Ascoltando il silenzio

Nell’articolo precedente ho illustrato la base minima su cui partire per cercare di comprendere il mio pensiero: non credo alla colossale panzana degli ufini ma neppure mi sento di escludere a priori l’esistenza di altre entità biologiche extraterrestri intelligenti che condividono con noi l’interesse di studiare e di esplorare il cosmo.

La vita come la conosciamo è basata sulla chimica del carbonio. Il carbonio a sua volta non è sempre esistito ma è uno dei prodotti di scarto delle reazioni nucleari delle stelle. Le prime stelle dell’Universo apparvero piuttosto presto: appena un centinaio di milioni di anni dopo il Big Bang. Ammettendo un paio di miliardi di anni come ciclo vitale delle prime grandi stelle, potremmo ragionevolmente affermare che l’Universo è in grado di sostenere la vita basata sul carbonio da almeno 9/10 della sua esistenza: cioè circa 12 miliardi di anni 1 [cite]https://arxiv.org/abs/1312.0613[/cite]. Se a questo dato dovessimo aggiungere l’intervallo che potrebbe essere necessario per traghettare la vita verso le forme dotate di intelletto almeno pari al nostro, prendendo la Terra come termine di paragone — in fondo è l’unico che per ora abbiamo, potremmo estrapolare che un cosmo potenzialmente abitabile da specie intelligenti sia possibile da almeno 8 miliardi di anni. È comunque un arco di tempo notevole che in qualche modo fa presente che una eventuale civiltà extraterrestre non va immaginata qui e ora ma cercata anche nella vastità del tempo.
Ogni tipo di comunicazione o segnale, per le nostre attuali conoscenze fisiche, non può essere più veloce della velocità della luce nel vuoto: ogni volta che osserviamo un qualsiasi oggetto, che sia l’albero di fronte a noi o il quasar più lontano nel cosmo, noi lo vediamo come era nel momento t – t_1 in cui la luce lo ha lasciato ( t_1  = d / c).
Questo significa che anche se domani dovessimo scoprire segnali radio o di qualsiasi altra natura provenienti da una civiltà tecnologica extraterrestre, noi non potremmo prendere atto altro che del fatto che in un certo istante nel passato essa è esistita e che potrebbe essere, al momento della sua scoperta, ormai scomparsa. 
Un altro aspetto assai spesso trascurato è che ogni emissione elettromagnetica non è mai a costo zero: essa richiede energia per esistere, sia che si tratti dell’emissione di una stella o della luce di una lampadina o di una trasmissione radio. Certo, si potrebbe obbiettare che per una civiltà tecnologicamente avanzata la produzione di energia potrebbe non essere un problema ma questo a mio avviso non è, anche scientificamente parlando, corretto.
Inoltre, e questo è curioso oltreché vero, che le radioemissioni involontarie provenienti da una ipotetica civiltà extraterrestre che potrebbero rivelarci la sua presenza potrebbero essere assai limitate nella sua storia. Come ho spesso affermato su queste pagine anche in passato, le trasmissioni broadcast radiotelevisive di una potenza significativamente grande sono esistite per poche decine di anni, presto soppiantate da satelliti per le comunicazioni rivolti a illuminare aree limitate del nostro pianeta e cavi in fibra ottica transoceanici. Anche i nostri più perfezionati telefoni cellulari ci consentono di comunicare istantaneamente con ogni altra parte del globo con meno di un watt di radioemissione appoggiandosi a una rete di trasmettitori a bassa potenza e alle tecnologie satellitari, mentre il rumore elettromagnetico di fondo prodotto dalla nostra tecnologia basata sull’elettricità è aumentato a dismisura.
Una civiltà extraterrestre a 100 anni luce che ascoltasse la Terra potrebbe rivelarci tra 20-30 anni per poi vedere il nostro segnale crescere significativamente per una cinquantina d’anni e poi ridiscendere improvvisamente per lasciare il posto a un brusio di fondo molto forte alle frequenze più basse.
Per lo stesso motivo non potremmo percepire la presenza di un’altra civiltà con una storia evolutiva molto simile alla nostra molto a lungo a meno che i suoi segnali non coincidano col nostro periodo di ascolto: le loro emissioni potrebbero aver attraversato il Sistema Solare quando noi attraversavamo gli oceani su fragili caravelle o all’epoca della Guerra Civile Americana e oggi non saremmo più in grado di sentirli. A meno che non lo volessero di proposito ma quella è un’altra storia.

 Il paradosso di Fermi

È questo il vero problema e che potrebbe proporre una plausibile risposta al celebre paradosso: noi conosciamo la tecnologia radio soltanto da un centinaio di anni e solo da ottanta di essi questa tecnologia si è significativamente evoluta: su 8 miliardi di anni noi abbiamo la radio da un 100 milionesimo di questo arco di tempo. Pretendere che ascoltando qualche migliaio di stelle si capti una trasmissione intelligente in così poco tempo è statisticamente impensabile 2. Senza contare che le tecnologie di ricezione e di elaborazione del segnale si fanno ogni anno sempre più complesse ed efficaci: magari quella che allora era sembrata una spuria captata dall’arcaico Progetto OZMA oggi — o in futuro — potrebbe essere interpretata come un segnale intelligente.
Ma comunque qui ancora una volta sfugge una cosa fondamentale che può fallare ogni nostro sforzo: il nostro approccio alla ricerca di vita e intelligenza extraterrestre è comunque basato sul nostro grado di conoscenza e tecnologia, Cerchiamo segnali elettromagnetici — come le onde radio — perché in sostanza essi sono fondamentali nella nostra tecnologia, ma possono esserci altre forme di comunicazione e noi ignote o che non consideriamo come tali. Prendiamo il linguaggio umano: esso è basato sul suono, ossia la compressione modulata del mezzo in cui siamo immersi: l’aria. Ma molte specie di animali comunicano attraverso l’emissione e la ricezione di stimoli chimici come i ferormoni o altre molecole più elementari.

Stiamo ascoltando il silenzio e, a parte alcune ottimisti previsioni, continueremo a farlo per un bel po’. Qualcosa ancora certamente pare sfuggirci. Alla prossima …

 

(Continua…)

L’Anomalia del Pioneer: mistero risolto?

Questo è un ottimo articolo scritto e pubblicato da Sabrina Masiero per TuttiDentro. L’ho riportato qui per mostrare – ancora una volta – come una ricerca scientifica seria possa portare a conclusioni logiche e inaspettate, piuttosto che scomodare improbabili alieni che manomettono le sonde come dichiararono un anno fa riprendendo i deliri di un sedicente esperto 1 i giornali di mezzo mondo. Anzi, ora più che mai serve un risveglio scientifico nelle nuove generazioni, perché capiscano l’importanza del ragionamento e dell’indipendenza del pensiero per non commettere gli stessi errori delle generazioni precedenti..

Il fly-by del Pioneer 10 con il pianeta Giove in un’immagine fantastica. Credit: NASA.

Per oltre un decennio, l’anomalia del Pioneer è stata un problema aperto, una sorta di domanda senza risposta nell’ambito della fisica. L’esistenza di un’apparente accelerazione costante dovuta al Sole registrata sulle due sonde spaziali Pioneer 10 e 11 fu rilevata per la prima volta nel 1998 da un team di scienziati del Jet Propulsion Laboratory (JPL) di Pasadena, (California) e pubblicata sul Phusics Revew Letter 2 L’anno successivo questa anomala accelerazione fu studiata in maggior dettaglio, ottenendo per essa un valore costante pari a (8.74 ± 1.33) × 10 ^(− 10) m/s ^2 3

Gli scienziati e i tecnici della NASA monitorarono costantemente la posizione delle due sonde spaziali utilizzando l’effetto Doppler. In particolare, l’astronomo John Anderson negli anni Ottanta ideò un algoritmo matematico in grado di utilizzare le trasmissioni radio tra le sonde Pioneer e il nostro pianeta per studiare gli effetti gravitazionali nelle regioni periferiche del nostro sistema solare interno (interno nel senso che ci limitiamo a considerare il nostro sistema solare costituito solo dai pianeti e trascuriamo tutto quello che sta oltre l’orbita di Nettuno, che fa ancora parte del nostro Sistema Solare e che comprende la Fascia di Kuiper e la Nube di Oort). Durante queste misurazioni, si osservò un’anomalia nei calcoli, una sorta di discrepanza tra l’effetto Doppler previsto dall’algoritmo di Anderson e la misurazione dei segnali radio delle due sonde. Da questa discrepanza emerse che i due Pioneer sembravano decelerare rispetto a quanto previsto dall’algoritmo di Anderson.
Per spiegare la decelerazione, si ipotizzò la presenza di grosse quantità di materia oscura, mai stata rilevata, nella zona più esterna del sistema solare, cioè al di là della fascia principale degli asteroidi, che tendeva a rallentare le due sonde. Un’altra ipotesi fu quella di ricorrere alla teoria del MOND (MOdified Newtonian Dynamics), ossia una teoria che afferma che la legge di gravitazione universale potrebbe non essere in realtà così universale e applicabile a tutti gli oggetti dell’universo come finora si è ipotizzato. In questa teoria viene introdotta una nuova costante, a(0), che ha le dimensioni di un’accelerazione e che modifica la legge di gravitazione universale di Newton per valori di accelerazioni molto piccoli. Questo comporta che la meccanica classica, quella newtoniana, funziona solo nel limite di accelerazioni grandi, superiori ad a(0), mentre per accelerazioni molto più piccole di a(0) interviene questa teoria modificata.
Sia la materia oscura che la teoria del MOND non riuscivano a spiegare questa discrepanza rilevata. Non erano state comunque escluse fattori tecnici, come un guasto o un malfunzionamento o un’anomalie della strumentazione delle sonde.

Si pensò allora che responsabile di questa decelerazione fosse il reattore SNAP-19 carico di qualche chilo di Plutonio 238 che alimentava entrambe le sonde e che poteva venir irradiato nello spazio in direzione opposta al moto delle sonde, producendo il rallentamento misurato. Ma si constatò che questo non poteva sussistere, dato che la spinta prodotta dal reattore avrebbe dovuto diminuire nel corso del tempo, anno dopo anno, non nel modo calcolato dai ricercatori.

 

Rappresentazione artistica del Pioneer 11 mentre compie il suo fly-by con Saturno. Credit NASA. Disponibile sul sito: Interstellar Spaceships and probes: http://privat.bahnhof.se/wb671350/space.html

In un lavoro pubblicato da F. Francisco  dell’Instituto  de  Plasmas  e  Fus˜ao  Nuclear, Instituto  Superior  Técnico di Lisbona e dai suoi colleghi il 27 marzo 2011 4 si afferma che i calcoli di Anderson degli anni Ottanta non erano corretti, perché non tenevano conto del calore riflesso dalle diverse parti che costituiscono le due sonde (effetti termici, come vengono chiamati). La radiazione generata dal reattore viene irradiata nello spazio ma anche riflessa dalle diverse componenti delle due sonde.
Utilizzando un nuovo algoritmo per calcolare i riflessi di luce su un oggetto tridimensionale, il team di Francisco è stato in grado di calcolare la quantità di calore emesso dal compartimento dell’equipaggiamento e a tener conto dei riflessi della radiazione termica contro la parete posteriore dell’antenna principale. Dato che quest’ultima punta verso il Sole e le sonde si stanno allontanando da esso, il calore riflesso rallenterebbe le due sonde Pioneer. Il valore della decelerazione, o anomalia del Pioneer, tornerebbe con quest’ultimo valore.

 

Nella parte conclusiva dell’articolo si legge: “With the results presented here it becomes increasingly apparent that, unless new data arises, the puzzle of the anomalous acceleration of the Pioneer probes can finally be put to rest” (traduzione: “Con i nostri risultati presentati qui, diventa sempre più chiaro che, a meno che non emergano nuovi dati, il mistero dell’accelerazione anomala delle sonde Pioneer possa essere considerato risolto“).

La rappresentazione delle traiettorie delle due sonde Pioneer 10 e 11. Credit: NASA.

Le due sonde Pioneer 10 e 11 furono lanciate quasi quarant’anni fa, la prima il 2 marzo 1972 e la seconda il 5 aprile 1973. Il Pioneer 10 fu la prima sonda spaziale ad oltrepassare la fascia principale degli asteroidi compresa tra Marte e Giove (con oltre 35 000 oggetti osservati) e la prima ad avere un incontro ravvicinato con Giove, il pianeta più grande del nostro sistema solare.
L’ultimo segnale dalla sonda Pioneer 10 raggiunge la Terra il 23 gennaio 2003 e numerosi furono i tentativi successivi di ripristinare il contatto, l’ultimo dei quali tra il 3 e il 5 marzo 2006, senza alcun risultato. Il Pioneer 10 si sta muovendo attualmente in direzione della stella Albebaran, una gigante rossa che forma l’occhio del Toro nell’omonima costellazione. Aldebaran è a circa 68 anni luce di distanza dal Sole (un anno luce è la distanza che percorre la luce in un anno alla velocità di quasi 300 000 chilometri al secondo) e il Pioneer impiegherà oltre due milioni di anni per raggiungerla.

Il Pioneer 11 fu la prima sonda a compiere un fly by con Saturno nel 1979. Non sono stati più possibili più contatti con essa dal 30 settembre 1995, cioè da quando non si è più trovata lungo la linea di vista con la Terra. Il Pioneer 11 si muove nella direzione individuata dalla Costellazione dell’Aquila, che si trova a nord-est della costellazione del Sagittario, e transiterà vicino ad una di queste stelle dell’Aquila fra circa 4 milioni di anni 5

E’ sicuramente un risultato interessante quello ottenuto da Francisco e i suoi colleghi che verrà ora preso in considerazione dalla comunità scientifica. Se tale conclusione verrà accettata, avremmo compiuto un passo in avanti nell’identificare un effetto di cui si dovrà tener conto nelle future missioni spaziali.
L’anomalia del Pioneer un decennio più tardi ha dato i suoi frutti.

 

 

Basato sull’articolo: “Modelling the reflective thermal contribution to the acceleration of the Pioneer spacecraft” F. Francisco, O. Bertolami, P.J.S. Gil e J.Pàramos, arXiv:1103.5222v1 [physics.space-ph]. Fonte ArXiv: http://arxiv.org/abs/1103.5222 .  Scaricabile su questo sito oppure direttamente, cliccando su: http://arxiv.org/PS_cache/arxiv/pdf/1103/1103.5222v1.pdf

 

Sabrina Masiero

(articolo originale su TuttiDentro: L’Anomalia del Pioneer: mistero risolto?)