Ciclo biochimico del fosforo su Venere?

Sono passati diversi mesi dal mio ultimo articolo qui; diciamo pure che, dopo l’uscita del mio libro, mi sono preso un periodo sabbatico dalla scrittura più impegnata. Certo che nel frattempo, nonostante il fermo dovuto alla pandemia da Covid-19, non sono stato mai in ozio, visto che sto progettando — e costruendo — la mia personale  stazione meteorologica e della qualità del cielo. Spero che presto possa presentare qui alcuni miei risultati, ma proprio oggi una notizia piuttosto importante è stata pubblicata su Nature, e di questo sento il bisogno di dire la mia.

Immagine composita di Venere dai dati della sonda spaziale Magellan della NASA e del Pioneer Venus Orbiter. Credit: NASA / JPL-Caltech

Ipotesi sulla possibile vita microbica sugli altri pianeti del Sistema Solare si sprecano: nel lontano 1967 anche il celebre scienziato Carl Sagan si cimentò nell’immaginare vita aerea sulle sommità dei pianeti giganti gassosi e di Venere.
E nel dicembre 1999, l’astrobiologo britannico Charles S. Cockell,  ipotizzò la presenza di forme di vita chemioautotrofe sulle nubi superiori di Venere[1].

Però come è noto, la superficie di Venere è inospitale per ogni forma di vita a noi nota, anche la più estrema. 460 gradi Celsius, 92 volte la pressione atmosferica della Terra, piogge di acido solforico: niente lì potrebbe sopravvivere. Eppure, sopra questo inferno, tra i 50 e 60 chilometri dalla superficie, c’è uno strato di anidride solforosa e di acido solforico sormontato da uno strato di goccioline, sempre di acido solforico, dove la temperatura e pressione sono simili agli standard terrestri, ed è anche tutto quello che noi riusciamo a vedere di Venere. È comunque un ambiente estremamente acido, dove anche la vita più estrema scoperta sulla Terra[2] potrebbe avere serie difficoltà a sopravvivere.

Il 14 settembre 2020, su Nature, è apparsa una ricerca[3] che pare dare conferma alle tante speculazioni sulla presenza di forme di vita sulla sommità delle nubi di Venere.
Prima di scendere un po’ più in dettaglio, occorre sempre tenere ben presente che quanto finora è stato scoperto è, nel migliore delle ipotesi, una flebile traccia, poco più dell’ombra di una parziale impronta digitale sul luogo di un delitto, il che significa appena un indizio.
La ricerca della vita extraterrestre nel nostro Sistema Solare è piena di indizi: molecole organiche o i loro resti, su Marte e nelle meteoriti, i pennacchi stagionali di metano marziano, l’oceano sotterraneo di Encelado, le molecole complesse di Titano e quelle scoperte nelle comete. Potrei fare un elenco della lavandaia lungo chilometri solo per citare i casi più importanti. E anche laddove sembrava certa la scoperta di altre forme di vita, come nel caso del meteorite di origine marziana ALH84001, oppure l’esperimento Labeled Release di Gilbert Levin, montato sulle sonde Viking, il dibattito Vita/non-Vita è ancora acceso.

Fosfina su Venere

La fosfina è composta da appena 3 atomi di idrogeno legati ad un singolo atomo di fosforo ( formula bruta  PH3), formando così una struttura tetraedrica, molto simile all’ammoniaca (NH3) ma molto più reattiva. Una molecola piuttosto semplice, che si ritrova anche nel materiale interstellare attorno alle stelle  ricche di carbonio e ossigeno (quindi mediamente più vecchie) e nelle atmosfere dei pianeti giganti, dove viene prodotta continuamente dalle pressioni e temperature molto alte negli strati atmosferici profondi e poi trasportata per convezione verso l’alto[4] dove degrada. In questi luoghi la fosfina non desta particolari attenzioni, perché presentano condizioni chimico-fisiche che consentono la formazione stabile di questa molecola, mentre nei pianeti rocciosi, come Venere e Terra, le superfici e le atmosfere planetarie degradano e distruggono molto rapidamente la delicata molecola.

Sulla Terra, ad esempio, le uniche fonti importanti di fosfina, (tralasciando la produzione industriale) sono i processi di scarto prodotti dal metabolismo di batteri anaerobi che si nutrono del materiale biologico in decomposizione o dai minerali fosfati.

L’evidenza di una probabile presenza di fosfine nelle nubi di Venere fu notata nel giugno 2017 dall’astrobiologa Jane Greaves durante una osservazione dal James Clerk Maxwell Telescope. Ma tale scoperta doveva in qualche modo essere confermata: poteva essersi trattato di una svista nella taratura degli strumenti o di un falso segnale.
E nel marzo 2019, attraverso la rete interferometrica dell’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA) è arrivata la conferma del segnale rilevato nel 2017 dal C. Maxwell1. Sono stati usati 45 telescopi puntati su Venere per tre ore ad una lunghezza d’onda di circa 1 millimetro, ossia 2000 volte più lunga della luce visibile: solo i telescopi ad alta quota (ALMA è a 5100 metri s.l.m.) possono osservare bene nell’infrarosso dalla Terra. L’elaborazione dei dati è stata molto complessa: Alma non è stato progettato per risolvere particolari minuti su sorgenti brillanti come Venere. Tuttavia la procedura di riduzione dei dati è comunque ben documentata e rimando a quello che è stato scritto nell’articolo pubblicato su Nature.

Spettro di Venere ottenuto con ALMA. Il pannello sinistro mostra lo spettro PH3 dell’intero pianeta.  Il pannello destro mostra gli spettri delle zone polari (istogramma in nero), a media latitudine (in blu) ed equatoriale (in rosso). Gli spettri sono stati sfalsati verticalmente per chiarezza, e lo spettro polare è stato collocato in velocità per ottenere un limite superiore più profondo.

Questa scoperta apre scenari molto interessanti: nella sommità delle nubi (53-61 chilometri dal suolo venusiano), nei dintorni delle Celle di Hadley2 i ricercatori hanno scoperto le deboli tracce di fosfina in ragione di 20 ppb (parti per miliardo). Il pozzo nel diagramma qui a lato mostra la riga di assorbimento della fosfina nell’atmosfera di Venere.

Il dilemma è che su Venere di fosfina non dovrebbe essercene proprio: essa è una molecola estremamente reattiva, il famoso gas di palude che dà origine ai fuochi fatui non è altri che metano e fosfina (o fosfano, che è la stessa cosa) originati dalla decomposizione di materiale organico3. Senza una fonte costante di produzione essa non potrebbe esistere a lungo su un pianeta roccioso (sui pianeti giganti invece si forma continuamente per poi degradare). Sulla Terra, l’unica fosfina naturale esistente è prodotta durante il ciclo biologico del fosforo[5] (vedi illustrazione superiore), mentre l’atmosfera ossidativa del pianeta o i minerali della superficie degradano la molecola molto rapidamente.
A questo punto diventa arduo spiegare la presenza di molecole di fosfina nell’alta atmosfera di Venere, un ambiente iperacido e bombardato dai raggi UV del Sole.  Tutti i meccanismi naturali, ovvero fulmini atmosferici, apporto da materiale meteorico, vulcanismo, non sono in grado di giustificare  una presenza costante (ricordo che la presenza della molecola è stata osservata nel 2017 col C. Maxwell Telescope e nel 2019 con ALMA) e massiccia (20 ppb) di fosfina: ad ora nessun meccanismo abiotico noto presente sui pianeti rocciosi è in grado di farlo.

Presunta origine biotica della fosfina su Venere

Eliminate all other factors, and the one which remains must be the truth. Elimina tutti gli altri fattori e quello che rimane deve essere la verità.
Sir Artur Conan Doyle, Sherlock Holmes “The Sign of the Four”, a.D. 1890

In base alle considerazioni precedenti, l’unica strada percorribile per spiegare la presenza di fosfina sulla sommità delle nubi di Venere, resta l’origine biochimica. Ma anche questa non è una via facile da percorrere.
Innanzitutto — ammesso e non concesso — che la fosfina venusiana sia di origine biologica, occorre capire come, in un’atmosfera dinamica e acida, la vita sia riuscita a perpetuarsi ed evolversi. Sulla Terra abbiamo scoperto estremofili che riescono a prosperare in condizioni estreme come quelle presenti nelle sorgenti idrotermali del vulcano Dallol, in Etiopia e che resistono benissimo agli ultravioletti, come i cianobatteri delle stromatoliti del lago salato Salar de Llamara, nella regione di Tarapaca,  nel nord del Cile.
Innanzitutto dovremmo capire come sia possibile l’esistenza di forme di vita esclusivamente aerea. Anche la Terra ha una biosfera aerea, dove microorganismi arrivano a lambire lo spazio[6] e, anche se questa biosfera pare estendersi fino gli 85 chilometri di quota  (giusto per fare un paragone, la ISS orbita a 408 km di quota), essa perlopiù risiede sospeso dentro le goccioline d’acqua nebulari e partecipa al ciclo delle precipitazioni[7]. In pratica, sulla Terra, avviene un continuo scambio di minerali e forme di vita microbica tra il suolo e l’atmosfera, basti osservare che, senza l’apporto delle sabbie dal Sahara, le Bahamas non potrebbero esistere.
Non sappiamo se il medesimo ciclo è presente anche su Venere, ma è improbabile che, se esistesse qualche forma di vita nelle sommità delle nubi del pianeta, possa resistere alle tremende condizioni fisiche presenti al suolo. L’unica alternativa è che la vita venusiana sia limitata alla mesosfera e che sia incapace di scendere al di sotto: uno strato limite che impedisce alle forme di vita microbica e le loro spore di raggiungere gli strati sottostanti dove verrebbero distrutti. Sulla Terra la copertura nuvolosa è discontinua e dinamica; su Venere, invece, è ricoperto da ben tre distinti strati di nubi: uno strato superiore, composto da piccole goccioline di acido solforico ad una quota compresa tra i 60 e 70 km; uno strato intermedio, costituito da gocce più grandi e meno numerose, collocato a 52–59 km di altitudine; e infine uno strato inferiore più denso e costituito dalle particelle più grandi, che scende fino a 48 km di quota. Al di sotto di tale livello la temperatura è talmente elevata da vaporizzare le gocce, generando una foschia che si estende fino a 31 km di quota. Quindi è ipotizzabile che su Venere siano i diversi strati chimico-fisici dell’atmosfera a impedire che l’eventuale biosfera precipiti al suolo e che il taso di riproduzione delle forme di vita che la popolano compensi le inevitabili perdite.
Inoltre, rimangono da comprendere i meccanismi cellulari di forme di vita così estreme. Le nubi di Venere sono molto più aride e acide del più acido e secco ambiente che troviamo qui sulla Terra: nelle piscine idrotermali del Dallol è l’acido solforico ad essere disciolto nell’acqua, mentre su Venere è l’acqua ad essere disciolta nel medesimo acido. Un metabolismo di tipo terrestre non sarebbe possibile su Venere: la biochimica che conosciamo, gli acidi nucleici e le proteine, i lipidi e gli zuccheri, verrebbero distrutti istantaneamente. Nel 2004 l’astrobiologo Dirk Schulze-Makuch propose che una biochimica simile alla nostra avesse imparato ad usare lo zolfo come guscio protettivo[8] (lo zolfo non è bagnato dall’acido solforico) e la fotosintesi come fonte energetica.

Ipotetico ciclo vitale venusiano.

La copertura nuvolosa su Venere è permanente, dove gli strati medi e inferiori offrono le condizioni più simili alla Terra.

Ma rimane pur sempre il problema dell’acqua: anche nelle piscine del Dallol l’acqua è sempre presente. Nel luogo più secco della Terra, il deserto di Atacama difficilmente scende sotto il 2%. Venere è però almeno 50 volte più secco del più secco luogo disponibile sul nostro pianeta. Certo, sono noti funghi e spore che si attivano con un’umidità relativa del 0,7%, ma nelle nubi di Venere questo indice scende a 0,04%. Poi c’è il problema dei nutrienti necessari a mantenere il ciclo metabolico: una importante fonte potrebbe essere la polvere meteorica che cade incessantemente sul pianeta, ad esempio, o riciclare il carbonio e l’azoto direttamente dall’atmosfera.
Per i dettagli rimando all’articolo[9] pubblicato nell’agosto di quest’anno dall’astronoma Sara Seager “The Venusian Lower Atmosphere Haze as a Depot for Desiccated Microbial Life: A Proposed Life Cycle for Persistence of the Venusian Aerial Biosphere” a proposito di un ipotetico ciclo biologico presente su Venere.

Un meccanismo abiotico per la fosfina su Venere

Il vulcanismo venusiano come fonte della fosfina fu scartato da Jane Greaves e gli altri perché ritenevano che l’apporto di questo meccanismo non avrebbe potuto spiegare la persistente quantità osservata (20 ppb) della molecola.
Un nuovo studio[10] (comunque ora pare ritirato) firmato dal professore di Chimica Teorica e Computazionale dell’Università dello Utah  Ngoc Truong e il fisico planetario della Cornell University Jonathan I. Lunine, propone di rivalutare il ruolo del vulcanismo basaltico di Venere: una quantità di 93 chilometri cubici di lava all’anno4 potrebbero essere sufficienti a produrre solfuri a sufficienza per spiegare l’attuale presenza di fosfina nelle nubi superiori di Venere. L’analisi si basa su una presunta ripresa dell’attività vulcanica di Venere basandosi sulla scoperta di punti caldi sulla superficie del pianeta identificati dalla sonda europea Venus Express[11].
Anche ammettendo che le molecole di fosfina si degradino meno nell’atmosfera di Venere (non ci sono radicali ossidrilici (-OH) come sulla Terra) il parossismo vulcanico di Venere pare si sia concluso tra 2 milioni e 250 mila anni fa, e che ora potrebbero essere in atto perlopiù sporadiche emissioni di anidride solforosa, la quantità di fosfina nella mesosfera di Venere rimane ancora un mistero.

