questo modo vengono definiti tre diversi  indici ESI del pianeta in esame:

  • ESI Interno $\rightarrow ESI_I=(ESI_{r} \cdot ESI_{\rho})^{1/2}$
    Tiene conto del raggio del pianeta (peso dell’esponente = 0,57) e la sua densità (peso dell’esponente =  1,07). Questo indice indica il grado di somiglianza fisica dell’esopianeta alla Terra.
  • ESI Superficiale $\rightarrow ESI_S=(ESI_{ve} \cdot ESI_{Ts})^{1/2}$
    Questo è regolato dai parametri di temperatura della superficie (peso dell’esponente = 5,58) e dalla velocità di fuga (peso dell’esponente =  0,70).
    Questo esprime invece la somiglianza delle caratteristiche ambientali in riferimento alla Terra.
  • ESI Globale $\rightarrow ESI_G=(ESI_{I} \cdot ESI_{S})^{1/2}$
    È il computo basato su tutti i e quattro i parametri nella matrice di calcolo. Pertanto quantifica esattamente quanto un esopianeta sia nel suo complesso simile alla Terra o ‘Earth-like‘ per usare l’espressione anglofona più diffusa.

Riassumendo tutti i dati qui sopra elencati, si deduce che un pianeta per essere considerato simile alla Terra (e l’indice ESI quantifica proprio quanto questo si avvicini) deve essere tra 0,5 e 1,75 raggi terrestri (mantenendo nel caso più grande una densità intorno ai 4,5 g/cm3) e una massa compresa tra 0,1 e 4 volte quella della Terra. Un bel margine che lascia comunque sperare che prima o poi un pianeta davvero molto simile alla Terra si trovi.
Con molta probabilità nel corso dei prossimi vent’anni, grazie alla messa in orbita di nuovi telescopi – quali per esempio Gaia, Cheops e Plato –dotati di una strumentazione più precisa, sarà possibile trovare pianeti dimensionalmente simili alla Terra che orbitano attorno a stelle più simili Sole (classe G) a distanze paragonabili e con indici ESI molto prossimi a 1. E forse saremo anche in grado di rispondere alla domanda: la Terra è l’unico mondo che ospita la vita nell’Universo?


Note: