VLTI (Gravity) registra la prima atmosfera extrasolare

HR8799. Una stella distante 129 anni luce, è la prima ad ospitare un pianeta di cui si sia osservata direttamente l’atmosfera!

Sono passati appena 40 anni da quando fu accertata l’esistenza dei pianeti attorno alle altre stelle; non che vi fossero dubbi al riguardo ma si riteneva che dimostrarne l’esistenza e perfino scrutarne qualcuno — come poi è stato fatto — fosse impossibile. E invece … eccoci qua!
Sfruttando l’ eccezionale apertura interferometrica di ben 100 metri (vedi nota a piè di pagina), gli astronomi sono riusciti a ricavare lo spettro dell’atmosfera di HR 8799 e, uno dei quattro pianeti di una stella molto giovane — appena una trentina di milioni di anni — di classe F0, distante appena 129 anni luce [1]. Il corpo celeste è un gioviano caldo, con una massa superiore di circa 10 volte quella di Giove ed è altrettanto giovane quanto la sua stella. Questa è una fortuna, perché permetterà in seguito di studiare nel dettaglio la sua evoluzione.
Comunque intanto sono stati raggiunti, e superati, diversi traguardi: il primo, e sicuramente il più importante, riguarda la capacità tecnologica di riuscire ad osservare finalmente l’atmosfera di un esopianeta, ossia di un mondo che non appartiene al nostro sistema solare; il secondo è che quell’atmosfera non è esattamente come i modelli standard delle atmosfere planetarie descrivono. E questo spingerà senz’altro gli astronomi a cercare e studiare altre esoatmosfere per cercare di comprenderne meglio i meccanismi. Intanto vi invito a consultare i link a fine articolo per vedere i risultati scientifici.
Questo è il link al comunicato ufficiale dell’ESO

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Note:

 

Schizzo della disposizione dell’interferometro del VLT. La luce da un oggetto celeste distante entra in due dei telescopi del VLT e viene riflessa dai vari specchi nel tunnel interferometrico, al di sotto della piattaforma di osservazione sulla cima del Paranal. Due linee di ritardo con carrelli mobili correggono in continuazione la lunghezza dei cammini in modo che i due fasci interferiscano costruttivamente e producano frange di interferenza nel fuoco interferometrico in laboratorio.

L’Interferometria viene usata da decenni nel campo delle onde radio, dove si possono ottenere immagini con strumenti virtuali pari quasi al diametro terrestre, Il principio di funzionamento di un apparato interferometrico si basa sulla sovrapposizione in fase di due o più segnali coerenti allo scopo di esaltarne il segnale; per ottenere questo effetto però la differenza tra i cammini ottici dei fasci stessi deve rimanere inferiore ad un decimo della loro lunghezza ottica. Ora, nella radioastronomia il margine è piccolo ma comunque ottenibile senza grosse difficoltà: a 21 cm di lunghezza d’onda — ossia quella dell’idrogeno interstellare — la tolleranza è di appena 2 cm; anche se questa è misurata su basi lunghe migliaia di chilometri (Very-Long-Baseline Interferometry). Ma ricorrendo a trucchi che prevedono l’uso combinato di orologi atomici locali e maser all’idrogeno, l’ostacolo è comunque facilmente risolvibile.
Ma questi non funzionano nell’interferometria ottica dove le fasi del segnale sono lunghe appena 1μm (ossia nel vicino infrarosso) e dove quindi la tolleranza richiesta deve essere ancora dieci volte più piccola, Questo risultato però è ottenibile facendo convergere i fuochi dei 4 telescopi del VLT in un unico punto avendo cura che tutti i segnali percorrano esattamente la stessa distanza. In questo modo, e sfruttando sapientemente le ottiche adattive dei telescopi, si può raggiungere l’incredibile risultato di avere una risoluzione pari a circa un millesimo di secondo d’arco a  1μm di lunghezza d’onda. Il che significa risolvere un oggetto grande appena un paio di metri sulla Luna!

Links

Una possibile atmosfera protoplanetaria per PDS 70b

SPHERE (Spectro-Polarimetric High-contrast Exoplanet REsearch instrument) sta davvero rivoluzionando l’astrofisica. Adesso è possibile scrutare i pianeti intorno alle loro stelle e studiare perfino per sommi capi la loro probabile atmosfera attraverso l’analisi spettroscopica di quella debole luce riflessa. Un traguardo che fino a pochi anni fa era ritenuto impossibile e che invece oggi si avvera.
Già mi pare di sentire le critiche — stupide — di chi pensa che tutto questo non serva a niente. Le immagini spettroscopiche e termiche riprese da droni, aerei e satelliti permettono di studiare e identificare infezioni e parassiti nelle coltivazioni agricole ben prima che i segni siano visibili sul campo [2]. Le tecnologie e principi che consentono di scorgere altri pianeti sono le stesse degli strumenti che ci permettono di vivere meglio su questo sassolino sperduto nell’infinito cosmo.

La posizione nel cielo di PDS 70 (V* V1032 Cen), una stella di tipo T Tauri un po’ più piccola del Sole (0,82 M☉) a 370 a.l. dalla Terra.

A prima vista PDS 70 è soltanto una delle miriadi di stelline che un qualsiasi buon telescopio nell’emisfero australe permette di vedere. Ma  in realtà è molto di più: essa è una stella nata da pochissimo, appena tra i 6 e i 10 milioni di anni ed è abbastanza vicina da permettere di studiare cosa accade in quel particolare momento, ovvero come si forma un sistema planetario. 
Già nel 1992 i dati del satellite IRAS[3] suggerivano PDS 70 come candidata ospite di un disco planetario, poi scoperto nel 2006.
Nel 2012 la svolta:  una regione vuota a circa 65 U.A. dalla stella suggerivano che lì si stava forse formando un pianeta [4] tra le 30 e le 50 volte Giove.
Successive osservazioni [5] hanno rivisto e corretto le prime stime confermando però la presenza di strutture protoplanetarie multiple: intorno a quella debole stellina si stavano formando più pianeti!

Lo studio con SPHERE: PDS 70b

Questa immagine, catturata dallo strumento SPHERE installato sul VLT (Very Large Telescope) dell’ESO, è la prima chiara fotografia di un pianeta nel momento in cui si sta formando; in questo caso intorno alla stella nana PDS 70, nella costellazione australe del Centauro. Il pianeta si distingue nitidamente; è il punto brillante alla destra della stella adeguatamente oscurata da un coronografo, una maschera che blocca la luce accecante della sorgente principale. Credit: ESO/A. Müller et al.

Quindi questa è per sommi capi la storia di PDS 70, una stellina di classe spettrale K5-K7 12, distante appena 370 anni luce — praticamente dietro l’angolo — e molto giovane (a quell’epoca sulla Terra le prime scimmie antropomorfe si preparavano a conquistare il mondo: i nostri antenati).
E adesso, grazie allo strumento SPHERE installato sul VLT (Very Large Telescope) dell’ESO, è stato finalmente possibile osservare il primo pianeta mentre è ancora nella fase della sua formazione [6] e di distinguere spettroscopicamente la sua probabile atmosfera [7].
Il pianeta, chiamato PDS 70b, appare mentre si sta aprendo la strada nel disco primordiale di gas e polvere intorno alla giovanissima stella a circa 3 miliardi di chilometri da questa (circa 20 U.A.), più o meno la distanza che separa Urano dal Sole con un periodo orbitale di 119 anni. Data la distanza e il periodo di rivoluzione non è stato difficile risalire alla stima della sua massa, che appare così di circa 10 masse gioviane.

Atmosfera protoplanetaria

Lo spettro di PDS 70b alla base delle simulazioni della sua atmosfera. Per una migliore comprensione leggere lo studio al riferimento 6 di questo articolo.

Ma non solo.  Grazie a SPHERE è stato possibile intercettare lo spettro di PDS 70b — che appare decisamente rosso, e stimare così anche la sua temperatura: circa 1200 ± 200 gradi Kelvin. E sempre grazie allo spettro del protopianeta è stato possibile risalire attraverso modelli e simulazioni numeriche alla possibile atmosfera di  questo.

Conclusioni

Il primo esopianeta fu scoperto nel 1995, ossia più di vent’anni fa.  I primi esopianeti osservati erano enormi e di solito orbitavano attorno a stelle più piccole del Sole. Questo perché per gli strumenti di quell’epoca erano gli unici oggetti che era possibile intercettare con le osservazioni, tant’è che per un momento si credette che tutte le nostre teorie sulla formazione planetaria fossero sbagliate. Dopo arrivarono strumenti più sofisticati, pensati apposta per raccogliere l’immane sfida di osservare oggetti sempre più piccoli e più difficili da scrutare. E così anche le teorie sulla formazione planetaria partendo dalla frammentazione dei resti della nube che aveva generato la stella furono confermate. Oggi lo vediamo con PDS 70b grazie a strumenti sempre più sofisticati come SPHERE. Anche strumenti di calcolo  sempre più potenti permettono di risalire alla composizione chimica delle atmosfere esoplanetarie così come possiamo risalire alla composizione chimica delle nubi di Venere con un normale telescopio.
Tra vent’anni cosa potremmo scoprire partendo da queste premesse?

Alba cosmica

Appena tre  articoli fa avevo stimato in un paio di miliardi di anni a partire dal Big Bang l’intervallo di tempo ragionevole per il crearsi delle condizioni minime necessarie per lo sviluppo degli elementi chimici più pesanti dell’idrogeno (per gli astrofisici questi sono chiamati tutti metalli a prescindere del loro peso atomico) necessari alla vita come la conosciamo, che io per comodità qui su questo Blog ho sempre chiamato Vita con la maiuscola.
Ma forse mi sbagliavo, quelle condizioni potrebbero essersi sviluppate molto prima: almeno 2/3 di quel lasso di tempo: appena 250-500 milioni di anni dopo il Big Bang. Quella fu la prima, vera, alba del Cosmo? difficile dirlo per ora; certo è che la primissima generazione di stelle apparve molto, molto, presto.