Conclusioni

Su Venere potrebbe esistere un meccanismo abiotico per la produzione di fosfina ancora sconosciuto sulla Terra, oppure un composto chimico potrebbe aver imitato la medesima riga spettrale per ora attribuita alla fosfina. O forse è veramente Vita, magari una vita talmente aliena alla nostra esperienza che non potremo neppure riconoscere come tale perché la sua biochimica è del tutto diversa dalla nostra.
Solo una ricerca sul campo potrà aiutarci a capire cosa succede nelle nubi più alte di Venere.

Giove e Venere in congiunzione stretta (non scambiateli per un U.F.O.)

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Credit: Il Poliedrico

L'Iridium Flare visibile per le coordinate della Toscana Centrale alle 22:59:48 Credit Calsky.com

L’Iridium Flare visibile per le coordinate della Toscana Centrale alle 22:59:48
Credit Calsky.com

Quasi ci siamo! Dopo una rincorsa lunga quasi 9 anni (L’ultima congiunzione est dei due astri così vicini avvenne il 15 novembre 2006 ma era troppo bassa – 5° di elongazione – per essere agevolmente osservata) il 30 giugno prossimo Venere e Giove si troveranno  più vicini di 30′, il diametro di una luna piena. Il momento sarà favorevolissimo all’osservazione: ben 42,5° di elongazione est dal Sole Giove con una magnitudine di -1,8 e Venere di ben -4.4 nonostante che la sua superficie illuminata sia solo il 34% del totale! Quindi se avete la possibilità di osservare l’evento da luoghi piuttosto bui potreste riuscire ad osservare la nettissima ma tenue Ombra di Venere [cite]http://goo.gl/bIpL2G[/cite]!)
Per la precisione i due astri arriveranno alla minima distanza apparente la mattina del 1 luglio alle 03:50 UTC con una distanza di appena 20.1′ (circa 2/3 del diametro lunare [cite]http://goo.gl/YgsG5f[/cite], ma a quell’ora saranno abbondantemente sotto l’orizzonte.
Noi dovremo accontentarci  di vedere Venere e Giove separati da appena 22′ la sera prima ma con un pizzico di pazienza ….

alle 22:59:49 nei pressi di Denebola (il fondoschiena della costellazione del Leone) potrete osservare il flash del satellite Iridium 91, quando però la congiunzione è ormai sull’orizzonte.
Buona visione e cieli sereni!

La separazione apparente di Giove e Venere alle 22: 00 (ora locale italiana).  Credit: Il Poliedrico

La separazione apparente di Giove e Venere alle 22: 00 (ora locale italiana).
Credit: Il Poliedrico

Congiunzione Venere – Giove del 18 agosto 2014

Muovi il puntatore sulla figura per vedere le etichette.
Credit: Il Poliedrico

Finalmente la Congiunzione forse più attesa di quest’anno sono riuscito a vederla. Ammetto che è stata una levataccia, alle 04:45, ma ne è valsa la pena!
Purtroppo ho il telescopio guasto, probabilmente è solo un problema di alimentazione che risolverò nei prossimi giorni. La foto qui sopra infatti è stata scattata senza inseguimento, manovrando il tubo alla vecchia maniera come facevano gli astronomi del passato. Quindi anche se seccante, non è stata un’esperienza poi tanto male.
Qui sotto ci sono altre foto di stamani, divertitevi!

IMG_7327b Venus and Jupiter Jupiter and Venus

Venere e Terra, gemelli diversi

Nel nostro sistema solare il pianeta più simile alla Terra è Venere. Composizione chimica, densità e dimensioni sono molto simili tra i due pianeti. Anche la loro distanza al Sole è tutto sommato abbastanza simile. Eppure Venere, a dispetto del nome che evoca la dea romana della bellezza, è in realtà un inferno, torrido e secco. Tutta l’acqua presente sul pianeta risiede nella sommità delle sue nubi e quando lì decide di piovere, piove acido solforico.
Un nuovo studio giapponese spiega come sia avvenuto.

Venere e Terra sono molti simili dal punto di vista fisico ma hanno avuto storie molto diverse a causa della diversa distanza dal Sole.

Venere e Terra sono molti simili dal punto di vista fisico ma hanno avuto storie molto diverse a causa della diversa distanza dal Sole.

L’acqua liquida non è solo necessaria alla vita come la conosciamo. Questa è importante anche per il suo ruolo di lubrificante per le placche tettoniche e del mantello superiore. Essendo infatti abbastanza solubile nei silicati fusi, l’acqua penetra in profondità giù fino al mantello e permette alle placche tettoniche di muoversi più facilmente riducendone l’attrito reciproco. È quindi una componente importante della litosfera, lo strato più esterno del pianeta, che comprende la crosta e la parte più esterna del mantello responsabile della tettonica a zolle.
All’epoca della sua formazione, la relativamente poca acqua presente nella fascia più interna del Sistema Solare era chimicamente legata a silicati idrati e ai composti del carbonio più pesanti. Questa era però sufficiente a fornire una discreta quantità di acqua 1 ai neonati pianeti.
Le condizioni di pressione e temperatura che si stabilirono nei pianeti subito dopo il raggiungimento dell’autosostentamento gravitazionale favorirono la loro differenziazione chimica in base al peso atomico e molecolare degli elementi: nel nucleo si accumularono quelli più pesanti, mentre nella parte più esterna si raccolsero tutti gli elementi più leggeri 2.
Questa differenziazione, altrimenti nota come Catastrofe del Ferro, liberò l’acqua dai silicati fusi e fornì ai pianeti ancora non del tutto formati una prima, spessa atmosfera composta da diossido di carbonio e vapore acqueo.
Al di sotto di quella coltre di gas, i pianeti non avevano ancora una crosta solida ma una superficie di magma caldo e viscoso.

Lo studio giapponese

Due tipi distinti di pianeta terrestre. L'asse x superiore mostra la corrispondente radiazione stellare netto iniziale. La freccia indica la troposferico limite di radiazioni. Il critico distanza orbitale di acr, 0,76 AU separa l'orbitale regimi dei due tipi di pianeta. una, tempo di solidificazione. Le linee tratteggiate indicano il tempo richiesto per la completa perdita di acqua primordiale. Questo fornisce una buona approssimazione del tempo di solidificazione di pianeti di tipo II. il massimo viene visualizzato anche il tempo di solidificazione per I pianeti di tipo (vedi supplementare Informazioni). b, Totale rimanenze acqua al momento della completa solidificazione. A forte transizione è esposta a circa acr.

Le due distinte classi di pianeti rocciosi simili alla Terra
L’ascissa superiore mostra la radiazione stellare iniziale. La freccia indica il limite troposferico alle radiazioni. La distanza orbitale critica di circa 0,76 UA distingue i due tipi di pianeta. Nel riquadro a  è indicato il tempo di solidificazione. Le linee tratteggiate indicano il tempo necessario alla completa perdita dell’acqua primordiale. Questo dato fornisce una buona stima del tempo necessario alla solidificazione dei pianeti di tipo II. il massimo viene visualizzato anche il tempo di solidificazione per I pianeti di tipo I.
Nel riquadro b viene indicata la quantità di acqua rimasta al momento della completa solidificazione della crosta planetaria.
Credit: Keiko Hamano.

Qui entra in gioco uno studio del dipartimento Terra e Scienze planetarie dell’Università di Tokyo condotto da Keiko Hamano, Hidenori Genda e Yutaka Abe e pubblicato su Nature a fine maggio scorso.
Questo studio mostra come la distanza dalla loro stella possa influenzare l’evoluzione dei pianeti rocciosi.

Entro una certa distanza la radiazione stellare 3 impedirebbe la dispersione del calore in eccesso dei pianeti ancora fusi con conseguenze catastrofiche per la loro evoluzione.
L’evoluzione termica di un oceano di magma è strettamente legata alla formazione di vapore  acqueo nell’atmosfera. Una massiccia presenza di vapore acqueo nell’atmosfera comporta un tremendo effetto serra che diminuisce la radiazione in uscita dal pianeta e ritarda il processo di solidificazione.  A sua volta se questo flusso radiativo viene interrotto da uno stato di equilibro energetico con la radiazione stellare allora la superficie planetaria non può solidificarsi e il processo di rilascio dell’acqua sotto forma di vapore da parte del magma continua, ipersaturando l’atmosfera e svuotando il pianeta di tutta la sua acqua.
Questo processo di feedback positivo può prolungare l’opera di solidificazione del magma fino a 100 milioni di anni portando il pianeta al suo totale disseccamento.
Il resto dell’evoluzione è abbastanza chiara: l’assenza di acqua nella litosfera impedisce la formazione di zolle continentali e quindi di qualsiasi processo tettonico. La crosta planetaria diventa quindi più spessa e uniforme bloccando il flusso di calore che dal nucleo si propaga prima nel mantello e poi alla superficie.
In assenza di correnti convettive nel mantello anche la rotazione differenziale del nucleo si arresta e smette di generare un campo magnetico planetario 4. Intanto la radiazione stellare dissocia il vapore acqueo nei suoi componenti e soffia via l’idrogeno dall’atmosfera, mentre l’ossigeno si lega al monossido di carbonio trasformandosi in anidride carbonica. Così l’atmosfera del pianeta si satura di anidride carbonica 5 e l’effetto serra prima dovuto principalmente al vapore acqueo adesso è sostituito dalla quasi altrettanto efficace CO2.
Così la superficie planetaria rimane molto calda, il calore dell’interno non può quasi più defluire mentre l’atmosfera diviene sede di importanti moti convettivi dovuti all’incredibile gradiente termico tra la superficie del pianeta e lo spazio esterno.

