Alla ricerca dei giusti marcatori nei pianeti extrasolari

[latexpage]

Credit: Il Poliedrico

Credit: Il Poliedrico

L’esistenza di pianeti extrasolari è ormai accertata al di là di ogni ragionevole dubbio.
Strumenti come il satellite Kepler e la spettrometria doppler hanno mostrato che quasi ogni stella dalla classe G in giù [cite]http://ilpoliedrico.com/utility/classificazione-stellare[/cite] accoglie in sé un sistema planetario.
Anche se questa appare già come una grande scoperta dal punto di vista sia scientifico che filosofico, la domanda successiva è: quali di questi pianeti hanno le caratteristiche fisiche adatte per sostenere la vita?
Innanzitutto è necessario che la condizione primaria sia accertata, ovvero che il pianeta extrasolare  orbiti all’interno dell’ecosfera della sua stella (zona Goldilocks) e che quindi riceva la giusta quantità di energia per sostenere l’acqua liquida entro un arco abbastanza ampio di temperature. Questo significa che il pianeta non deve essere troppo piccolo, così da permettere la presenza di una atmosfera abbastanza stabile e densa da consentire la presenza costante di acqua liquida 1. A questo punto non c’è che da sperare di rilevare un pianeta che, avendo tutti i requisiti necessari, sia riuscito a sviluppare la Vita. Al di là del tentativo – per ora infruttuoso – di scovare segnali radio di altre civiltà extraterrestri, non resta che cercare altri segnali che indichino comunque la presenza di Vita. Prendendo l’unico esempio disponibile, cioè la Terra, le firme vitali più evidenti dallo spazio sono quelle d’acqua, dell’ossigeno gassoso nell’atmosfera e della clorofilla.

Confronto fra gli spettri della Terra e  di un gemello Terra convoluta per un dato spec- Risoluzione trale con una funzione di line-spread gaussiana. L'assorbimento di spicco O2  caratteristica a 0,76 micron diventa completamente mescolato con la vicina giochi d'acqua  per R    20, mentre la funzione O3 è ampio e poco profondo, e molto difficile da vedere.

Confronto fra lo spettro terrestre e quello previsto per un ipotetico pianeta gemello della Terra.  La riga di assorbimento dell’ossigeno biatomico (O2) a 0,76 micron viene quasi nascosta dal segnale dell’acqua finché la risoluzione spettrale è piuttosto bassa (R=20); mentre l’ozono (O3) rimane poco visibile a tutte le risoluzioni calcolate.

Timothy Brandt e David Spiegel dell’Institute for Advanced Study della Princeton University nel New Jersey. si sono posti questa domanda e hanno tentato di elaborare l’aspetto della firma biologica che la Vita potrebbe imprimere sullo spettro di un pianeta [cite]http://arxiv.org/abs/1404.5337[/cite].
Questo studio è necessario anche per poter ideare gli strumenti che poi saranno costruiti proprio per questo scopo. E infatti il loro studio ha dato risultati molto importanti.

La molecola di gran lunga più semplice da individuare è quella dell’acqua, anche se per i due ricercatori occorre ancora un potere di contrasto che solo un telescopio fuori dall’atmosfera può ottenere: $1$ su $10^{10}$.
Se il potere risolutivo 2 $R=20$ alle lunghezze d’onda inferiori a 760 nm (0,76 $\mu m$) è  già disponibile con la tecnologia attuale, una risoluzione maggiore (diciamo 700/5 $nm$) necessaria per distinguere correttamente il segnale dell’ossigeno molecolare è ancora al di là del limite strumentale attuale, anche se sicuramente verrà presto raggiunto dalle prossime generazioni di spettrografi. Frequenze assorbimento piante
Molto più difficile invece sarà rintracciare una qualche forma di clorofilla.
I ricercatori indicano una regione intorno a 700 $nm$ chiamata vegetation red edge (SRE), come indicatore importante della presenza di vegetazione. Osservando l’immagine qui a sinistra è evidente che (sulla Terra) tutta l’attività fotosintetica si interrompe bruscamente alla fine dello spettro visibile perché il livello di energia dei fotoni alle lunghezze d’onda più lunghe di circa 700 $nm$ non è più sufficiente per sintetizzare le molecole organiche 3. Qui la vegetazione diventa quasi trasparente nel vicino infrarosso. Questo repentino cambiamento della riflettività può essere stimato tra il 5% e il 50%  tra i 680 e i 730 $nm$.
Anche questo fenomeno, peraltro non riproducibile da nessun altro fenomeno fisico naturale, potrebbe essere un altro interessante indicatore per capire se una qualche forma di vita che faccia ricorso alla fotosintesi sia presente su un esopianeta [cite]http://arxiv.org/abs/astro-ph/0503302[/cite].

Se prendiamo le tre forme principali della clorofilla (clorofilla A e B, β carotene 4) vediamo che la capacità di assorbire la luce dove anche c’è il picco massimo di assorbimento, intorno ai 400 – 500 $nm$ 5, mentre solo una minuscola parte dello spettro rosso viene coinvolta nel ciclo della fotosintesi.  Nelle piante superiori i pigmenti sono per la maggior parte clorofilla del tipo A e del tipo B.
Le clorofille assorbono la luce rossa e blu e trasmettono e riflettono quella verde, da questo dipende la colorazione della maggior parte delle piante.
Le altre due che ho menzionato nell’immagine, la ficoeritrina 6 e la ficocianina 7 sono solo, come ho spiegato  nelle note, dei pigmenti accessori della Clorofilla A.
Questo fa sì che il meccanismo della fotosintesi, almeno sulla Terra, sia estremamente efficiente nell’intercettare e sfruttare ogni singolo joule di energia luminosa emesso dal Sole nello spettro visibile. Però non sappiamo se un meccanismo simile sia presente e come possa essere strutturato su un altro pianeta, ma è possibile – in linea di massima – immaginarlo.

spettro.coloreLa radiazione emessa da una stella (nel nostro caso il Sole) emette una radiazione approssimata di corpo nero il cui picco è centrato sulla banda visibile dello spettro elettromagnetico. Quindi c’è da aspettarsi che, piuttosto ragionevolmente, questo sia vero anche per le altre stelle.
E siccome il picco di corpo nero varia in funzione della temperatura superficiale della stella, è naturale pensare che su pianeti di altre stelle se mai si fosse sviluppata come la fotosintesi 8 [cite]http://pubs.rsc.org/en/content/articlelanding/2011/nj/c0nj00652a/[/cite], tale processo si sarà ottimizzato proprio per recepire il picco massimo della radiazione incidente alla superficie del pianeta 9  [cite]http://arxiv.org/abs/astro-ph/0701391[/cite].

A questo punto appare evidente che la ricerca di altre forme di vita su altri pianeti  non è così poi al di fuori della portata , anche strumentale, di quanto si possa credere. Anche le speculazioni, perfino sulle forme di certi processi biologici, su cosa cercare certo non mancano. Magari mi lascia perplesso l’impronta dell’ossigeno, ma questo sarà un tema che verrà affrontato prossimamente.


Note:

Come osservare gli oceani extrasolari

Tra la fine del XX secolo e questo decennio la ricerca dei pianeti extrasolari si è affermata a tal punto che oramai è quasi routine, ovvero non fa quasi più notizia, la scoperta di un nuovo pianeta che orbita attorno a qualche stella più o meno vicina.
Addirittura in qualche caso è stato possibile osservare la luce riflessa del pianeta e a misurarne la composizione  1 ma c’è già chi pensa che sia giunto il momento di andare oltre.

I primi pianeti extrasolari che furono scoperti erano enormi pianeti grandi quanto o più di Giove che possedevano orbite strettissime attorno alla loro stella tanto che il loro periodo di rivoluzione era solo di qualche giorno 2. Questo rendeva le loro atmosfere arroventate, sopra i 1300 Kelvin. Per loro fu coniato il termine Gioviani Caldi.
Le tecniche di osservazione e gli strumenti non erano così precisi e creati ad hoc come quelli attuali, per questo all’inizio dell’era dei pianeti extrasolari i primi che furono scoperti erano solo Gioviani Caldi: le perturbazioni stella-pianeta sul loro baricentro comune erano talmente ampie da essere rilevate anche allora.
Questo sconvolse un attimino gli scienziati a tal punto che qualcuno suggerì anche di rivedere le teorie sulla formazione dei sistemi planetari alla luce delle nuove e inattese scoperte.
Nuovi metodi di indagine e  nuovi strumenti, come ad esempio il telescopio spaziale Kepler, hanno scoperto nuovi sistemi solari più simili al nostro, dimostrando che dopotutto probabilmente l’attuale teoria del collasso di una nube protoplanetaria è la spiegazione migliore che abbiamo per spiegare l’esistenza dei sistemi planetari.

Comunque anche oggi è difficilissimo trovare un  Pianeta extrasolare con le caratteristiche simili alla Terra 3, ossia la distanza giusta, un’orbita quasi circolare – necessaria perché le escursioni termiche non siano eccessive tra un punto e l’altro dell’orbita, e la massa giusta per trattenere una atmosfera consistente 4 tale da permettere all’acqua di esistere allo stato liquido per un’ampia scala di temperature 5.
Questo perché ancora le perturbazioni al baricentro comune o le variazioni di luminosità indotte dal transito di un corpo come la Terra alla giusta distanza dalla sua stella è ancora al limite degli attuali strumenti, tanto più che occorrono diversi anni di misurazioni per ogni singola stella per ottenere dei risultati sicuri 6.

In questa immagine del 2007 ripresa dalla Stazione Spaziale Internazionale si può vedere un riflesso del Sole sull’Oceano Pacifico. Questo è quello che gli astronomi tentano di rilevare. Credit: NASA

L’importanza di scoprire l’acqua allo stato liquido su un pianeta extrasolare è  indubbia: quasi sicuramente dove c’è acqua può esserci vita.
E come ho accennato, c’è già chi si spinge oltre e pensa a come si possa individuare  la presenza di acqua liquida su questi lontanissimi pianeti – ancora da scoprire, è bene ricordarlo.

Il metodo studiato dal team di scienziati guidati da Nicolas Cowan della Northwestern University propone di rilevare la presenza di acqua su un esopianeta, sembra banale dirlo, tramite la riflessione speculare, ovvero il riflesso degli eventuali oceani.
In pratica ci si aspetta un aumento dell’albedo più la porzione del pianeta è illuminata dal suo sole. Questo perché gli oceani si comportano come giganteschi specchi se illuminati da certi angoli piuttosto che altri 7.

La falce di Venere ripresa l’8 luglio 2012. Credit: Il Poliedrico

I possibili metodi per rilevare questi oceani extrasolari sono essenzialmente tre.
Il primo metodo si basa sul fatto che gli oceani sono molto più scuri e hanno colori diversi 8 rispetto a qualsiasi altro tipo di superficie che si suppone che un pianeta roccioso extrasolare possa avere.
Quindi le variazioni di colore che un pianeta extrasolare può mostrare nel tempo a causa della sua rotazione possono indicare la presenza di oceani di acqua liquida.

Il secondo metodo si basa sulla polarizzazione mostrata dalla luce riflessa dagli oceani di acqua liquida rispetto alla luce naturale della stella 9.
Inoltre questo metodo ha anche il vantaggio di esaltare la luce riflessa dagli eventuali oceani del pianeta a discapito della luce naturale della stella.

Il terzo metodo, accennato anche prima, è quello della riflessione speculare degli oceani che riflettono la luce in un modo simile a uno specchio.
Dagli studi del team di Cowan questi riflessi si renderebbero visibili soprattutto quando il pianeta è intorno alla massima elongazione apparente rispetto alla sua stella, quando il suo aspetto assomiglia a quello che chiameremmo Quarto di Luna.
In quel momento infatti la geometria apparente del sistema osservatore-pianeta-stella colloca il pianeta a 90° rispetto alla stella, vicino all’angolo che offre la maggiore riflettività che è di circa 81°  10.
Anche se il bagliore è molto piccolo, un aumento di luminosità anche piccolo vicino alla massima elongazione planetaria può essere la testimonianza della presenza di un oceano di acqua liquida.

Cowan e il suo gruppo ha anche messo in conto la presenza di nubi atmosferiche, dimostrando che i tre mezzi di indagine possono essere efficaci fino a una copertura nuvolosa del 50%; un bel risultato.

Lo studio, accettato per la pubblicazione anche su Astrophysical Journal 11, è sicuramente uno dei primi a suggerire quali potrebbero essere i piani di ricerca successivi alla scoperta di un pianeta della massa giusta nell’orbita giusta.

Una ricerca molto lunga, decennale addirittura. Però sarà una sfida interessante, attualmente al limite delle capacità degli strumenti attuali ma sicuramente alla portata della futura generazione di telescopi come il mastodontico European Extremely Large Telescope  appena approvato dall’ESO.

Ormai non  ci resta che aspettare.