Nella grande immagine a sinistra, le numerose galassie dell’ammasso galattico MACS J1149 + 2223. Le lenti gravitazionali del cluster hanno permesso di scoprire una galassia 15 volte più lontana: MACS 1149-JD. In alto a destra vediamo lo zoom della regione mentre MACS 1149-JD è in evidenza nel dettaglio in basso a destra. Credit: NASA / ESA / STScI / JHU

MACS1149-JD1 non è una galassia appena scoperta e nemmeno la più grande — è appena un centesimo della Via Lattea. Fu scoperta dai telescopi spaziali Hubble e Spitzer nel lontano 2012 grazie all’azione di  lensing gravitazionale mediato dall’ammasso di galassie MACS J1149.6+2223, nella costellazione del Leone. Ma è nota per essere tra le più distanti dell’Universo osservabile — ha un redshift z di 9.6. La luce che oggi osserviamo abbandonò quella lontana galassia circa 13.3 miliardi di anni fa, cioè circa 500 milioni di anni dopo il Big Bang ed è talmente stirata per effetto dell’espansione dell’Universo da essere visibile solo nell’infrarosso (redshift cosmologico).

Ma seppur notevole non è questa la notizia più clamorosa che coinvolge MACS1149-JD1 [8]: un team di astronomi hanno studiato la luce di questa minuscola e debolissima galassia con ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimetr Array)  e il VLT (Very Large Telescope) dell’ESO scoprendo così in essa il debole segnale dell’ossigeno ionizzato. Questo significa che nei suoi 500 milioni di anni era lì esistita una primissima generazione di grandi stelle che alla fine del loro ciclo vitale avevano cosparso il cosmo con le loro ceneri ricche di elementi pesanti tra cui l’ossigeno.
Già nel 2016 ALMA aveva permesso di scoprire tracce di ossigeno ionizzato in un altro oggetto del profondo cielo, la galassia SDXF-NB1006-2 [9], distante 13.1 miliardi di anni luce. Anche se la quantità di ossigeno allora rivelata risultava essere circa 10 volte meno di quella presente attualmente nella nostra galassia, in linea con quanto ci suggeriscono le simulazioni, indicava anche che l’intensa radiazione ultravioletta di quelle lontane stelle stava ionizzando una enorme quantità di gas, ben più di quanto ci si aspetterebbe se  la quantità di polvere e di carbonio fosse in linea con le proporzioni osservate dell’ossigeno. In pratica non c’era per SDXF-NB1006-2 quell’estinzione della componente ultravioletta che ci si sarebbe aspettato.
Ora MACS1149-JD1, oltre a spostare ancora più indietro nel tempo la presenza di ossigeno nell’Universo e di conseguenza la generazione stellare che l’ha creato, potrebbe contribuire a spiegare se la carenza di polveri era una caratteristica di quella lontana epoca oppure no.

SPHERE celesti

Using the ESO’s SPHERE instrument at the Very Large Telescope, a team of astronomer observed the planetary disc surrounding the star RX J1615 which lies in the constellation of Scorpius, 600 light-years from Earth. The observations show a complex system of concentric rings surrounding the young star, forming a shape resembling a titanic version of the rings that encircle Saturn. Such an intricate sculpting of rings in a protoplanetary disc has only been imaged a handful of times before. The central part of the image appears dark because SPHERE blocks out the light from the brilliant central star to reveal the much fainter structures surrounding it.

Se poteste tornare alla lontana epoca della formazione del Sistema Solare, quasi  5 miliardi di anni fa, ecco cosa vedreste.
Questo è quello che invece vediamo noi oggi, qui sulla Terra, guardando verso  WRAY 15-1443 [10], una giovanissima (5-27 milioni di anni) stellina di classe K5 distante circa 600 anni luce. Essa è parte di un filamento di  materia nebulare nelle costellazioni australi del Lupo e lo Scorpione insieme a decine di  altre stelline altrettanto giovani. È il medesimo scenario che vide la nascita del nostro Sole.
Noi vediamo il disco protoplanetario ancora come è durante la formazione dei pianeti e prima che i venti stellari della fase T Tauri lo spazzassero via, È un disco caldissimo e denso, con una consistenza è una plasticità più simili alla melassa che alla polvere che siamo soliti vedere qui sulla Terra. Qui le onde di pressione e i fenomeni acustici giocano un ruolo fondamentale nella nascita dei protopianeti creando zone di più alta densità e altre più povere di materia. E questa immagine ce lo dimostra chiaramente.

SPHERE. Credit: ESO

Lo strumento di cattura della luce polarizzata ad alto contrasto SPHERE.

Credit: ESO

Se oggi quindi possiamo ben osservare i primi istanti della formazione di un sistema solare questo lo dobbiamo a SPHERE (Spectro-Polarimetric High-contrast Exoplanet REsearch instrument) [11] [12]: uno strumento concepito proprio per catturare l’immagine degli esopianeti e dei dischi protoplanetari come questo.
L’ostacolo principale per osservare direttamente un esopianeta lontano è che la luce della sua stella è così forte che sovrasta nettamente la luce riflessa di questo: un po’ come cercare di vedere una falena che vola intorno a un lampione da decine di chilometri di distanza. Lo SPHERE usa un coronografo per bloccare la regione centrale della stella per ridurne il bagliore, lo stesso principio per cui ci pariamo gli occhi dalla luce più intensa per scrutare meglio. E per restare nell’ambito degli esempi, quando indossiamo un paio di lenti polarizzate per guidare o andare sulla neve, lo facciamo perché ogni luce riflessa ha un suo piano di polarizzazione ben definito e solo quello; eliminandolo con gli occhiali questo non può più crearci fastidio. Ma SPHERE usa questo principio fisico al contrario: esalta la luce polarizzata su un piano specifico e solo quella, consentendoci così di vedere particolari che altrimenti non potremmo mai vedere.

HARPS. Credit: ESO

Lo strumento per il rilevamento delle velocità radiali HARPS.

Credit: ESO

Oggi grazie a SPHERE e al team che l’ha ideato e costruito la ricerca astrofisica europea può vantare anche questo tipo di osservazioni che si sarebbe supposto essere di dominio della sola astronomia spaziale. E invece strumenti come HARPS[13] e HARPS-N alle Canarie consentono di scoprire sempre nuovi pianeti extrasolari, e ora SPERE ci aiuta a vederne pure alcuni.

 

Kilonova

No, una kilonova non è è una nova che si vende al mercato un tanto al chilo come si fa con le aringhe. E neppure è una miniera d’oro come alcuni roboanti titoli delle scorse ore, quelle seguenti l’annuncio della scoperta della prima controparte ottica di una sorgente di onde gravitazionali — anche questo è un termine alquanto impreciso in quanto tutti gli oggetti dotati di una grande massa che si muovono nello spazio in qualche modo lo sono —  hanno cercato di sottolineare. È un altro tipo dei tanti eventi violenti dell’Universo, ma solo un migliaio di volte, da qui il nome appunto di kilonova, di una nova comune.

Rappresentazione artistica dei resti di una kilonova. In giallo il nome di alcuni degli elementi prodotti dalla sintesi per cattura neutronica veloce che popolano la nebulosa finale. Tra parentesi il loro numero atomico. Credit: Il Poliedrico

L’Universo è una fonte inesauribile di meraviglie e di cose altrettanto grandiose. Dal pacato vuoto intergalattico alle possenti forze di un buco nero, dal flebile canto dell’atomo di idrogeno al cozzare di galassie in un balletto che dura milioni di anni. E in mezzo a tutto questo ci sono miriadi di fenomeni che ancora ci sono per la gran parte ignoti e che soltanto negli ultimi anni con l’avvento delle tecnologie radio e satellitari abbiamo imparato a vedere.
Ora alla pletora di strumenti che usiamo per scrutare il cosmo se n’è aggiunto un altro: l’interferometria gravitazionale. Per ora sono soltanto tre strumenti, due negli USA, a Hanford, Washington, e a Livingston, Louisiana che formano il complesso interferometrico LIGO, e l’altro è Virgo, a Cascina (PI), frutto di una collaborazione italo-francese (ad appena 83 chilometri da dove sono ora).

Un po’ di storia

Ma partiamo dall’inizio, come piace a me.
I primi evidenti segni che qualcosa ancora mancava al quadro generale dell’Universo, era che nonostante fosse stato compreso come si formassero gli elementi più pesanti dell’idrogeno — quelli che gli astrofisici apostrofano come metalli: carbonio, ossigeno, ferro, uranio, etc. — [14] era comunque difficile comprendere le quantità relative di alcuni elementi più pesanti del ferro che, come ho narrato nello scorso articolo sulle supernove [15], non sono prodotti dalla normale attività di fusione nucleare di una stella ma per cattura neutronica quando questa esplode 1. Doveva esserci quindi qualche altro processo cosmico ancora sconosciuto che ricorresse alla cattura neutronica veloce (r-process) al di fuori delle supernove comuni per giustificarne le quantità osservate.
Intanto si erano scoperti anche i lampi di raggi gamma (Gamma Ray Burst o GRB), i più violenti fenomeni dell’intero Universo, capaci di sterilizzare interi mondi a una distanza di migliaia di anni luce [16].
Si è scoperto che questi eventi, che di solito durano da qualche secondo a qualche minuto mentre la loro energia luminosa decade verso frequenze più basse come raggi X, ultravioletto, visibile, etc., sono di solito associati a eventi di supernova mentre questa decade verso una stella di neutroni o un buco nero. I precursori più probabili per emettere un lampo gamma finale sono le stelle molto massicce come le Wolf-Rayet: η Carinae e WR 104 sono le nostre più vicine (entrambe tra i 7500 e gli 8200 anni luce, per nostra fortuna).
Ma ci sono anche GRB molto più rapidi, dell’ordine di un paio di secondi o meno. Questi sono difficili da spiegare con lo stesso meccanismo delle supernove, eppure sono capaci di rilasciare lo stesso energia sulla scala delle loro galassie ospiti nell’arco di pochissimi secondi. Una plausibile spiegazione a questi fenomeni parossistici arrivò nel 2007 coi lavori di  Benjamin P. Abbott del LIGO – Caltech [cite]https://arxiv.org/abs/0709.0766[/cite] che ipotizzò essere generati dalla fusione di due stelle di neutroni o tra una stella di neutroni e un buco nero.