Tutto questo è stato possibile da un iniziale stato di equilibrio energetico tra la radiazione stellare incidente e la temperatura dell’atmosfera del pianeta ancora fuso.
Nel caso in cui invece al calore sia consentito di defluire nello spazio il processo di raffreddamento procede molto più velocemente – pochi milioni di anni – consentendo al pianeta di mantenere gran parte della sua acqua nel mantello e favorendo così lo sviluppo di placche continentali. Una superficie molto più fresca consente al calore del nucleo di raggiungere la superficie attraverso moti convettivi che rimescolano il mantello e consentono al nucleo di girare indipendentemente dal resto del pianeta e generare un campo magnetico planetario. Col raffreddamento della superficie il vapore si converte in pioggia e assorbe parte dell’anidride carbonica dall’atmosfera sotto forma di acido carbonico. La riduzione dei gas serra rende l’atmosfera ancora più trasparente alla radiazione infrarossa che così disperde più energia nello spazio.
Il feedback negativo è evidente, così il pianeta si raffredda così velocemente che in pochi milioni di anni è completamente diverso dal suo gemello nato più vicino alla stella.

Conclusioni

Non c’è motivo per dubitare che gli altri sistemi planetari si siano formati in maniera dissimile al nostro, pertanto è ragionevole pensare che meccanismi simili si possano verificare anche per altri sistemi planetari.
Le supposizioni dello studio giapponese si adattano alla perfezione a quello che sembra che sia successo qui, con Venere caldo e secco e la Terra così fresca e umida.
Un meccanismo semplice, la distanza dal Sole, che si sposa perfettamente con i dati osservativi che abbiamo.
I ricercatori giapponesi suddividono così i pianeti rocciosi in due classi: il tipo I, la Terra che si è evoluta in un mondo fresco e umido, e il tipo II, caldo e secco come Venere. Il limite lo pongono a circa 0,8 U.A. dal Sole 6.
Fermo restando la suddivisione in due diverse classi di pianeti, io credo che sia meglio parlare di limite inferiore per lo sviluppo geologico di un pianeta potenzialmente abitabile. Così come esiste una Circumstellar Habitable Zone dimensionata dalla radiazione stellare, ora scopriamo che questa impone anche un limite che regola l’evoluzione geologica di un pianeta ed è un altro dettaglio importante da non trascurare nella ricerca dei pianeti potenzialmente abitabili.


Bibliografia:

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Note:

Il transito di Venere visto dallo spazio

Proprio non ce l’ho fatta.

Avrei voluto pubblicare qualche immagine ripresa da me ma è stato impossibile. L’orrendo caseggiato che hanno costruito un paio di anni fa davanti alla mia casa mi ho impedito di vedere sorgere il Sole nelle ultime fasi del transito. E così ripiego su qualcosa di altrettanto spettacolare e sicuramente più valido dal punto di vista scientifico, ma ahimé, non mio.

In ogni momento il disco di Venere si proietta contro il Sole, la rarità dell’evento è solo legata al fatto che Venere e la Terra hanno piani orbitali leggermente diversi che solo quando si intersecano e Venere transita proprio di lì è possibile vedere la sagoma del secondo pianeta proiettarsi contro la luminosa superficie del Sole.
Questo avviene ogni 243 anni, con coppie di transiti separate da un intervallo di 8 anni (ricordate? le orbite della Terra e di Venere sono in risonanza 13/8), che si ripetono in periodi più ampi di 121,5 e 105,5 anni. Al di là della freddezza dei numeri e dell’assenza di magia nella spiegazione scientifica del curioso fenomeno, non possiamo non apprezzare la bellezza di quello che ogni istante la natura ci offre.

Anche nei filmati che qui sotto propongo possiamo cogliere la bellezza del fenomeno oppure la raffinatezza della scienza che dai tempi di Galileo ha imparato a mostrarci un universo sconosciuto ai normali sensi umani e tutti i fenomeni ad esso associati. Ringrazio la NASA che ha reso pubbliche queste immagini riprese dagli strumenti del Solar Dynamic Observatory.

Buona visione.

Transito di Venere sul Sole osservato dallo strumento HMI (Helioseismic and Magnetic Imager) a bordo dell’osservatorio spaziale Solar Dynamic Observatory della NASA (NASA/SDO).

AIA 1 94: Ripresa del transito alla lunghezza d’onda di 94 Å (estremo ultravioletto). L’analisi del Sole a questa lunghezza d’onda consente di studiare la corona a temperature estremamente elevate (circa 6 milioni di gradi Kelvin) e i brillamenti solari.

AIA 171: a 171 Å (ultravioletto estremo) vengono studiati gli archi dei plasma che si muovono lungo le linee del campo magnetico e si estendono fuori del Sole. Qui le temperature in gioco sono dell’ordine di 1,8 milioni di gradi Kelvin.

AIA 193: alla lunghezza d’onda di 193 Å (ultravioletti estremi) si studia la corona solare a una temperatura di 1,25 milioni di gradi. I brillamenti solari e i CME qui appaiono come più luminosi mentre le regioni più scure sono i buchi coronali, zone relativamente più fredde responsabili di gran parte del vento solare.

AIA 304: qui si studiano i filamenti e le protuberanze solari sopra la fotosfera. Alla lunghezza d’onda di 304 Å (ultravioletto estremo) le aree più chiare sono quelle dove il plasma è più denso. Qui la temperatura è di soli 50000 Kelvin.

AIA 335: anche a 335 Å viene messa in evidenza la zona attiva della  corona solare. Anche qui le regioni più attive, i brillamenti solari, e le espulsioni di materia coronale appaiono luminose mentre le aree più scure sono i buchi coronali.

AIA 1600: a 1600  Å (ultravioletto lontano) viene messa in evidenza la fitta trama dei campi magnetici sulla fotosfera superiore. La temperatura qui è di appena 6000 gradi Kelvin. Le regioni più oscure sono dove i campi magnetici sono più fitti, come accade intorno alle macchie solari e alle regioni attive.

 

Venere e Pleiadi: un abbraccio storico

Credit: Gianluca Masi http://virtualtelescope.bellatrixobservatory.org

Il famoso incontro di Venere con M45 (Pleiadi) poi c’è stato, anche se per molte località d’Italia, compresa la mia, non è stato possibile vederlo.
Dopo l’iniziale attacco di rabbia diretto alle avverse condizioni meteorologiche del 3 aprile 1, me ne sono fatto una ragione e mi sono guardato intorno.
“È mai possibile che nessuno abbia fotografato lo storico momento?”

Credit: Il Poliedrico

Tanto più che quest’occasione si ripresenterà solo fra otto anni,  come potete vedere nella proiezione qui accanto  e solo fino al 2036, quindi ancor di più unica a meno che non si abbia la pazienza di aspettare almeno altri 25786 anni, sempre che non cambi qualcosa nel frattempo, il che può anche essere.

Infatti, eccola qui.
Una splendida fotografia realizzata dall’ottimo Gianluca Masi, che ringrazio per avermene concesso l’uso, mostra Venere il 3 di aprile mentre si staglia nettamente sulle Pleiadi.

Non è certo come aver visto il magico momento di persona, ma pur sempre meglio di niente.

ps. Speriamo che fra otto anni sia sereno …

Venere e Pleiadi: una spettacolare combinazione!

Credit: Il Poliedrico

Prendete quanti giorni ci sono in un anno terrestre 1 e dividetelo per 13. Fatto?
Adesso moltiplicate quel risultato per 8. Vi viene 224 e rotti? Bene, sappiate che quel numero è qualche centesimale più grande del tempo impiegato da Venere a compiere un giro attorno al Sole espresso in giorni terrestri, che è appunto 224,700.

Credit: Il Poliedrico

Tutta questa matematica serve a dimostrare che le orbite della Terra e di Venere sono in risonanza 13/8, cioè quando Venere compie 13 orbite complete la Terra ne compie 8.
Per questo ogni 8 anni e un pezzettino – i famosi centesimali – vediamo Venere nello stesso punto relativo del cielo, e per questo ogni 8 anni – e un pezzettino – Venere passa vicinissimo allo scrigno di gioielli del Nord: le Pleidai.

Ora se osservate l’immagine piccola vedrete che Venere compie una sinusoide che allontana  Venere dalle Pleiadi sempre di più. Possiamo dire che siamo abbastanza fortunati da assistere alla proiezione del pianeta proprio sopra l’ammasso, condizione che si ripeterà solo per i prossimi 48 anni, ad intervalli di 8.

Come osservare?
Con un binocolo o con uno strumento a grande campo e basso ingrandimento che abbracci tutte le Pleiadi e poco più, tanto più che la dispettosa Luna è in fase crescente dall’altra parte del cielo poco sotto a Marte.
Per questo sarà difficile gustare appieno l’evento ad occhio nudo, senza dimenticare che Venere è sempre più brillante, verso la fine del mese riuscirà a proiettare anche la sua pallida ombra.
Provate a fare anche qualche foto, credo che ne varrà la pena!

L’ombra di Venere

Credit:Vincent Jacques (Fr) for SpaceWeather.com

Mi dispiace che quasi nessuno abbia partecipato al gioco; in fondo la colpa è anche un po’ mia perché non era affatto facile rispondere.

Gli oggetti astronomici capaci di creare un’ombra sulla Terra sono soltanto tre – anche se chi giura che anche Marte e Giove ne siano capaci: Sole, Luna e Venere.
L’origine dell’ombra proiettata sul muro era il pianeta Venere; infatti la Luna sarebbe sorta solo in tarda mattinata (era Luna Nuova il 4, ricordate l’eclissi di Sole?)
Quella mattina, col cielo limpido e scuro, Venere brillava di magnitudine -4,4, generando così la debolissima ombra del telescopio sul muro.

Relazione tra posizione orbitale e fasi osservabili del pianeta. Credit: UAI

Dopo la massima elongazione orientale (ultimo quarto), quindi di sera, Venere si avvicina alla Terra e diviene di conseguenza più brillante. Il massimo della luminosità si ottiene circa quattro settimane dopo la massima elongazione orientale, nel momento in cui si ottiene un ragionevole compromesso tra  la diminuzione della superficie visibile del pianeta dalla Terra (fase calante), quindi la luce riflessa, e la sua distanza dalla Terra. Dopo la congiunzione inferiore (quando Venere sarà tra la Terra e il Sole) Venere sarà visibile prima dell’alba e il massimo della luminosità sarà raggiunto un mese prima della massima elongazione occidentale (primo quarto).
In quei momenti la luminosità sarà massima (magnitudine visuale -4,4 /-4,5) e in condizioni di cielo buio (quindi senza la Luna visibile e senza inquinamento luminoso) si potrà vedere l’ombra di Venere, che ha anche una particolarità interessante:
visto che Venere è comunque per noi quasi puntiforme rispetto al Sole e alla Luna, la sua ombra, anche se debolissima, avrà i contorni più netti di quella prodotta dagli altri due corpi celesti.

Cosè la Cintura di Venere

Non conosco al momento il risultato del sondaggio, questo era particolarmente insidioso, era facile confondersi.

Quando il Sole (ma anche la Luna) è vicino all’orizzonte, al tramonto o l’alba, la sua luce è rossa, questo è perché  per raggiungere l’osservatore attraversa uno strato particolarmente denso di atmosfera, che funziona come un filtro, diffondendo tutti i colori tranne il rosso

L’ombra della Terra, conosciuta anche come segmento scuro, è l’ombra che la Terra proietta sulla sua atmosfera e qualche volta si può vedere due volte durante la giornata: prima dell’alba e subito dopo il tramonto.
Purtroppo non sempre è possibile vedere questo fenomeno, che pure si ripete quotidianamente come è vero che la Terra gira, perché peggiori condizioni di visibilità  nascondono l’effetto. Basta un po’ di foschia, nuvole, o semplicemente noi che non prestiamo attenzione alle meraviglie che spesso la natura ci offre, che l’avvicinarsi dell’ombra della Terra non sia vista.
Perché l’ombra della Terra sia visibile, occorre che il cielo sia limpido e l’orizzonte sgombro da ostacoli ed è più evidente nel punto antisolare, esattamente di fronte al tramonto. Un buon posto per vederla è in montagna o un buon momento è dopo una giornata di tramontana.

L’altro fenomeno, che dà anche il titolo ai due articoli, è la Cintura di Venere, che è la parte dell’alta atmosfera ancora illuminata dal Sole la cui luce viene diffusa verso l’osservatore e subisce lo stesso fenomeno che rende il Sole più rosso all’alba e al tramonto, per questo appare rosa. Il resto del cielo è ancora più colpito dalla luce del Sole e quindi ne diffonde di più, per questo appare ancora più chiaro nella foto.

Probabilmente con questo articolo ho ucciso la magia di un momento stupendo, ma forse ora che sapete che cosa dà queste tonalità meravigliose al tramonto ci farete più attenzione la prossima volta e ne apprezzerete la bellezza. La magia è nel momento, non nella sua interpretazione, e ricordate: la notte non è altro che l’ombra della Terra che ci inghiotte momentaneamente domani ci sarà ancora un’altra alba.