Kilonova

Queste immagini furono scattate dal NASA Hubble Space Telescope il 13 giugno e poi il 3 luglio 2013 e rivelano un nuovo tipo di esplosione stellare prodotta dalla fusione di due oggetti compatti: due stelle di neutroni o una stella di neutroni e un buco nero. Credit: NASA, ESA, N. Tanvir (Università di Leicester) e A. Fruchter, Z. Levay (Space Telescope Science Institute), A. Levan (Università di Warwick)

Una teoria interessante che trovò la prima conferma quando il 3 giugno del 2013  il telescopio per raggi  gamma Swift intercettò un evento che durò poco meno di due secondi proveniente da una galassia a 4 miliardi di anni luce, GRB130603B. In seguito, il 13 giugno, l’Hubble Telescope registrò nello stesso posto una sorgente  infrarossa in decadimento. L’analisi spettrale della sorgente mostrava una inusuale abbondanza di elementi chimici più pesanti del ferro tipici di un processo di cattura neutronica rapida r-process 2 rispetto agli altri spettri usuali di supernova.
Quando due stelle di neutroni finiscono per fondersi parte della loro energia cinetica si disperde sotto forma di increspature dello spazio-tempo, ossia onde gravitazionali allo stesso modo del merging di due buchi neri come già VIGO era riuscito a rilevare in passato e a quelle rilevate col GW170817 [17]. Un’altra parte invece viene assorbita dai due oggetti che sì disintegrano disperdendo così una buona parte della loro massa. È qui, nel materiale espulso che avvengono le reazioni di cattura neutronica: in pratica un immenso guscio di neutroni ancora ad altissima densità e temperatura (ρ > 3 x1011 gm/cm3 e T > 9×109 K) in cui le reazioni di nucleogenesi fino ad allora inibite dalla possente gravità delle precedenti stelle di neutroni riprendono vigore [cite]https://arxiv.org/abs/1105.2453[/cite]. 
In una kilonova quindi il processo di nucleogenesi per cattura neutronica rapida pare essere la principale reazione nucleare presente. Tale reazione consente la formazione di nuovi elementi più pesanti del ferro, ed è pertanto una reazione che assorbe energia dal sistema (reazione endotermica), raffreddandolo. Per questo appare debole come flusso elettromagnetico, da un decimo a un centesimo rispetto a una normale supernova; una parte assai importante dell’energia viene assorbita dalla creazione di elementi pesanti attraverso l’unico processo possibile: la cattura nucleare di altri neutroni. Il raffreddamento del materiale eiettato aumenta in modo drammatico l’opacità dell stesso spostando di conseguenza l’emissione radiativa principale verso frequenze sempre più basse piuttosto in fretta. Per questo l’Hubble Telescope non poté che registrare che il 3 luglio 2013, dopo appena un mese dal lampo gamma GRB130603B, l’evento era quasi scomparso anche dalla banda dell’infrarosso.

Il processo-r

Il reazioni di nucleogenesi per cattura neutronica rapida che danno origine a nuclei atomici più pesanti del ferro (u > 55) sono endotermiche, assorbono cioè energia all’ambiente dove avvengono. In una supernova esse sono responsabili della perdita di equilibrio della stella che finisce così per esplodere. Dal momento dell’esplosione, la densità neutronica della stella decresce rapidamente così che queste reazioni cessano abbastanza in fretta.  Inoltre i processi di fotodisintegrazione causati dai fotoni più energetici che colpiscono i nuclei più instabili estinguono la produzione di atomi pesanti altrettanto rapidamente. 
Nel caso di fusione di due stelle di neutroni invece la densità energetica dei fotoni è alquanto minore mentre la densità dei neutroni liberati nell’evento è molto più grande rispetto a un normale evento di supernova di tipo II (T ≥ 1,2 x 109 K e nn > 1 x 1022 cm-3).  Qui processi di cattura neutronica sono molto più importanti e anche il decadimento beta che spinge i nuclei più instabili verso la formazione di atomi più stabili ha più tempo per prodursi prima che intervengano i processi di fotodisintegrazione. 
La sottrazione di energia dal sistema è anch’essa molto importante perché pone un limite minimo al di sotto del quale comunque le reazioni di cattura neutronica cessano. Una volta cessata la produzione di nuclidi instabili ricchi di neutroni, è il decadimento radioattivo di questi a dominare la scena della nebulosa creatasi dopo il merging dei due corpi originali.

Conclusioni

L’ultimo evento scoperto, GW170817 è il secondo caso ormai accertato di una kilonova.  La rilevazione delle onde gravitazionali prodotte durante l’evento di coalescenza fissa drammaticamente un limite alle masse delle stelle di neutroni coinvolte e questo permette così di studiare più in dettaglio questo genere di fenomeni e le reazioni nucleari che lo governano.
Un altro importante traguardo è stata la stima della differente velocità delle onde gravitazionali rispetto alle onde elettromagnetiche su un percorso di ben 130 milioni di anni luce: 1,7 secondi a vantaggio delle prime. Dal punto di vista cosmologico questo è un grande risultato che spazza via tante teorie che puntavano a modificare la gravità pur di eliminare il problema della materia oscura. Ma questo potrà essere argomento di un’altra storia.

Supernova

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La struttura interna di una stella massiccia al momento del collasso. In effetti somiglia a una cipolla. Gli strati non sono in scala ma servono a rendere l’idea.

Credit: Wikipedia.

Essenzialmente le stelle sono il prodotto di equilibrio tra la spinta  del collasso gravitazionale di una nube di idrogeno e la pressione di radiazione fornita dalle fusioni nucleari di tale elemento che contrasta la spinta. Fino a circa 8 masse solari le stelle termineranno la loro vita con lenti e misurati sbuffi nello spazio arricchendo il cosmo di tutti quegli elementi così tanto preziosi alla vita: carbonio, azoto, ossigeno e tanto elio. Quelle più grandi invece saranno le protagoniste dei più possenti fuochi d’artificio cosmici che potreste immaginare. Immani esplosioni, chiamati supernova, sono capaci di rendere sterili i pianeti di sistemi stellari distanti decine di anni luce e ferendo gli altri per centinaia [cite]https://arxiv.org/abs/1605.04926[/cite] [cite]https://arxiv.org/abs/astro-ph/0309415[/cite]. Solo meno del 8% delle stelle della Via Lattea possiede una così grande massa e di queste solo una minuscola frazione possiede una massa sopra le 25 masse solari [cite]https://ilpoliedrico.com/popolazioni-stellari-della-via-lattea[/cite]. Come si formino stelle massicce anche 100-120 volte la massa del Sole è rimasto e rimane un rebus difficile da comprendere e spiegare. Idealmente la nube stellare che collassa dovrebbe venir soffiata via subito dopo che la stella si sia accesa al suo centro e invece questo non sempre accade. Una combinazione di opacità della nube alla radiazione della protostella, magnetismo, composizione – le stelle meno ricche di metalli tendono ad essere più massicce – e momento angolare possono suggerire come si formino questi giganti del cosmo.
I tipi di supernova si dividono essenzialmente in due grandi categorie perché i meccanismi di innesco sono due e profondamente diversi tra di loro. Il modo più semplice ed immediato per distinguerle è osservare se nello spettro dell’esplosione è presente dell’idrogeno o meno. Se questo non è presente, allora stiamo osservando una supernova di tipo I, altrimenti siamo di fronte a un episodio di tipo II 1.
Non è una distinzione da poco, questa differenza indica che le origini della supernova sono totalmente dissimili; anche se l’evento parossistico è simile. Nel primo caso la causa scatenante è dovuta all’accrezione di una stella degenere (nana bianca o stella di neutroni)  a scapito della sua compagna in un sistema stellare doppio o multiplo: quando la massa della prima raggiunge il limite di Chandrasekhar (1,4 M, nella realtà l’evento supernova si scatena un attimo prima a causa della rotazione della stella degenere) 2 avviene l’esplosione, Per questo le righe dell’idrogeno della serie di Balmer non appaiono. Nel secondo caso, il più frequente ma il meno narrato nel dettaglio, è dovuto al collasso gravitazionale di una stella massiccia almeno 8 volte il Sole.
Essendo pur sempre fenomeni spettacolari, le supernovae tra le 8 e le 25 masse solari danno origine a esplosioni relativamente più deboli, mentre superata la soglia delle 25 M l’esplosione è qualcosa di veramente impressionante [cite]http://dx.doi.org/10.1016/S0375-9474(97)00289-3[/cite] [cite]https://arxiv.org/abs/astro-ph/9701131[/cite] [18] [ [19]. Cercherò ora di raccontarla.

  • – 5 830 000 anni  – Sequenza principale – (HHe)

Si accende la stella. La sua composizione chimica è assai simile a quella del Sole; solo la massa è 25 volte più grande. Il nucleo è enorme, quasi 13 masse solari sono coinvolte nella fusione dell’idrogeno. Il processo di fusione principale è la catena CNO. Nelle stelle sopra le 15 masse solari il nucleo è interamente convettivo, questo spiega perché almeno metà della massa della stella è coinvolta attivamente nel processo di fusione nucleare.  La temperatura nel nucleo raggiunge i 58 milioni di kelvin per una densità di soli 5 grammi per centimetro cubico. Non molti, quasi quanto quello della Terra. Nella sua breve permanenza nella sequenza principale la stella cresce in luminosità e dimensioni. Quando la percentuale di idrogeno nel nucleo diventa infinitesimale (meno di 6 atomi di idrogeno su 100 mila atomi di elio) la fusione principale si sposta sempre più verso un guscio più esterno raggiungendo la sua massima estensione in appena diecimila anni. Il nucleo di elio è 7 volte più grande del Sole mentre la massa interessata delle reazioni nucleari dell’idrogeno è di ben 14,5 masse solari. Intanto il vento stellare soffia via circa  5  miliardesimi di massa solare all’anno, aumentando di dieci volte di intensità verso la fine del periodo.

  • – 677 000 anni  – Supergigante blu – (HeCO)

Negli ultimi diecimila anni di vita nella sequenza principale la pressione radiativa esercitata dalla sola fusione dell’idrogeno non basta più a contrastare il peso della stella e la forza gravitazionale la contrae verso il suo centro. La stella abbandona così la sequenza principale. Il suo nucleo di elio raggiunge  232 milioni di gradi per una densità di 700 gr/cm3 sovrastato da uno strato dove ancora si fonde idrogeno. Sotto la nuova spinta radiativa la stella si espande di nuovo e diventa una supergigante. Parte del suo strato più esterno viene disperso nello spazio e soffiato via, mentre il vento stellare si fa via via più poderoso. Inizia così il bruciamento dell’elio nel nucleo. Il prodotto finale è un nucleo di carbonio (12C) e ossigeno (16O) di poco più di 5 masse solari e l’inizio della degenerazione degli elettroni, il che per poco aiuta a sostenere il peso della stella. Ma non basta.

  • – 1000 anni – Supergigante – (CNeO)

Anche l’elio del nucleo è infine esaurito. Ne rimane un tenue strato in fusione sopra un nocciolo convettivo di carbonio e ossigeno. negli ultimi 200 anni di bruciamento dell’elio riprende la contrazione della stella finché la temperatura della fucina stellare arriva a 930 milioni di gradi  per 200 kg/cm3 di densità.  La natura convettiva dell’interno della stella fa sì che tutto sia continuamente mescolato; è così che parte degli atomi più pesanti prodotti nel nucleo raggiungono la superficie per essere poi persi nello spazio in un altro sbuffo di materia. Mentre l’intensità del vento stellare aumenta ancora, il processo di perdita importante di materia si ripeterà ogni volta che si riavvia il poderoso braccio di ferro tra gravità e pressione energetica rilasciata dalle reazioni termonucleari.

  • – 200 anni – Supergigante – (NeO)

Negli ultimi 80 anni del ciclo precedente tutto sembra ripetersi sempre più furiosamente, contrazione, perdita di altra massa stellare e così via. La temperatura nel sempre più piccolo nucleo di neon e ossigeno grande una volta e mezza il Sole sale fino a 1.75 miliardi di gradi per 4 tonnellate per centimetro cubico. Intanto, gusci concentrici al nucleo continuano a bruciare carbonio e elio, ma sono ormai quasi esausti.

  • -9 mesi – Supergigante gialla – (OSSiAr)

Un nuovo parossismo scuote il centro della stella. Nei suoi ultimi mesi di vita la temperatura del nucleo arriva a 2.32 miliardi di gradi per 10 t/cm3 riuscendo a fondere l’ossigeno in un nocciolo di zolfo, silicio e argon mentre il vento stellare continua furiosamente ad espellere massa al feroce ritmo di 5 decimillesimi di masse solari all’anno, quasi 170 volte la massa di Giove.

  •  -1 giorno – Supergigante gialla – (SiFe)

Ormai le temperature e pressioni al centro della stella sono del tutto fuori controllo. 4 miliardi di gradi per 30 tonnellate per centimetro cubico fondono anche il nocciolo di silicio grande 1.1 volte il Sole.
Dal bruciamento del silicio hanno origine gli isotopi del silicio  (30Si – 0.187 M), dello zolfo (34S – 0.162 M) e del cromo  (52Cr – 0.113 M). Ma soprattutto tanto ferro (56Fe – 0.547 M) e cromo (52Cr – 0.251 M).  A 100 milioni di tonnellate/cm3 anche i neutroni degenerano. Il nocciolo ha ormai raggiunto quasi 7 miliardi di gradi e 3000 tonnellate per centimetro cubico di densità. è in realtà un nucleo di materia ormai degenere.
Negli ultimi 40 minuti solo un tenue guscio di silicio e la resistenza alla compressione degli elettroni degeneri trattiene la stella dall’inevitabile catastrofe.

  • – 0,25 secondi – Il collasso finale

Finalmente la gravità pare vincere sulle reazioni termonucleari che hanno sostenuto la stella per quasi 6 milioni di anni. La stella collassa su sé stessa alla tremenda velocità di 50 mila chilometri al secondo, un sesto della velocità della luce. Sotto questa immane pressione, 100 milioni di tonnellate per centimetro cubico e  quasi 35 miliardi di gradi, i nuclei dell’elemento ferro interagiscono con gli elettroni degeneri: i protoni si fondono con gli elettroni convertendosi in neutroni generando anche una cascata di neutrini. Il nucleo ormai è in immenso neutrone di appena 40 chilometri di diametro. Ne consegue che la materia che cade sul nucleo di neutroni anelastico rimbalza via praticamente alla stessa velocità del collasso scontrandosi con la parte della materia ancora in caduta libera. Lo shock provoca processi di disintegrazione e rifusione per cattura neutronica di elementi più pesanti del ferro che assorbono energia. L’energia così dissipata è paragonabile a quella emessa dalla stella nei suoi quasi 6 milioni di anni di vita. Dietro lo shock i protoni tornano a legarsi con gli elettroni producendo un flusso di neutrini energetici, i quali rappresentano una grande percentuale dell’energia rilasciata nel crollo della stella.
Intanto il nucleo in collasso diventa opaco ai neutrini che possono diffondersi così solo per scattering, analogamente ai fotoni emessi dalla stella fino a pochi attimi prima. Come per una stella esiste la fotosfera, cioè dove la stella diventa trasparente alla radiazione elettromagnetica, così si può parlare di neutrinosfera dove la densità del nucleo di neutroni diventa abbastanza bassa da consentire la fuga dei neutrini. L’onda d’urto che si infrange sul nucleo è causa di una convezione instabile che converte l’energia termica intrappolata nel nucleo in energia cinetica trasportata dai neutrini intrappolati. Questo processo raffredda il nucleo di neutroni fino a poche decine di milioni di gradi in pochi secondi mentre parte dell’energia cinetica dei neutrini (circa lo 0,3% sembra niente ma è pur sempre una quantità spaventosa di energia) viene assorbita e dispersa dagli strati coinvolti nello shock di rimbalzo contribuendo anch’essa all’esplosione finale.

  •  I resti

Relazione di massa iniziale e finale per le stelle di composizione solare. La linea blu indica la massa stellare dopo il bruciamento del nucleo di elio. Per M ~ > 30 M⊙ il nucleo di elio è esposto come una stella WR, la linea tratteggiata offre due diversi scenari dipendenti dall’incertezza dei tassi di perdita di massa WR. La linea rossa indica la massa del residuo stellare compatto, risultante dalla perdita di massa AGB per le stelle di massa intermedia, e l’espulsione dell’ involucro nel casa del collasso del nucleo per le supernova delle stelle più massicce. Le aree verdi indicano la quantità di massa espulsa che è stata processata dalla combustione dell’elio e dalla combustione nucleare più avanzata. (Figura da Woosley et al. 2002).

Quel che resta del nucleo dipende dalla sua massa finale dopo lo shock [20]. E questo è funzione della metalliticità iniziale della stella e della massa finale del nucleo. Il caso delle 25 M per una stella di composizione simile al Sole è un caso limite fra un residuo di neutroni e un buco nero anche se qui il primo caso è da preferirsi.
Se l’inviluppo di idrogeno è ancora importante la sua ricombinazione dallo stato ionizzato fornisce altra energia che diventa sempre più visibile man mano che nel processo di espansione diventa più sottile e freddo. Comunque la ricombinazione ovviamente interessa anche gli elementi più pesanti quando vengono raggiunte temperature e densità adeguate dalla materia espulsa dalla supernova. È questo fronte di ricombinazione che produce il plateau nella curva di luce che verrà osservata nei mesi successivi all’esplosione.
Nella fase finale la curva di luce della supernova è dominata dai processi di decadimento radioattivo degli isotopi prodotti dall’esplosione, soprattutto il nichel (56Ni  + e56Co + ν + γ   τ½ = 6.1 giorni) e il cobalto (56Co + e56Fe + ν + γ   τ½ = 77 giorni) verso il ferro. Anche il decadimento di altri isotopi meno diffusi e con tempi di decadimento diversi contribuisce a suo modo alla curva di luce.

Per alcuni mesi, il bagliore incandescente dei resti della supernova è quanto quello di un centinaio di miliardi di stelle come il Sole, più o meno quanto quello della galassia ospite. Poi, pian piano, il bagliore scema, ma può comunque essere ancora un centinaio di milioni più intenso della nostra stella. Dopo l’esplosione il nucleo di neutroni è quel che rimane della grande stella. La sua massa supera di poco quella del Sole compressa in uno spazio di una ventina di chilometri di diametro che ruota su sé stesso almeno dieci volte al secondo: una stella di neutroni. Anche il momento magnetico dell’antica stella è compresso nel piccolo nocciolo dando origine a un campo magnetico 100 miliardi di volte più intenso di quello terrestre. Nella pratica il resto si comporta come un’enorme dinamo celeste che cattura gli elettroni rimasti ancora liberi e li accelera fino quasi alla velocità della luce. Questo produce luce. Luce che illumina i resti della supernova in espansione come le comuni stelle illuminano le nebulose planetarie. Lo spettacolo non dura molto perché sottrae energia cinetica alla stella di neutroni che rallenta; ci vogliono circa 25 mila anni ma anche questo infine ha termine.

Mentre ho volutamente tralasciato da questa cronaca alcune cose che ritengo essere di secondo interesse per il lettore, altre magari mi sono senz’altro sfuggite per mia disattenzione.
Le cifre che ho riportato sono frutto di calcoli basati sui modelli attuali e pertanto sono da considerarsi solamente indicative della scala dei reali valori in gioco per una stella di 25 M.
Non ho altro da aggiungere se non … cieli sereni!

L’ampiezza di una zona Goldilocks

Questo articolo nasce in seno alla preparazione del materiale di studio per lo stage per i finalisti delle Olimpiadi di Astronomia 2016 presso l’INAF-Osservatorio Astrofisico di Asiago due lezioni, tra le tante, dedicate interamente ai pianeti extrasolari. Sabrina Masiero e il sottoscritto hanno studiato e rivisto i calcoli, più volte, perciò fidatevi!

goldilocksOgni volta che sentiamo parlare della scoperta di qualche nuovo pianeta in orbita attorno a qualche stella, viene spontaneo chiederci se esso può ospitare una qualche forma di vita. La vita come la conosciamo ha bisogno di acqua allo stato liquido per poter esistere, e poter stabilire i limiti dove questo è possibile è di notevole importanza. Questa zona è chiamata Goldilocks o Riccioli d’Oro 1 perché ricorda la bambina della favola, Goldilocks appunto, quando deve scegliere tra le tre ciotole di zuppa, quella che non sia né troppo calda né troppo fredda, giusta.
Calcolare le dimensioni e ‘estensione della fascia di abitabilità di una stella ci permette di capire quanto debba essere grande l’orbita di un pianeta per essere potenzialmente in grado di sostenere la vita.
Per comodità di calcolo verranno qui usati i parametri del nostro Sistema Solare ma conoscendo il flusso energetico (ossia la temperatura superficiale) di una qualsiasi stella e il suo raggio, allora sarà possibile usare questi nei calcoli che qui presentiamo purché si usino le stesse unità di misura.

  • Temperatura superficiale del Sole T 5778 Kelvin
  • Raggio del Sole in unità astronomiche R 6,96×1005km1,496×1008km=4,652×1003AU
  • Distanza dal Sole in unità astronomiche a
  • Albedo del pianeta A (nel caso della Terra è 0,36)
Credit: Il Poliedrico

Credit: Il Poliedrico

Come spiegato anche nell’illustrazione qui accanto il flusso luminoso, e quindi ovviamente anche la temperatura, obbedisce alla semplice legge geometrica dell’inverso del quadrato della distanza.
La luminosità di una stella non è altro che la quantità di energia emessa per unità di tempo e considerando una stella come un corpo nero perfetto, si trova che L=4πR2σT4, dove σ è la costante di Stefan-Boltzmann.
Pertanto un pianeta di raggio Rp in orbita alla distanza a dalla sua stella di raggio R riceve una certa quantità di energia che riemette nello spazio come un corpo nero e raggiungendo perciò un equilibrio termico con il flusso di energia ricevuto. πRp24πa2=(Rp2a)2
Il pianeta offre solo metà di tutta la sua superficie alla stella (2πRp2), per questo si è usato questa forma, perché il flusso intercettato è pari alla sezione trasversale del pianeta (πRp2), non tutta la sua superficie, mentre invece tutta la superficie del pianeta, quindi anche la parte in ombra, è coinvolta nella riemissione di energia (4πRp2).
Una parte del’energia ricevuta dal pianeta viene riflessa comunque nello spazio in base al suo indice di riflessione (fosse idealmente bianco la rifletterebbe tutta così come se fosse idealmente nero l’assorbirebbe tutta); questo indice si chiama albedo A e varia di conseguenza tra 1 e 0. La forma “1A” consente di stabilire quanta energia è quindi assorbita da un pianeta: (1A)×4πR2σT2×(Rp2a)2

Semplificando il tutto e eliminando per un attimo anche la superficie della sezione trasversale del pianeta, quasi insignificante come contributo al calcolo, si raggiunge questo risultato: Teq4=(1A)T4(R2a)2 Teq=(1A)1/4T(R2a)
Se usassimo questi valori per la Terra usando come è stato detto le lunghezze espresse in unità astronomiche otterremo: Teq=(10,36)1/45778(4,625×100321)=249K

Purtroppo non è dato sapere a priori l’albedo di un qualsiasi pianeta, esso varia infatti col tipo e composizione chimica dell’atmosfera e del suolo di un pianeta, per questo può risultare conveniente omettere il computo dell’albedo nel caso di un calcolo generale senza per questo inficiarne nella bontà, un po’ come è stato fatto anche per la superficie del pianeta prima. Così la formula può essere riscritta più semplicemente come Teq=T(R2a)
Se ora volessimo calcolare entro quale intervallo di distanza dalla stella vogliamo trovare un certo intervallo di temperatura potremmo semplicemente fare l’inverso per aver il risultato espresso in unità astronomiche:a=12(TTeq)2R

Diagramma di fase dell'acqua. La possibilità dell'acqua di rimanere allo stato liquido a pressioni molto elevate le consente di svolgere il ruolo di lubrificante delle placche continentali. Fonte dell'immagine: Wikipedia.

Diagramma di fase dell’acqua in ordine alla temperatura e pressione.
Fonte dell’immagine: Wikipedia.

Per trovare un intervallo di temperature compreso tra 240 K e 340 K nel Sistema Solare dovremmo andare tra i 1,35 e 0,67 AU.
Perché ho usato questo strano intervallo di temperature pur sapendo che alla pressione canonica di 1 atmosfera l’acqua esiste allo stato liquido tra i 273 e i 373 K?
Semplice 2! Ogni pianeta possiede una sua atmosfera (ce l’ha anche la Luna anche se questa è del tutto insignificante) che è in grado di assorbire e trattenere calore, è quello che viene chiamato effetto serra. L’atmosfera della Terra ad esempio garantisce a seconda dei modelli presi come riferimento da 15 a 30 e più gradi centigradi di temperatura in più rispetto alla temperatura di equilibrio planetario, consentendo così all’acqua di essere liquida pur restando ai margini superiori della zona Goldilocks del Sole.

Aggiornamento

Non riporterò questo aggiornamento di stato nel sito Tutti Dentro dove questo articolo è uscito in contemporanea a qui. Questa aggiunta è mia e me ne assumo ogni responsabilità verso i lettori per quello che sto per scrivere.

[table id=70 /]

Forse non è stato compreso bene che nonostante il ruolo dell’albedo sia importantissimo nel calcolo esatto per stabilire se una precisa orbita cade all’interno di una zona Goldilocks, esso purtroppo è un dato che non è possibile stabilire per adesso nel caso dei pianeti extrasolari. Si possono considerare un ampio spettro di possibilità, diciamo tra un albedo di 0,99 e 0,01, indicare un valore medio tra questi due oppure scegliere tra uno de valori che sono suggeriti in questa tabella o oppure ancora si può scegliere di non usare affatto l’indice albedo in questa fase di calcolo, come ho fatto deliberatamente io in questa fase. Dopotutto si deve stabilire un discreto intervallo di possibili orbite di un pianeta di massa non bene definita su un ampio intervallo di possibili temperature di equilibrio attorno ad una stella lontana.
Prendiamo ad esempio il Sistema Solare visto da una manciata di parsec e si supponga fosse stato possibile identificare sia Venere che la Terra, di conoscere la loro distanza e il loro  albedo.
Applicando l’equazione sprovvista del computo dell’albedo qui sopra (12(TTeq)2R) , essa restituisce una temperatura di equilibrio, che per Venere sappiamo essere di  253 kelvin, di 327  K, ma che corretta per l’albedo, ossia: a=12(TTeq)2R1A dà esattamente il valore corretto. Un errore del 29% in più ma che per albedo inferiori tende quasi ad annullarsi.
Un altro metodo che era stato proposto e fatto passare come l’unico valido a=1A2R(TTeq)2 sembra esattamente equivalente allo stesso metodo corretto per l’albedo qui suggerito (12(TTeq)2R1A), ma si dimostra essere del tutto fallace se usato senza tenere conto dell’albedo; con lo stesso esempio precedente si arriva a definire la temperatura di equilibrio di Venere a 462 K, l’83% in più.

Sono piccolezze, è vero, e di solito non amo polemizzare – anche se qualcuno potrebbe pensare il contrario – e ammetto che non sono un gran genio nella matematica, di solito faccio dei casini enormi nelle semplificazioni (ma non in questo caso). Ma amo sperimentare, rifare i calcoli decine di volte prima di scriverli e pubblicarli, per cui quando lo faccio so che sono corretti e testati decine di volte come in questo caso.
Ho scelto di offrire il mio modesto aiuto a una cara amica per questo appuntamento e scoprire che presuntuosamente veniva affermato che questo lavoro era sostanzialmente errato non l’ho proprio digerito. Con questo  stupido esempio ho voluto mostrare la bontà di questo lavoro  che consente a scapito di un lieve margine di errore di poter essere usato anche senza tener conto dell’albedo di un pianeta; ho scelto Venere perché avendo l’albedo più elevata era quello che più avrebbe messo in difficoltà il procedimento descritto in questo articolo (se avessi usato la Terra avrei avuto un 12% a fronte di 58%).
Quindi il mio invito è quello di non raccattare formule a caso qua e là sulle pubblicazioni più disparate e spacciarle per buone senza averle prima provate, smembrate e ricomposte; qui l’errore è evidente, non serve molto per vederlo. Potreste dire poi delle castronerie che prima o poi si rivelano per quel che sono: ciarpame.

Materia oscura: e se fossero anche dei buchi neri?

Rotationcurve_3 Sappiamo che la materia oscura esiste nelle galassie, perché la curva di rotazione è piatta anche a grandi distanze dal centro della galassia. La "curva di rotazione" non è altro che un grafico di quanto velocemente le stelle di una galassia ruotano in funzione della loro distanza dal centro. La gravità predice che \(V = \sqrt (GM / R)\). La "M" indica tutta la massa che è racchiusa all'interno del raggio R. Una curva di rotazione è piatta quando la velocità è costante, cioè che in qualche modo \(M / R\) è costante. Quindi questo significa che come andiamo sempre più in una galassia, la massa è in crescita anche se pare che le stelle finiscano. La naturale conseguenza se le le leggi di gravitazione sono corrette è che allora deve esserci una qualche forma di materia che non vediamo. Anche altre osservazioni cosmologiche indicano l'esistenza della materia oscura e, sorprendentemente, predicono all'incirca la stessa quantità!

Sappiamo che la materia oscura esiste nelle galassie, perché la curva di rotazione è piatta anche a grandi distanze dal centro della galassia. La “curva di rotazione” non è altro che un grafico di quanto velocemente le stelle di una galassia ruotano in funzione della loro distanza dal centro. La gravità predice che V=(GM/R). La “M” indica tutta la massa che è racchiusa all’interno del raggio R. Una curva di rotazione è piatta quando la velocità è costante, cioè che in qualche modo M/R è costante. Quindi questo significa che come andiamo sempre più in una galassia, la massa è in crescita anche se pare che le stelle finiscano. La naturale conseguenza se le le leggi di gravitazione sono corrette è che allora deve esserci una qualche forma di materia che non vediamo. Anche altre osservazioni cosmologiche indicano l’esistenza della materia oscura e, sorprendentemente, predicono all’incirca la stessa quantità!

Finora – e credo che non lo sarà ancora per diverso tempo – la reale natura della materia oscura non è stata chiarita. Non sto ancora a ripetermi nello spiegare per filo e per segno come si sia arrivati a concludere che molta materia che percepiamo è in realtà una frazione di quella che gli effetti gravitazionali (curve di rotazione delle galassie) mostrano.
Se avete letto il mio articolo su quante stelle ci sono nella nostra galassia [cite]http://ilpoliedrico.com/2015/12/quante-stelle-ci-sono-nella-via-lattea.html[/cite] lì spiego che a concorrere alla massa totale di una galassia ci sono tante componenti barioniche (cioè composte da protoni e neutroni) più gli elettroni che non sono solo stelle. Ci sono anche corpi di taglia substellare, pianeti erranti, stelle degeneri e buchi neri di origine stellare, il risultato cioè della fine di enormi stelle  che dopo essere esplose come supernova hanno lasciato sul campo nuclei con una massa compresa tra le 3 e le 30 masse solari, tra i 9 e i 90 km di raggio. Questi oggetti non sono direttamente osservabili perché non emettono una radiazione rilevabile, ma i cui effetti gravitazionali sono ben visibili quando si studiano le quantità di moto di galassie e ammassi di queste rispetto al centro di gravità comune.
Obbiettivamente stimare la massa barionica non visibile di una galassia è molto difficile ma se prendiamo come esempio  il Sistema Solare il 99,8% dell’intera sua massa è nel Sole, una stella. Anche decidendo di considerare che la materia barionica non direttamente osservabile fosse un fattore dieci o venti volte più grande di quella presente nel Sistema Solare ed escludendo a spanne tutta la materia stellare degenere (nane bianche, stelle di neutroni e buchi neri) non più visibile presente in una tipica galassia come la nostra, in numeri ancora non tornano.
Più o meno tutte le galassie pare siano immerse in una tenue bolla di gas caldissimo grande circa cinque o sei volte la galassia stessa, probabilmente frutto del vento stellare galattico e dei processi parossistici dei nuclei galattici. Queste bolle sono impalpabili e caldissime a tal punto che solo da poco ne è stata avvertita la presenza [cite]http://hubblesite.org/newscenter/archive/releases/2011/37/[/cite], capaci quanto basta però per contenere una massa pari alla parte visibile; questo significa che finora la massa barionica di una galassia è stata finora sottostimata di un fattore 2.
Ma tutto questo ancora non basta. Anche se volessimo comunque raddoppiare o perfino triplicare le stime precedenti della massa barionica, verrebbe fuori che comunque una frazione ancora piuttosto cospicua di massa manca all’appello: almeno tra i due terzi e la metà mancherebbero comunque all’appello.
grafico universoE sulla natura di questa materia oscura (oscura appunto perché non visibile direttamente o indirettamente tranne che per la sua presenza come massa) che si sono avanzate le più disparate ipotesi.
Una di queste prevede che se, come molti esperimenti mostrano [cite]http://ilpoliedrico.com/2013/02/la-stupefacente-realta-del-neutrino.html[/cite], che i neutrini hanno una massa non nulla, allora questi potrebbero essere i responsabili della massa mancante. Questa si chiama Teoria WIMP (Weakly Interacting Massive Particle) Calda, cioè particelle debolmente interagenti dotate di massa che si muovono a velocità relativistiche. Particelle così sono note da sessant’anni, sono i neutrini che, grazie alla loro ridotta sezione d’urto e alla loro incapacità di  interagire con la forza nucleare forte (quella che cioè tiene uniti i quark e il nucleo degli atomi) e l’interazione elettromagnetica – però interagiscono bene con la forza nucleare debole (quella responsabile del decadimento radioattivo) e la forza gravitazionale – sono esattamente elusivi quanto si chiede alla materia oscura. Purtroppo se la materia oscura si identificasse unicamente nei neutrini avremmo un grande problema: forse non esisteremmo! Tutte le strutture di scala fine, le galassie e quindi le stelle, non avrebbero avuto modo di formarsi, disperse dai neutrini e dall’assenza di zone di più alta densità verso cui concentrarsi. Pertanto la Hot Dark Matter –  Materia Oscura Calda – non può essere stata rilevante alla formazione dell’Universo [cite]https://arxiv.org/abs/1210.0544[/cite].
Quindi se la materia oscura non può avere una rilevante componente calda, cioè che si muove a velocità relativistiche come i neutrini, deve essere prevalentemente fredda, cioè che, come la materia ordinaria, è statica. Una possibile spiegazione al mistero della materia oscura fa ricorso a oggetti barionici oscuri, che cioè non emettono una radiazione percettibile ai nostri strumenti, i cosiddetti MACHO (Massive Astrophysical Compact Halo Object) ossia oggetti compatti di alone. Questi MACHO sono composti da resti di stelle ormai morte come nane bianche e stelle di neutroni ormai freddi, buchi neri, stelle mancate e pianeti erranti. Certamente oggetti simili esistono e sono una componente importante della massa di qualsiasi galassia e più queste invecchiano più la componente degenere che contengono aumenta. L’indice di colore delle galassie associato alla loro massa viriale lo dimostra. Ma tutta la componente barionica dell’Universo può essere calcolata anche usando il rapporto tra gli isotopi dell’elio 4He e litio  7Li usciti dalla nucleosintesi cosmica iniziale come descritto dai modelli ΛCDM e questo pone un serio limite alla quantità di materia barionica degenere possibile [cite]http://xxx.lanl.gov/abs/astro-ph/0607207[/cite]. Pertanto risolvere il dilemma della materia oscura ricorrendo ai MACHO è impossibile.
Le uniche altre vie percorribili paiono essere quelle che fanno ricorso a particelle non barioniche (come i neutrini) ma che siano statiche come la materia barionica ordinaria: le cosiddette Cold WIMP, ovvero particelle debolmente interagenti dotate di massa non dotate di moto proprio è appunto una di queste. Particelle simili non sono ancora state osservate direttamente ma la cui esistenza può anch’essa essere dimostrata indirettamente confrontando le abbondanze isotopiche accennate prima [cite]http://arxiv.org/abs/astro-ph/9504082[/cite] con le equazioni di Friedmann.

Il pannello di destra è un'immagine ottenuta dallo Spitzer Space Telescope di stelle e galassie nella costellazione dell'Orsa Maggiore. L'immagine ad infrarossi copre una regione di spazio di 100 milioni di anni luce Il pannello di sinistra è la stessa immagine dopo che le stelle, le galassie e le altre fonti sono state mascherate. La luce di fondo rimasta risale al0 tempo in cui l'universo aveva meno di un miliardo di anni, e molto probabilmente è originata dai primissimi gruppi di oggetti dell'Universo-  grandi stelle o buchi neri attivi. Le tonalità più scure nell'immagine a sinistra corrispondono a parti più vuote dello spazio, mentre il giallo e bianco le zone più attive.

Il pannello di destra è un’immagine ottenuta dallo Spitzer Space Telescope di stelle e galassie nella costellazione dell’Orsa Maggiore. L’immagine ad infrarossi copre una regione di spazio di 100 milioni di anni luce Il pannello di sinistra è la stessa immagine dopo che le stelle, le galassie e le altre fonti sono state mascherate. La luce di fondo rimasta risale al0 tempo in cui l’universo aveva meno di un miliardo di anni, e molto probabilmente è originata dai primissimi gruppi di oggetti dell’Universo-  grandi stelle o buchi neri attivi. Le tonalità più scure nell’immagine a sinistra corrispondono a parti più vuote dello spazio, mentre il giallo e bianco le zone più attive.

Ora appare una ricerca [cite]https://arxiv.org/abs/1605.04023[/cite] che suggerisce che buona parte della parte della massa mancante sia collassata in buchi neri subito dopo il Big Bang. A riprova di questo studio viene portata la scoperta di numerose anisotropie nella radiazione cosmica infrarossa (CIB) rilevate nel corso di una survey del cielo a partire dal 2005 dal telescopio infrarosso Spitzer della NASA .
L’autore di questo studio (Kashlinsky) suggerisce che nei  primissimi istanti di vita dell’Universo (Era QCD da Quantum ChromoDynamics o Era dei Quark, tra i 10-12 secondi e i 10-6 secondi dopo il Big Bang) si siano verificate delle fluttuazioni quantistiche di densità che hanno dato origine ai buchi neri primordiali. Il meccanismo, per la verità non nuovo, è quello descritto anche da Jedamzik [cite]http://arxiv.org/abs/astro-ph/9605152[/cite] nel 1996 sui buchi neri primordiali creatisi nell’Era dei Quark. Nella sua opera Jedamskin prevede anche che a causa dell’espansione iniziale dell’Universo i buchi neri primordiali si possono essere formati solo per un ristretto intervallo di massa. Un aspetto importante che mi sento di sottolineare è che questi buchi neri primordiali non sono il prodotto del collasso gravitazionale di materia barionica come il nucleo di una stella, ma bensì il collasso di una fluttuazione di densità nel brodo di  quark e gluoni che in quell’istante stava emergendo; quindi prima della Leptogenesi e della Nucleosintesi Iniziale dell’Universo. Ma coerentemente con la fisica dei buchi neri la natura della sostanza che li ha creati  non ha alcuna importanza: che fossero orsetti gommosi o  il collasso di un nucleo stellare il risultato è il medesimo.
Finalmente Kashlinsky pare essere riuscito a trovare una prova visiva di quello che in pratica ha da sempre sostenuto, e che cioè almeno una buona parte della materia oscura possa essere spiegata da questi oggetti primordiali. Una conferma interessante a questa tesi potrebbe essere rappresentata dalla scoperta dei segnali dell’evaporazione  dei buchi neri più piccoli (1015 g) che dovrebbero essere stati generati durante l’Era dei Quark come proposto nel 2004 da BJ Carr [cite]http://arxiv.org/abs/astro-ph/0504034[/cite].
L’idea in sé quindi che buona parte della materia oscura possa essere interpretata come buchi neri primordiali non è affatto nuova. Va riconosciuto a Kashlinsky il merito di averci creduto e di aver trovato prove abbastanza convincenti per dimostrarlo. Certo il dilemma della materia oscura rimane a dispetto dei tanti annunci apparsi in questi giorni e ci vorranno ancora anni di indagine per svelarlo. Io penso che sia un ragionevole mix di tutte le idee qui proposte, anche perché l’attuale modello ΛCDM pone – come abbiamo visto – dei limiti piuttosto stringenti per l’attuale densità barionica che di fatto esclude le forme di materia convenzionale (vedi MACHO) oltre quelle già note. Anche il ruolo dei neutrini primordiali nella definizione delle strutture di scala fine dell’Universo merita attenzione, Alla fine forse scopriremo che la materia oscura è esistita fin quando non abbiamo cercato di comprenderne la sua natura.

Alla ricerca di forme di vita evolute: i limiti del Principio di Mediocrità

La vita è poi così comune nell’Universo? Oppure l’Uomo – inteso come forma di vita evoluta – è veramente una rarità nel’infinito cosmo? Forse le risposte a queste domande sono entrambe vere.

16042016-2D68D8DD00000578-0-image-a-23_1459508636554Finora il Principio di Mediocrità scaturito dal pensiero copernicano ci ha aiutati a capire molto del cosmo che ci circonda. L’antico concetto che pone l’Uomo al centro dell’Universo – Principio Antropocentrico – ci ha fatto credere per molti secoli in cosmogonie completamente errate, dalla Terra piatta all’idea di essere al centro dell’Universo, dall’interpretazione del moto dei pianeti alla posizione del sistema solare nella Galassia (quest’ultimo ha resistito fino alla scoperta di Hubble sull’espansione dell’Universo).
Per questo è comprensibile e del tutto legittimo estendere il Principio di Mediocrità anche alla ricerca della vita extraterrestre. Dopotutto nulla vieta che al presentarsi di condizioni naturali favorevoli il fenomeno Vita possa ripetersi anche altrove: dalla chiralità molecolare [cite]http://ilpoliedrico.com/2014/10/omochiralita-quantistica-biologica-e-universalita-della-vita.html[/cite] ai meccanismi che regolano il  funzionamento cellulare sono governate da leggi fisiche che sappiamo essere universali.
Una delle principali premesse che ci si attende da un pianeta capace di sostenere la vita è quello che la sua orbita sia entro i confini della zona Goldilocks, un guscio sferico che circonda una stella (in genere è rappresentato come fascia ma è un concetto improprio) la cui temperatura di equilibrio di radiazione rientri tra il punto di ebollizione e quello di congelamento dell’acqua (273 – 373 Kelvin)  intorno ai 100 kiloPascal di pressione atmosferica; un semplice esempio lo si può trovare anche su questo sito [cite]http://ilpoliedrico.com/2012/12/la-zona-circumstellare-abitabile-del-sole.html[/cite]. Ci sono anche altri vincoli [cite]http://ilpoliedrico.com/?s=+goldilocks[/cite] ma la presenza di acqua liquida pare essere fondamentale 1.
Anche se pur con tutti questi limiti il Principio di Mediocrità suggerisce che la biologia a base carbonio è estremamente diffusa nell’Universo, e questo non stento a crederlo. Stando alle migliori ipotesi le stelle che possono ospitare una qualche forma di sistema planetario potenzialmente adatto alla vita solo in questa galassia sono almeno 10 miliardi. Sembra un numero considerevole ma non dimentichiamo che la Via Lattea ospita circa 200 miliardi di stelle. quindi si tratta solo una stella su venti.
orologio geologicoMa se questa stima vi fa immaginare che là fuori ci sia una galassia affollata di specie senzienti alla Star Trek probabilmente siete nel torto: la vita per attecchire su un pianeta richiede tempo, molto tempo.
Sulla Terra occorsero almeno un miliardo e mezzo di anni prima che comparissero le prime forme di vita fotosintetiche e le prime forme di vita con nucleo cellulare differenziato dette eukaryoti – la base di quasi tutte le forme di vita più complessa conosciute – apparvero solo due miliardi di anni fa. Per trovare finalmente le forme di vita più complesse e una biodiversità simile all’attuale  sul pianeta Terra bisogna risalire a solo 542 milioni di anni fa, ben poca cosa se paragonati all’età della Terra e del Sistema Solare!

Però, probabilmente, il Principio di Mediocrità finisce qui. La Terra ha una cosa che è ben in evidenza in ogni momento e, forse proprio per questo, la sua importanza è spesso ignorata: la Luna.
Secondo recenti studi [cite]http://goo.gl/JWkxl1[/cite] la Luna è il motore della dinamo naturale che genera il campo magnetico terrestre. L’idea in realtà non è nuova, ha almeno cinquant’anni, però aiuta a comprendere il perché tra i pianeti rocciosi del Sistema Solare la Terra sia l’unico grande pianeta roccioso 2 ad avere un campo magnetico abbastanza potente da deflettere le particelle elettricamente cariche del vento solare e dei raggi cosmici. Questo piccolo particolare ha in realtà una grande influenza sulle condizioni di abitabilità sulla crosta perché ha consentito alla vita di uscire dall’acqua dove sarebbe stata più protetta dalle radiazioni ionizzanti, ha permesso che la crosta stessa fosse abbastanza sottile e fragile da permettere l’esistenza di zolle continentali in movimento – il che consente un efficace meccanismo di rimozione del carbonio dall’atmosfera [cite]http://ilpoliedrico.com/2013/12/la-caratterizzazione-delle-super-terre-il-ciclo-geologico-del-carbonio.html[/cite][cite]http://ilpoliedrico.com/2013/07/venere-e-terra-gemelli-diversi.html[/cite] – e la stabilizzazione dell’asse terrestre.
In pratica la componente Terra Luna si comporta come Saturno con Encelado e, in misura forse minore, Giove con Europa.
Il gradiente gravitazionale prodotto dai due pianeti deforma i satelliti che così si riscaldano direttamente all’interno. Per questo Encelado mostra un vulcanismo attivo e Europa ha un oceano liquido al suo interno in cui si suppone possa esserci le condizioni ideali per supportare una qualche forma di vita. Nel nostro caso è l’importante massa della Luna che deforma e mantiene fuso il nucleo terrestre tanto da stabilizzare l’asse del pianeta, fargli generare un importante campo magnetico e possedere una tettonica attiva [cite]http://ilpoliedrico.com/2010/11/limportanza-di-un-nucleo-fuso.html[/cite].

Ora, se le nostre teorie sulla genesi lunare sono corrette 3, questo significa che una biologia così varia e complessa come quella sulla Terra è il prodotto di tutta una serie di eventi che inizia con la formazione del Sistema Solare e arriva fino all’Homo Sapiens passando attraverso la formazione del nostro curioso – e prezioso – satellite e le varie estinzioni di massa. Tutto questo la rende molto più rara di quanto suggerisca il Principio di Mediocrità. Beninteso, la Vita in sé è sicuramente un fenomeno abbastanza comune nell’Universo ma una vita biologicamente complessa da dare origine a una specie senziente capace di produrre una civiltà tecnologicamente attiva è probabilmente una vera rarità nel panorama cosmico.

Le quattro fasi che avrebbero portato la Terra ad avere un grande campo magnetico (MFI Moon-forming impact, Impatto che dette origine alla Luna)

Le quattro fasi che avrebbero portato la Terra ad avere un grande campo magnetico (MFI Moon-forming impact, Impatto che dette origine alla Luna)

Analizziamo per un attimo più da vicino il sistema Terra-Luna.
La distanza media tra il centro della Luna e il centro della Terra è di circa 384390 chilometri. Questo varia tra l’apogeo e il perigeo dell’orbita ma sostanzialmente questa è una cosa che non inficia il nostro conto.
Questo significa che nello stesso momento la parte più vicina alla Luna è distante 1,66% in meno della distanza Terra-Luna mentre la sua parte opposta lo è della stessa misura in più; tradotto in numeri la parte rivolta direttamente alla Luna dista dal suo centro 378032 km  mentre la parte più lontana 390774 km. Il 3,32% di discrepanza tra le due facce non pare poi molto, ma significa che se stabiliamo che la forza esercitata gravitazionale dal satellite sulla faccia più vicina fosse pari a 100, la forza esercitata sul lato opposto sarebbe solo del 96,74%. Il risultato è che la faccia rivolta verso la Luna è attratta da questa di più del centro del pianeta e la faccia più lontana ancora di meno, col risultato di deformare la Terra ad ogni rotazione..
Ma anche la Terra esercita la sua influenza sul suo satellite allo stesso modo. Ma essendo la Luna più piccola, anche la caduta gravitazionale tra le due facce è molto più piccola, circa 1,8%. Essendo solo un quarto della Terra ma anche 81 volte meno massiccia la forza di marea esercitata dalla Terra sulla Luna è circa 22 volte dell’opposto.
Mentre la Terra ruota si deforma di circa mezzo metro, la frizione interna spinge la crosta nel sollevarsi e ricadere e, per lo stesso meccanismo si ha produzione di calore nel nocciolo e nel mantello e il più evidente fenomeno di marea sulle grandi masse d’acqua del pianeta. Ma l’effetto mareale combinato con la rotazione terrestre fa in modo che la distribuzione delle masse sia leggermente in avanti rispetto all’asse ideale Terra-Luna. Questo anticipo disperde parte del momento angolare in cambio di un aumento della distanza media tra Terra e Luna. La durata del giorno aumenta così – attualmente – di 1,7 secondi ogni 100 000 anni mentre pian piano la Luna si allontana al ritmo di 3,8 centimetri ogni anno [cite]http://goo.gl/ALyU92[/cite], mentre la frizione mareale indotta restituisce parte del calore che sia il mantello che il nucleo disperdono naturalmente. Questo calore mantiene il nucleo ancora allo stato fuso dopo ben 4,5 miliardi di anni, permettendogli di generare ancora il campo magnetico che protegge la vita sulla superficie.
Ecco perché l’idea dell’unicità della Terra non è poi del tutto così peregrina. Non è un istinto puramente antropocentrico, quanto semmai la necessità di comprendere che la Terra e la Luna sono da studiarsi come parti di un unico un sistema che ha permesso che su questo pianeta emergessero tutte quelle condizioni favorevoli allo sviluppo di vita che poi si è concretizzata in una specie senziente. Queste condizioni avrebbero potuto crearsi altrove – e forse questo è anche avvenuto – invece che qui e allora noi non saremmo ora a parlarne. Ma è questo è quel che è successo e se questa ipotesi fosse vera farebbe di noi come specie senziente una rarità nel panorama cosmico.
Come ebbi a dire in passato, anche se il concetto non è del tutto nuovo, Noi siamo l’Universo che in questo angolo di cosmo ha preso coscienza di sé e che si interroga sulla sua esistenza. Forse questo angolo è più vasto di quanto si voglia pensare; il che ci rende ancora più unici.


Note:

Osservate per la prima volta le onde gravitazionali con LIGO

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… c’era una coppia di buchi neri, uno di circa 36 volte la massa del Sole mentre l’altro era un po’ più piccolo, di sole 29 masse solari. Questi due pesantissimi oggetti, attratti l’uno dall’altro in una mortale danza a spirale hanno finito per fondersi insieme, come una coppia di ballerini sul ghiaccio che si abbraccia in un vorticoso balletto. Il risultato però è un po’ diverso: qui ne è uscito un oggetto un po’ più piccolo della semplice somma algebrica delle masse: 62 masse solari soltanto.
Il resto è energia dispersa, non molta per la verità date le masse in gioco, pressappoco come quanta energia potrebbe emettere il Sole nell’arco di tutta la sua esistenza. Solo che questa è stata rilasciata in un singolo istante come “onde gravitazionali“.

Ma cos’è un’onda gravitazionale?

spacetime-02La visione dello spazio che da sempre conosciamo è composta da tre uniche dimensioni, larghezza, altezza e profondità; o x, y e z, se preferite. Il tempo, un fenomeno comunque misterioso, fino agli inizi del XX secolo era considerato a sé. Una visione – poi confermata dagli esperimenti di ogni tipo – fornitaci dalla Relatività Generale è che il tempo è in realtà una  dimensione anch’essa del tessuto dello spazio; una quarta dimensione. insieme alle altre tre 1. Fino alla Relatività Generale di Einstein si era convinti che una medesima forza, la gravità, fosse responsabile sia della caduta della celebre mela apocrifa di Newton, che quella di costringere la Luna nella sua orbita attorno alla Terra e i pianeti nelle loro orbite attorno al Sole. Nella nuova interpretazione relativistica questa forza è invece vista come una manifestazione della deformazione di  uno spazio a quattro dimensioni, lo spazio-tempo, causata dalla massa degli oggetti. Così quando la mela cade, nella Meccanica Classica (essa è comunque ancora valida, cambia solo l’interpretazione dei fenomeni) la gravità esercitata dalla Terra attrae la mela verso di essa mentre allo stesso modo – e praticamente impercettibile – la Terra si muove verso la mela, nella Meccanica Relativistica è la mela che cade verso il centro di massa del pianeta esattamente come una bilia che rotola lungo un pendio e la Terra cade verso il centro di massa della mela nella stessa misura prevista dai calcoli newtoniani.
La conseguenza più diretta di questa nuova visione dello spazio-tempo unificato, è che esso è, per usare una metafora comune alla nostra esperienza, elastico; ossia si può deformare, stirare e comprimere. E un qualsiasi oggetto dotato di massa, se accelerato, può increspare lo spazio-tempo. Una piccola difficoltà: queste increspature dello spazio-tempo, o onde gravitazionali, sono molto piccole e deboli – la gravità è di gran lunga la più debole tra le forze fondamentali della natura –  tant’è che finora la sensibilità strumentale era troppo bassa per rivelarle. Se volessimo cercare un’analogia con l’esperienza comune, potremmo immaginare lo spazio quadrimensionale come la superficie di un laghetto a due dimensioni, mentre la quarta dimensione, il tempo, è dato dall’altezza in cui si muovono le increspature dell’acqua. Qualora buttassimo un sassolino l’altezza della increspatura sarebbe piccola, ma man mano se scagliassimo pietre con maggior forza e sempre più grosse, le creste sarebbero sempre più alte. Però vedremmo anche che a distanze sempre più crescenti dall’impatto, queste onde scemerebbero di altezza e di energia, disperse dall’inerzia delle molecole d’acqua 2; alcune potrebbero perdersi nel giro di pochi centimetri dall’evento che le ha  provocate, altre qualche metro e così via. Alcune, poche,  potrebbero giungere alla riva ed essere viste come una variazione di ampiezza nell’altezza del livello dell’acqua del laghetto e sarebbero quelle generate dagli eventi più potenti che avevamo prodotto in precedenza. Queste nello spazio quadrimensionale sono le onde gravitazionali e esse, siccome non coinvolgono mezzi dotati di una massa propria per trasmettersi come ad esempio il suono che è solo un movimento meccanico di onde trasmesse attraverso un mezzo materiale,  possono muoversi alla velocità più alta consentita dalla fisica relativistica:c, detta anche velocità della luce nel vuoto.

Il grande protagonista: LIGO

E’ stato LIGO-Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory (in italiano, Osservatorio Interferometro laser per onde gravitazionali) il protagonista di questa straordinaria scoperta: uno strumento formato da due strumenti gemelli, uno a Livingston (Louisiana) e l’altro a Hanford (Washington), a 3000 chilometri di distanza dal primo. Sono due gli interferometri, perché i dati possono venir confrontati e confermati: se entrambi gli strumenti rilevano lo stesso disturbo, allora è improbabile che sia legato ad un terremoto oppure a dei rumori di attività umana. Il primo segnale che conferma l’esistenza delle onde gravitazionali è stato rilevato dallo strumento americano Ligo il 14 settembre 2015 alle 10, 50 minuti 45 secondi (ora italiana), all’interno di una finestra di appena 10 millisecondi.

 David Reitze del progetto LIGO ha annunciato al mondo la scoperta delle onde gravitazionali: “We have detected gravitational waves. We did it!”. Crediti: LIGO

David Reitze del progetto LIGO ha annunciato al mondo la scoperta delle onde gravitazionali: “We have detected gravitational waves. We did it!”.
Crediti: LIGO

Ed eccole qui, in questo diagramma: l’onda azzurra, captata da LIGO di Livingston e l’onda arancio, captata da LIGO di Hanford. Sono sovrapponibili, il che ci dice che sono la stessa onda captata dai due strumenti gemelli. E’ la firma della fusione dei due buchi neri supermassicci con la conseguente produzione di onde gravitazionali. In altre parole, questa è la firma del nuovo buco nero che si è formato dai due precedenti e, come è accennato anche più sopra, le tre masse solari che mancano dalla somma delle due masse che si sono fuse assieme dando vita al nuovo buco nero di 62 masse solari si sono convertite in onde gravitazionali.
Volete udire il suono di un’onda gravitazionale? Sì, certo che è possibile…. E’ straordinario pensare che queste onde rappresentano la fusione di due buchi neri in uno nuovo e proviene da distanze incredibilmente grandi, in un’epoca altrettanto remota: un miliardo e mezzo di anni  fa.

Le prove indirette

Il decadimento orbitale delle due stelle di neutroni PSR J0737-3039 (qui evidenziato dalle croci rosse) corrisponde esattamente con la previsione matematica sulla produzione di onde gravitazionali.

Il decadimento orbitale delle due stelle di neutroni PSR J0737-3039 (qui evidenziato dalle croci rosse) corrisponde esattamente con la previsione matematica sulla produzione di onde gravitazionali.

La prima prova indiretta dell’esistenza delle onde gravitazionali si ebbe però nel 1974. In quell’estate, usando il radio telescopio di Arecibo, Portorico, Russel Hulse e Joseph Taylor scoprirono una pulsar che generava un segnale periodico di 59 ms, denominata PSR 1913+16. In realtà, la periodicità non era stabile e il sistema manifestava cambiamenti 3 dell’ordine di 80 microsecondi al giorno, a volte dell’ordine di 8 microsecondi in 5 minuti.
Questi cambiamenti furono interpretati come dovuti al moto orbitale della pulsar  4 attorno ad una stella compagna, come previsto dalla Teoria della Relatività Generale. Di conseguenza, due pulsar, in rotazione reciproca una attorno all’altra, emettono onde gravitazionali, in perfetta linea con la Relatività Generale. Per questi calcoli e considerazioni, Hulse e Taylor ricevettero nel 1993 il Premio Nobel per la fisica.

La presenza di una qualsivoglia stella compagna introduce delle variazioni periodiche facilmente rivelabili nel segnale pulsato della stella che i radioastronomi sono in grado di misurare con precisione inferiore ai 100 microsecondi. Giusto per farsi un’idea, immaginiamo di prendere il Sole e di farlo diventare una pulsar. Dal suo segnale pulsato, gli astronomi sarebbero in grado di rilevare la presenza di tutti i pianeti che orbitano attorno a questo Sole-pulsar, grazie al fatto che ogni pianeta causa uno spostamento del centro di massa del Sole di un certo valore espresso in microsecondi. La Terra per esempio, che si muove lungo la sua orbita ellittica, produce uno spostamento del centro di massa del Sole di ben 1500 microsecondi! 5


Per saperne di più:

La prima pulsar doppia” articolo di Andrea Possenti dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Cagliari, pubblicato sul numero di Le Stelle, marzo 2004.

La notizia, pubblicata sul Physical Review Letters, porta i nomi di B. P. Abbott e della collaborazione scientifica di LIGO e VIRGO[cite]http://journals.aps.org/prl/abstract/10.1103/PhysRevLett.116.061102[/cite].

 


Note: