Ciclo biochimico del fosforo su Venere?

Sono passati diversi mesi dal mio ultimo articolo qui; diciamo pure che, dopo l’uscita del mio libro, mi sono preso un periodo sabbatico dalla scrittura più impegnata. Certo che nel frattempo, nonostante il fermo dovuto alla pandemia da Covid-19, non sono stato mai in ozio, visto che sto progettando — e costruendo — la mia personale  stazione meteorologica e della qualità del cielo. Spero che presto possa presentare qui alcuni miei risultati, ma proprio oggi una notizia piuttosto importante è stata pubblicata su Nature, e di questo sento il bisogno di dire la mia.

Immagine composita di Venere dai dati della sonda spaziale Magellan della NASA e del Pioneer Venus Orbiter. Credit: NASA / JPL-Caltech

Ipotesi sulla possibile vita microbica sugli altri pianeti del Sistema Solare si sprecano: nel lontano 1967 anche il celebre scienziato Carl Sagan si cimentò nell’immaginare vita aerea sulle sommità dei pianeti giganti gassosi e di Venere.
E nel dicembre 1999, l’astrobiologo britannico Charles S. Cockell,  ipotizzò la presenza di forme di vita chemioautotrofe sulle nubi superiori di Venere[1].

Però come è noto, la superficie di Venere è inospitale per ogni forma di vita a noi nota, anche la più estrema. 460 gradi Celsius, 92 volte la pressione atmosferica della Terra, piogge di acido solforico: niente lì potrebbe sopravvivere. Eppure, sopra questo inferno, tra i 50 e 60 chilometri dalla superficie, c’è uno strato di anidride solforosa e di acido solforico sormontato da uno strato di goccioline, sempre di acido solforico, dove la temperatura e pressione sono simili agli standard terrestri, ed è anche tutto quello che noi riusciamo a vedere di Venere. È comunque un ambiente estremamente acido, dove anche la vita più estrema scoperta sulla Terra[2] potrebbe avere serie difficoltà a sopravvivere.

Il 14 settembre 2020, su Nature, è apparsa una ricerca[3] che pare dare conferma alle tante speculazioni sulla presenza di forme di vita sulla sommità delle nubi di Venere.
Prima di scendere un po’ più in dettaglio, occorre sempre tenere ben presente che quanto finora è stato scoperto è, nel migliore delle ipotesi, una flebile traccia, poco più dell’ombra di una parziale impronta digitale sul luogo di un delitto, il che significa appena un indizio.
La ricerca della vita extraterrestre nel nostro Sistema Solare è piena di indizi: molecole organiche o i loro resti, su Marte e nelle meteoriti, i pennacchi stagionali di metano marziano, l’oceano sotterraneo di Encelado, le molecole complesse di Titano e quelle scoperte nelle comete. Potrei fare un elenco della lavandaia lungo chilometri solo per citare i casi più importanti. E anche laddove sembrava certa la scoperta di altre forme di vita, come nel caso del meteorite di origine marziana ALH84001, oppure l’esperimento Labeled Release di Gilbert Levin, montato sulle sonde Viking, il dibattito Vita/non-Vita è ancora acceso.

Fosfina su Venere

La fosfina è composta da appena 3 atomi di idrogeno legati ad un singolo atomo di fosforo ( formula bruta  PH3), formando così una struttura tetraedrica, molto simile all’ammoniaca (NH3) ma molto più reattiva. Una molecola piuttosto semplice, che si ritrova anche nel materiale interstellare attorno alle stelle  ricche di carbonio e ossigeno (quindi mediamente più vecchie) e nelle atmosfere dei pianeti giganti, dove viene prodotta continuamente dalle pressioni e temperature molto alte negli strati atmosferici profondi e poi trasportata per convezione verso l’alto[4] dove degrada. In questi luoghi la fosfina non desta particolari attenzioni, perché presentano condizioni chimico-fisiche che consentono la formazione stabile di questa molecola, mentre nei pianeti rocciosi, come Venere e Terra, le superfici e le atmosfere planetarie degradano e distruggono molto rapidamente la delicata molecola.

Sulla Terra, ad esempio, le uniche fonti importanti di fosfina, (tralasciando la produzione industriale) sono i processi di scarto prodotti dal metabolismo di batteri anaerobi che si nutrono del materiale biologico in decomposizione o dai minerali fosfati.

L’evidenza di una probabile presenza di fosfine nelle nubi di Venere fu notata nel giugno 2017 dall’astrobiologa Jane Greaves durante una osservazione dal James Clerk Maxwell Telescope. Ma tale scoperta doveva in qualche modo essere confermata: poteva essersi trattato di una svista nella taratura degli strumenti o di un falso segnale.
E nel marzo 2019, attraverso la rete interferometrica dell’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA) è arrivata la conferma del segnale rilevato nel 2017 dal C. Maxwell1. Sono stati usati 45 telescopi puntati su Venere per tre ore ad una lunghezza d’onda di circa 1 millimetro, ossia 2000 volte più lunga della luce visibile: solo i telescopi ad alta quota (ALMA è a 5100 metri s.l.m.) possono osservare bene nell’infrarosso dalla Terra. L’elaborazione dei dati è stata molto complessa: Alma non è stato progettato per risolvere particolari minuti su sorgenti brillanti come Venere. Tuttavia la procedura di riduzione dei dati è comunque ben documentata e rimando a quello che è stato scritto nell’articolo pubblicato su Nature.

Spettro di Venere ottenuto con ALMA. Il pannello sinistro mostra lo spettro PH3 dell’intero pianeta.  Il pannello destro mostra gli spettri delle zone polari (istogramma in nero), a media latitudine (in blu) ed equatoriale (in rosso). Gli spettri sono stati sfalsati verticalmente per chiarezza, e lo spettro polare è stato collocato in velocità per ottenere un limite superiore più profondo.

Questa scoperta apre scenari molto interessanti: nella sommità delle nubi (53-61 chilometri dal suolo venusiano), nei dintorni delle Celle di Hadley2 i ricercatori hanno scoperto le deboli tracce di fosfina in ragione di 20 ppb (parti per miliardo). Il pozzo nel diagramma qui a lato mostra la riga di assorbimento della fosfina nell’atmosfera di Venere.

Il dilemma è che su Venere di fosfina non dovrebbe essercene proprio: essa è una molecola estremamente reattiva, il famoso gas di palude che dà origine ai fuochi fatui non è altri che metano e fosfina (o fosfano, che è la stessa cosa) originati dalla decomposizione di materiale organico3. Senza una fonte costante di produzione essa non potrebbe esistere a lungo su un pianeta roccioso (sui pianeti giganti invece si forma continuamente per poi degradare). Sulla Terra, l’unica fosfina naturale esistente è prodotta durante il ciclo biologico del fosforo[5] (vedi illustrazione superiore), mentre l’atmosfera ossidativa del pianeta o i minerali della superficie degradano la molecola molto rapidamente.
A questo punto diventa arduo spiegare la presenza di molecole di fosfina nell’alta atmosfera di Venere, un ambiente iperacido e bombardato dai raggi UV del Sole.  Tutti i meccanismi naturali, ovvero fulmini atmosferici, apporto da materiale meteorico, vulcanismo, non sono in grado di giustificare  una presenza costante (ricordo che la presenza della molecola è stata osservata nel 2017 col C. Maxwell Telescope e nel 2019 con ALMA) e massiccia (20 ppb) di fosfina: ad ora nessun meccanismo abiotico noto presente sui pianeti rocciosi è in grado di farlo.

Presunta origine biotica della fosfina su Venere

Eliminate all other factors, and the one which remains must be the truth. Elimina tutti gli altri fattori e quello che rimane deve essere la verità.
Sir Artur Conan Doyle, Sherlock Holmes “The Sign of the Four”, a.D. 1890

In base alle considerazioni precedenti, l’unica strada percorribile per spiegare la presenza di fosfina sulla sommità delle nubi di Venere, resta l’origine biochimica. Ma anche questa non è una via facile da percorrere.
Innanzitutto — ammesso e non concesso — che la fosfina venusiana sia di origine biologica, occorre capire come, in un’atmosfera dinamica e acida, la vita sia riuscita a perpetuarsi ed evolversi. Sulla Terra abbiamo scoperto estremofili che riescono a prosperare in condizioni estreme come quelle presenti nelle sorgenti idrotermali del vulcano Dallol, in Etiopia e che resistono benissimo agli ultravioletti, come i cianobatteri delle stromatoliti del lago salato Salar de Llamara, nella regione di Tarapaca,  nel nord del Cile.
Innanzitutto dovremmo capire come sia possibile l’esistenza di forme di vita esclusivamente aerea. Anche la Terra ha una biosfera aerea, dove microorganismi arrivano a lambire lo spazio[6] e, anche se questa biosfera pare estendersi fino gli 85 chilometri di quota  (giusto per fare un paragone, la ISS orbita a 408 km di quota), essa perlopiù risiede sospeso dentro le goccioline d’acqua nebulari e partecipa al ciclo delle precipitazioni[7]. In pratica, sulla Terra, avviene un continuo scambio di minerali e forme di vita microbica tra il suolo e l’atmosfera, basti osservare che, senza l’apporto delle sabbie dal Sahara, le Bahamas non potrebbero esistere.
Non sappiamo se il medesimo ciclo è presente anche su Venere, ma è improbabile che, se esistesse qualche forma di vita nelle sommità delle nubi del pianeta, possa resistere alle tremende condizioni fisiche presenti al suolo. L’unica alternativa è che la vita venusiana sia limitata alla mesosfera e che sia incapace di scendere al di sotto: uno strato limite che impedisce alle forme di vita microbica e le loro spore di raggiungere gli strati sottostanti dove verrebbero distrutti. Sulla Terra la copertura nuvolosa è discontinua e dinamica; su Venere, invece, è ricoperto da ben tre distinti strati di nubi: uno strato superiore, composto da piccole goccioline di acido solforico ad una quota compresa tra i 60 e 70 km; uno strato intermedio, costituito da gocce più grandi e meno numerose, collocato a 52–59 km di altitudine; e infine uno strato inferiore più denso e costituito dalle particelle più grandi, che scende fino a 48 km di quota. Al di sotto di tale livello la temperatura è talmente elevata da vaporizzare le gocce, generando una foschia che si estende fino a 31 km di quota. Quindi è ipotizzabile che su Venere siano i diversi strati chimico-fisici dell’atmosfera a impedire che l’eventuale biosfera precipiti al suolo e che il taso di riproduzione delle forme di vita che la popolano compensi le inevitabili perdite.
Inoltre, rimangono da comprendere i meccanismi cellulari di forme di vita così estreme. Le nubi di Venere sono molto più aride e acide del più acido e secco ambiente che troviamo qui sulla Terra: nelle piscine idrotermali del Dallol è l’acido solforico ad essere disciolto nell’acqua, mentre su Venere è l’acqua ad essere disciolta nel medesimo acido. Un metabolismo di tipo terrestre non sarebbe possibile su Venere: la biochimica che conosciamo, gli acidi nucleici e le proteine, i lipidi e gli zuccheri, verrebbero distrutti istantaneamente. Nel 2004 l’astrobiologo Dirk Schulze-Makuch propose che una biochimica simile alla nostra avesse imparato ad usare lo zolfo come guscio protettivo[8] (lo zolfo non è bagnato dall’acido solforico) e la fotosintesi come fonte energetica.

Ipotetico ciclo vitale venusiano.

La copertura nuvolosa su Venere è permanente, dove gli strati medi e inferiori offrono le condizioni più simili alla Terra.

Ma rimane pur sempre il problema dell’acqua: anche nelle piscine del Dallol l’acqua è sempre presente. Nel luogo più secco della Terra, il deserto di Atacama difficilmente scende sotto il 2%. Venere è però almeno 50 volte più secco del più secco luogo disponibile sul nostro pianeta. Certo, sono noti funghi e spore che si attivano con un’umidità relativa del 0,7%, ma nelle nubi di Venere questo indice scende a 0,04%. Poi c’è il problema dei nutrienti necessari a mantenere il ciclo metabolico: una importante fonte potrebbe essere la polvere meteorica che cade incessantemente sul pianeta, ad esempio, o riciclare il carbonio e l’azoto direttamente dall’atmosfera.
Per i dettagli rimando all’articolo[9] pubblicato nell’agosto di quest’anno dall’astronoma Sara Seager “The Venusian Lower Atmosphere Haze as a Depot for Desiccated Microbial Life: A Proposed Life Cycle for Persistence of the Venusian Aerial Biosphere” a proposito di un ipotetico ciclo biologico presente su Venere.

Un meccanismo abiotico per la fosfina su Venere

Il vulcanismo venusiano come fonte della fosfina fu scartato da Jane Greaves e gli altri perché ritenevano che l’apporto di questo meccanismo non avrebbe potuto spiegare la persistente quantità osservata (20 ppb) della molecola.
Un nuovo studio[10] (comunque ora pare ritirato) firmato dal professore di Chimica Teorica e Computazionale dell’Università dello Utah  Ngoc Truong e il fisico planetario della Cornell University Jonathan I. Lunine, propone di rivalutare il ruolo del vulcanismo basaltico di Venere: una quantità di 93 chilometri cubici di lava all’anno4 potrebbero essere sufficienti a produrre solfuri a sufficienza per spiegare l’attuale presenza di fosfina nelle nubi superiori di Venere. L’analisi si basa su una presunta ripresa dell’attività vulcanica di Venere basandosi sulla scoperta di punti caldi sulla superficie del pianeta identificati dalla sonda europea Venus Express[11].
Anche ammettendo che le molecole di fosfina si degradino meno nell’atmosfera di Venere (non ci sono radicali ossidrilici (-OH) come sulla Terra) il parossismo vulcanico di Venere pare si sia concluso tra 2 milioni e 250 mila anni fa, e che ora potrebbero essere in atto perlopiù sporadiche emissioni di anidride solforosa, la quantità di fosfina nella mesosfera di Venere rimane ancora un mistero.

Conclusioni

Su Venere potrebbe esistere un meccanismo abiotico per la produzione di fosfina ancora sconosciuto sulla Terra, oppure un composto chimico potrebbe aver imitato la medesima riga spettrale per ora attribuita alla fosfina. O forse è veramente Vita, magari una vita talmente aliena alla nostra esperienza che non potremo neppure riconoscere come tale perché la sua biochimica è del tutto diversa dalla nostra.
Solo una ricerca sul campo potrà aiutarci a capire cosa succede nelle nubi più alte di Venere.

Illusioni marziane

Ancora una volta sono qui per commentare l’adagio: c’è vita su Marte? L’unica mia risposta è che no lo so, ma sono estremamente scettico sul fatto che il Pianeta Rosso abbia mai ospitato forme di vita. Rimango possibilista verso l’ipotesi di vita procariotica all’inizio della storia marziana, ma anche su questo nutro dubbi. Perché Marte è piccolo, troppo piccolo per aver mai avuto un’atmosfera abbastanza spessa da mantenere l’acqua allo stato liquido per il tempo necessario a sviluppare forme di vita più complesse. 

Il professor William Romoser dell’Università dell’Ohio suggerisce che questa immagine, scattata da un rover su Marte, sia un forma di vita marziana. Per me è semplicemente un caso di pareidolia, . (Credit: William Romoser)

Nell’estate del 1964, poco prima del lancio della missione Mariner 4 (la prima sonda interplanetaria che ci descrisse la realtà marziana) un istituto sponsorizzato dall’ente spaziale americano NASA, organizzò un simposio per tentare di descrivere cosa avrebbe potuto scoprire la sonda nella peggiore delle ipotesi. Ancora nel 1964 si sapeva poco e niente di Marte, della sua atmosfera, del suo suolo ricco di perossidi, della sua abitabilità: tant’è che si speculava persino dell’esistenza di forme di vita complesse delle dimensioni di un orso polare[12].
Oggi, grazie ai numerosi rover e laboratori automatici inviati sul Pianeta Rosso, sappiamo che non è così. 
Ogni giorno Marte si rivela un incredibile laboratorio dove testare le più ardite teorie dell’esobiologia: i pennacchi di metano stagionali[13] e ora di ossigeno[14], spingono i meno informati a immaginare che su Marte, dopotutto, ci sia qualche forma di vita, forse anche abbastanza evoluta. 
Infatti, ancora esistono sacche di pensiero che resistono a quanto si è scoperto in quest’ultimo mezzo secolo su Marte.
L’entomologo americano William Romoser ha presentato, il 19 novembre scorso, un documento al convegno[15] dell’Entomological Society of America tenutosi a St. Louis, nel Missouri.
Romoser sostiene di aver identificato forme di vita complesse, sia fossili che viventi, in diverse immagini scattate dai rover marziani. Le altre immagini, che sono pubblicate nel suo documento,  suggeriscono teste di serpenti fossili, insetti in volo, e così via.
A mio parere, e ringrazio l’amico Stefano che mi ha comunicato la notizia, è semplicemente l’ennesimo caso di pareidolia, dettato in questo caso dall’attitudine mentale di chi è abituato a vedere insetti ovunque: un entomologo, appunto.

Il Volto di Cydonia, conosciuto anche come Sfinge di … , è il più noto caso di pareidolia legato a Marte. Credi: NASA/JPL

Non è la prima volta, e non sarà neanche l’ultima, che nella frastagliata superficie di Marte vengono scorte immagini bizzarre e giochi di luce che si prestano a eccentriche interpretazioni  riconoscendovi cose a noi più familiari: il volto della Sfinge di Cydonia è uno dei più noti, ma c’è chi giura di aver scorto anche piramidi, cupole, resti di statue e cinte murarie. 

Nel 1958, lo psichiatra tedesco Klaus Conrad descrisse un fenomeno chiamato apofenia. L’apofenia indica la tendenza a percepire erroneamente le connessioni e il significato tra cose non correlate. Conrad la legò principalmente alla schizofrenia, ma in realtà nella sua forma non patologica, l’apofenia è qualcosa di molto più profondo. Quando i primi esseri umani si avviavano a conquistare la Terra la capacità di trovare schemi nell’ambiente circostante e ragionare su di essi era essenziale alla sopravvivenza della specie. Questa tendenza la si riscopre oggi in tutte le attività umane: dalla finanza al gioco d’azzardo, dalla ricerca scientifica alla statistica. Possiamo tutti sperimentarlo quando scorgiamo una figura a noi familiare in un sistema caotico, come ad esempio la figura di un animale scolpito dalle nuvole (pareidolia) o quando tentiamo a cercare di evidenziare ed esaltare fatti che confermino le proprie convinzioni (bias di conferma).
Per questo diventa semplice per chi ha dedicato la vita a studiare insetti, vedere un bacarozzo dove altri vedono semplicemente un sasso. 

Ma quando ci si propone di fare della scienza, è assai importante attenersi anche alle pregresse scoperte e dati.
Ad esempio, l’evoluzione verso i metazoi1 avvenne nel periodo Ediacarano fra i 645 e i 542 milioni di anni fa, quando l’ossigeno atmosferico accumulatosi nell’atmosfera della Terra diede origine allo strato di ozono. Questo, su Marte non sembra mai essere accaduto, perché lì non sembra esserci mai stata un’atmosfera abbastanza ricca di quell’elemento.

Per ricavare una certa quota partendo da una data pressione (espressa in millibar) si può far riferimento a questa formula empirica (vale solo per il caso terrestre): halt=(1(Psito1013.25)0.190284)×44307.69

Poi, altro esempio, è la pressione atmosferica marziana: per frenare la discesa dei robot su Marte servono paracadute giganteschi rispetto a quelli che servono per la discesa sulla Terra. Infatti, la pressione atmosferica media di Marte è di 6,3 millibar, la stessa che ritroviamo sulla Terra a 27 mila metri di quota: 3 volte la quota di un normale aereo di linea. Un ipotetico insetto volante immaginato da Romoser dovrebbe possedere ali come un gabbiano per sostenersi in volo.

Mentre scrivo, scopro che il lavoro dell’entomologo è stato intanto ritirato (infatti il link nei riferimenti non è più funzionante).
E probabilmente è un bene, perché esistono molti scienziati che stanno davvero cercando di rispondere alla domanda principe Esistono altre forme di vita fuori dalla Terra?
Le persone che non conoscono i meccanismi di produzione abiotica del metano e dell’ossigeno, le reali condizioni ambientali di Marte e che quando sentono parlare di chimica organica evocano subito qualcosa di biologico, fanno presto a tirare le somme e immaginare che su Marte ci sia la Vita.
Senza contare i numerosi bischeri che inondano Internet con immagini artefatte e spiritate ipotesi di antiche civiltà marziane e alieni tenuti nella formaldeide, che non fanno che lucrare sul complottismo scientifico che tutto è fuorché scienza.
Al contrario, il ritiro affrettato del lavoro di Romoser potrebbe invece alimentare le medesime illazioni complottarde che potrebbero avere mano facile nell’affermare che la scoperta di insetti marziani ad opera di un emerito entomologo (Romoser) è stata nascosta e messa a tacere dai poteri forti della NASA che vorrebbero tenerci tutti all’oscuro della realtà marziana.

Per questo da sempre dico che l’unica soluzione è studiare, studiare e studiare. E siccome a nessuno di noi è stato concesso il dono dell’onniscenza, magari un pizzico di umiltà nel saper accogliere il giudizio di chi è più preparato su un particolare argomento, è fondamentale.

Cieli sereni

Molecole organiche su Marte (prima parte)

Quando mi è stato concesso, ho sempre cercato di osservare le cose nel modo più ampio possibile e a cercare di stabilire dei collegamenti logici tra tutte le informazioni che mi sarebbero state utili per cercare di descriverle. Spesso è difficile star dietro al mio modo di ragionare, ma questo genere di approccio mi è sempre stato di aiuto per comprendere meglio ciò che in quel momento era alla mia attenzione. E forse anche per questo che sono sempre stato moderatamente scettico sul passato biologico marziano. È vero, ci sono stati i controversi risultati del Labeled Released Experiment [16] e sono state indicate alcune similitudini tra le microbialiti terrestri (ex. le stromatoliti) e le strutture osservate nei depositi argillosi su Marte [17], ma diciamocelo: finora non è mai stata accertata la presenza di vita ora o nel passato di Marte.
Affermare l’opposto o velatamente ammiccare alla scoperta della Vita su Marte come molti — anche autorevoli — siti e testate giornalistiche stanno facendo in queste ore è falso.

La ciclicità del metano

Andamento stagionale delle emissioni di metano nell’atmosfera di Marte in parti per miliardo correlati alla pressione atmosferica e alla posizione del pianeta nella sua orbita (longitudine solare). Le stagioni marziane sono analoghe a quelle terrestri ma molto più lunghe: un anno marziano corrisponde a 686,96 giorni terrestri. Credit: Christopher R. Webster, NASA/JPL — Edit: Il Poliedrico

Se avete seguito in questi anni questo blog, saprete senz’altro che la presenza sporadica di metano nell’atmosfera marziana era nota da anni: dal 2003 per la precisione [18]. In assenza di prove della presenza di organismi biologici per la metanogenesi (principalmente archaea) su Marte, è ovvio rivolgersi verso i meccanismi abiotici di produzione del metano [19][20], che qui sulla Terra sono responsabili di circa il 10% della produzione annua di questo gas rilasciato nell’atmosfera. Finora non erano note esattamente le cause della presenza del metano nell’atmosfera di Marte: si era creduto a una sporadicità magari derivata da un qualche impatto cometario  passato inosservato. Ma a causa dell’ambiente continuamente bombardato dalle radiazioni ultraviolette del Sole, il metano marziano rilasciato nell’atmosfera non potrebbe esistere per più di 100-300 anni, in contrasto quindi con quanto viene registrato fin dall’anno della scoperta della sua presenza (si tratta pur sempre di una manciata di molecole per miliardo vista la tenuità dell’atmosfera marziana) e soprattutto in seguito quando vennero scoperti dei rilasci altamente localizzati di metano ritenuti allora sporadici.
Per questi si era teorizzata una qualche forma di attività geotermica ancora esistente ma si sa anche che Marte ha cesaato ogni sua attività vulcanica importante da miliardi di anni. 
La scoperta della ciclicità stagionale del metano atmosferico marziano è la notizia. Questa è la conferma che l’ambiente marziano risente del cambiamento stagionale ben più di quanto finora era stato supposto. Qui i principali indiziati potrebbero essere i clarati 1 intrappolati nel sottosuolo che per effetto del mutare delle condizioni di insolazione e temperatura stagionali possono venire decomposti. l’acqua così liberata potrebbe anche avviare i processi di serpentinizzazione del basalto arricchendo così le quantità di metano rilasciato nell’atmosfera.

Questa scoperta è illustrata meglio nell’articolo di Science e nei suoi allegati che vi invito a leggere [21] nell’attesa che scriva anche la seconda parte.
Cieli sereni.

Il messaggio in bottiglia

Potrebbe essere che il nostro approccio alla ricerca di vita intelligente sia del tutto sbagliato: che ci ostiniamo a guardare nel modo sbagliato e che dovremmo invece sondare la vastità dell’oceano cosmico con metodi molto diversi. Magari basterebe sedersi sulla riva ed aspettare che il messaggio approdi dalle nostre parti.

Sono ormai diversi anni che si è trovato il modo di scrivere interi libri completi di immagini e della formattazione del testo in una sequenza di DNA. La densità di informazione che una catena di DNA può contenere è enorme: intorno a un milione di gigabit per millimetro cubico [22] [23]: l’intera Biblioteca del Congresso di Washington 1 potrebbe risiedere in appena poco più di questi 3 cubetti.
È vero, leggere il DNA risulta essere un processo molto più lento che leggere da un vetusto floppy degli anni ’80 o anche da un nastro magnetico, ma l’informazione  contenuta in esso può resistere inalterata per miliardi di anni: a confronto l’unico altro processo di conservazione dell’informazione che resiste nel tempo, ma non altrettanto a lungo, è l’incisione rupestre! Inoltre il DNA lo si può replicare esattamente una miriade di volte e non richiede alcuna energia per la sua conservazione. Tutti questi fattori rendono la comunicazione di informazioni attraverso il DNA — o catene polimeriche simili —un mezzo ideale: basti pensare che in esso è contenuta tutta l’informazione necessaria al corretto funzionamento di qualsiasi organismo biologico che conosciamo.

Supponendo che una razza aliena tecnologicamente evoluta voglia intenzionalmente mostrarsi al cosmo, potrebbe altresì essere cosciente dei limiti che ha una comunicazione interstellare attraverso le onde elettromagnetiche, come ad esempio la degradazione del segnale (non dimentichiamoci della legge dell’inverso del quadrato della distanza)  e prendere atto del rischio che una simile trasmissione potrebbe comunque rimanere inascoltata per le ragioni che ho espresso sopra: queste considerazioni potrebbero scoraggiarla dall’intraprendere questa strada e decidere di seguire altre vie per annunciare la sua presenza o rinunciarvi del tutto.

Oppure, e qui mi addentro nella pura speculazione scientifica, decidere di lasciare una traccia di sé, una testimonianza o il suo epitaffio, alle correnti dello spazio in forma di spore. Sarebbe un metodo meno costoso e assai più efficace: esso non richiederebbe una fonte costante di energia come per generare un segnale elettromagnetico e non conoscerebbe il problema della degradazione del segnale. Le spore se adeguatamente protette dalle radiazioni ionizzanti [24] potrebbero resistere inalterate per eoni e diffondersi per l’intera Galassia in un arco di tempo misurabile tra decine e centinaia di milioni di anni. Tutto il lavoro lo farebbero le onde di marea galattiche [25] [26] e i venti interstellari [27] che rimescolano incessantemente il gas e il pulviscolo del mezzo interstellare. In un certo senso è quello che abbiamo fatto anche noi coi dischi delle Voyager e le placche dorate delle Pioneer: annunciare la nostra presenza al cosmo a chiunque in un futuro molto lontano potrà scoprirle ed interpretarle. Per noi, come civiltà agli albori dell’era spaziale,  è stato un po’ l’equivalente più evoluto di una tavoletta sumera di argilla,  un niente in confronto a quanto una singola catena di DNA, una spora o anche un virus può contenere ma era quanto di più longevo potessimo offrire con la tecnologia degli anni settanta del XX secolo.

La panspermia

Nel progetto SETI, sono stati proposti molti modi in cui una possibile civiltà extraterrestre potrebbe rivelarsi: la produzione di onde radio e microonde, raggi laser e maser (una versione della tecnologia laser nelle microonde), modulazione pilotata di una sorgente naturale come una stella (in questa tecnologia potrebbe essere inserito il concetto della Sfera di Dyson [28]) o una pulsar, e così via: tutti sistemi che richiederebbero uno sforzo costante nel tempo, costoso e faraonico, ma con un importante limite temporale: la durata della civiltà. Niente dura per sempre: anche le stelle prima o poi si spegneranno, le galassie si disperderanno e l’Universo stesso finirà per cessare del tutto. Una civiltà aliena potrebbe aver preso in considerazione che il suo tempo è comunque limitato e scegliere quindi un modo più efficace per lasciare la sua testimonianza comunque. Lasciare il proprio epitaffio nel cosmo sotto forma di spore protette nei nuclei cometari della loro Nube di Oort quindi potrebbe essere ben più allettante che impegnarsi in un progetto che prevedrebbe l’uso di tecnologie di trasmissione da manutenere costantemente.
Cosa potrebbe scrivere una civiltà così avanzata in un segmento di DNA? Praticamente di tutto, la sua storia, la sua cultura e le sue aspirazioni. Ma.

La traiettoria iperbolica di ‘Oumuamua dentro il Sistema Solare interno. La posizione dei pianeti è stata fissata alla data del suo perielio mentre la traiettoria del corpo è stata calcolata ogni sette giorni. Le date seguono la notazione inglese. Credit: Wikipedia

Appunto, ma. Sappiamo che una singola catena di DNA può contenere tutta l’informazione necessaria alla riproduzione di ogni essere vivente qui sulla Terra e da poco abbiamo imparato anche come editare direttamente tale contenuto [29]. Non mi sento quindi di escludere il dubbio che una civiltà evoluta possa essere accarezzata dall’idea di voler trascendere al proprio declino cercando di trasmettere sé stessa oltre tale limite. Indirizzare lo sviluppo e l’evoluzione della vita sui pianeti di altre stelle con le sue stesse caratteristiche potrebbe quindi apparirle più allettante ed economico di una qualsiasi trasmissione  lasciata al caso.
In verità questa non è un’idea originale ma è vecchia quasi quanto la nostra cultura: AnassagoraLord KelvinSvante Arrhenius e Fred Hoyle, solo per citarne alcuni,  l’hanno sostenuta. Francis Crick (lo scopritore della struttura a doppia elica del DNA), verso il 1970 credeva che il DNA potesse essere il frutto di una tecnologia aliena, salvo poi ricredersi aprendo alla possibilità che il DNA si fosse spontaneamente sviluppato qui sulla Terra da forme ancora più elementari. Si chiama teoria della panspermia [30] forte. Una teoria estrema, quasi fantastica, ma che poggia comunque su solide basi scientifiche: tutto sta a verificarla. Lo  scorso anno apparve nel nostro sistema solare ‘Oumuamua, il primo corpo extrasolare mai identificato finora [31], a conferma che corpi di provenienza esterna possono viaggiare dentro i sistemi stellari senza problemi.

Nonostante ogni sforzo, finora ancora non siamo riusciti a comprendere come possa generarsi la Vita. Abbiamo creato nuove sequenze genomiche, batteri col più basso numero di cromosomi necessari per vivere, qualsiasi cosa. Eppure nonostante tutto il passaggio fondamentale tra la non-vita e la vita ci rimane ancora ignoto. Ricorrere alla panspermia non è altro che rimandare il problema: dire che la vita come la conosciamo potrebbe essere provenuta da addirittura fuori del Sistema Solare e per giunta per un disegno intelligente sarebbe soltanto un pagliativo e un passaggio in più da spiegare. Eppure l’ipotesi che una antica civiltà abbia disseminato spore vitali per la galassia con l’intento di preservare la sua esistenza passando per altre forme è oltremodo affascinante e a mio avviso merita di essere analizzata. Dopotutto le speculazioni servono a questo.

Ascoltando il silenzio

Nell’articolo precedente ho illustrato la base minima su cui partire per cercare di comprendere il mio pensiero: non credo alla colossale panzana degli ufini ma neppure mi sento di escludere a priori l’esistenza di altre entità biologiche extraterrestri intelligenti che condividono con noi l’interesse di studiare e di esplorare il cosmo.

La vita come la conosciamo è basata sulla chimica del carbonio. Il carbonio a sua volta non è sempre esistito ma è uno dei prodotti di scarto delle reazioni nucleari delle stelle. Le prime stelle dell’Universo apparvero piuttosto presto: appena un centinaio di milioni di anni dopo il Big Bang. Ammettendo un paio di miliardi di anni come ciclo vitale delle prime grandi stelle, potremmo ragionevolmente affermare che l’Universo è in grado di sostenere la vita basata sul carbonio da almeno 9/10 della sua esistenza: cioè circa 12 miliardi di anni 1 [cite]https://arxiv.org/abs/1312.0613[/cite]. Se a questo dato dovessimo aggiungere l’intervallo che potrebbe essere necessario per traghettare la vita verso le forme dotate di intelletto almeno pari al nostro, prendendo la Terra come termine di paragone — in fondo è l’unico che per ora abbiamo, potremmo estrapolare che un cosmo potenzialmente abitabile da specie intelligenti sia possibile da almeno 8 miliardi di anni. È comunque un arco di tempo notevole che in qualche modo fa presente che una eventuale civiltà extraterrestre non va immaginata qui e ora ma cercata anche nella vastità del tempo.
Ogni tipo di comunicazione o segnale, per le nostre attuali conoscenze fisiche, non può essere più veloce della velocità della luce nel vuoto: ogni volta che osserviamo un qualsiasi oggetto, che sia l’albero di fronte a noi o il quasar più lontano nel cosmo, noi lo vediamo come era nel momento t – t_1 in cui la luce lo ha lasciato ( t_1  = d / c).
Questo significa che anche se domani dovessimo scoprire segnali radio o di qualsiasi altra natura provenienti da una civiltà tecnologica extraterrestre, noi non potremmo prendere atto altro che del fatto che in un certo istante nel passato essa è esistita e che potrebbe essere, al momento della sua scoperta, ormai scomparsa. 
Un altro aspetto assai spesso trascurato è che ogni emissione elettromagnetica non è mai a costo zero: essa richiede energia per esistere, sia che si tratti dell’emissione di una stella o della luce di una lampadina o di una trasmissione radio. Certo, si potrebbe obbiettare che per una civiltà tecnologicamente avanzata la produzione di energia potrebbe non essere un problema ma questo a mio avviso non è, anche scientificamente parlando, corretto.
Inoltre, e questo è curioso oltreché vero, che le radioemissioni involontarie provenienti da una ipotetica civiltà extraterrestre che potrebbero rivelarci la sua presenza potrebbero essere assai limitate nella sua storia. Come ho spesso affermato su queste pagine anche in passato, le trasmissioni broadcast radiotelevisive di una potenza significativamente grande sono esistite per poche decine di anni, presto soppiantate da satelliti per le comunicazioni rivolti a illuminare aree limitate del nostro pianeta e cavi in fibra ottica transoceanici. Anche i nostri più perfezionati telefoni cellulari ci consentono di comunicare istantaneamente con ogni altra parte del globo con meno di un watt di radioemissione appoggiandosi a una rete di trasmettitori a bassa potenza e alle tecnologie satellitari, mentre il rumore elettromagnetico di fondo prodotto dalla nostra tecnologia basata sull’elettricità è aumentato a dismisura.
Una civiltà extraterrestre a 100 anni luce che ascoltasse la Terra potrebbe rivelarci tra 20-30 anni per poi vedere il nostro segnale crescere significativamente per una cinquantina d’anni e poi ridiscendere improvvisamente per lasciare il posto a un brusio di fondo molto forte alle frequenze più basse.
Per lo stesso motivo non potremmo percepire la presenza di un’altra civiltà con una storia evolutiva molto simile alla nostra molto a lungo a meno che i suoi segnali non coincidano col nostro periodo di ascolto: le loro emissioni potrebbero aver attraversato il Sistema Solare quando noi attraversavamo gli oceani su fragili caravelle o all’epoca della Guerra Civile Americana e oggi non saremmo più in grado di sentirli. A meno che non lo volessero di proposito ma quella è un’altra storia.

 Il paradosso di Fermi

È questo il vero problema e che potrebbe proporre una plausibile risposta al celebre paradosso: noi conosciamo la tecnologia radio soltanto da un centinaio di anni e solo da ottanta di essi questa tecnologia si è significativamente evoluta: su 8 miliardi di anni noi abbiamo la radio da un 100 milionesimo di questo arco di tempo. Pretendere che ascoltando qualche migliaio di stelle si capti una trasmissione intelligente in così poco tempo è statisticamente impensabile 2. Senza contare che le tecnologie di ricezione e di elaborazione del segnale si fanno ogni anno sempre più complesse ed efficaci: magari quella che allora era sembrata una spuria captata dall’arcaico Progetto OZMA oggi — o in futuro — potrebbe essere interpretata come un segnale intelligente.
Ma comunque qui ancora una volta sfugge una cosa fondamentale che può fallare ogni nostro sforzo: il nostro approccio alla ricerca di vita e intelligenza extraterrestre è comunque basato sul nostro grado di conoscenza e tecnologia, Cerchiamo segnali elettromagnetici — come le onde radio — perché in sostanza essi sono fondamentali nella nostra tecnologia, ma possono esserci altre forme di comunicazione e noi ignote o che non consideriamo come tali. Prendiamo il linguaggio umano: esso è basato sul suono, ossia la compressione modulata del mezzo in cui siamo immersi: l’aria. Ma molte specie di animali comunicano attraverso l’emissione e la ricezione di stimoli chimici come i ferormoni o altre molecole più elementari.

Stiamo ascoltando il silenzio e, a parte alcune ottimisti previsioni, continueremo a farlo per un bel po’. Qualcosa ancora certamente pare sfuggirci. Alla prossima …

 

(Continua…)

Materiale organico interplanetario

Vi è piaciuto il mio Pesce d’Aprile? Non è tropo difficile imbastire una storia verosimile partendo da dati assolutamente corretti e congetture assai plausibili. Nel mondo della fantascienza (quella più seria) accade spesso.
Per questo poi rimaniamo stupiti quando vediamo che molte idee provenienti da quel genere di letteratura vengono effettivamente realizzate: da una parte ci sono scrittori e sceneggiatori che pescano a piene mani nella letteratura scientifica (lo hanno fatto per esempio nelle storie narrate nell’universo Star Trek) e dall’altra ci sono scienziati e ingegneri che da quel mondo traggono la loro ispirazione.

Ma un conto è la celia come la mia e un conto è la patologia di chi immagina e diffonde complotti fatti di scie chimiche, bave militari (semplici ragnatele) e trame aliene varie. Come ho sempre sostenuto,  la scienza sa essere più meravigliosa e impressionante della più sfrenata immaginazione e non chiede di credere semplicemente in essa — non è e non vuol diventare un culto — ma essa semplicemente è.

In alto a destra i dati dello strumento ROSINA della sonda ROSETTA riguardanti la rilevazione della glicina (un aminoacido), in basso a destra il grafico relativo alla concentrazione del fosforo. A sinistra in alto uno schema della sonda e in basso l’orbita di Rosetta attorno alla cometa. Al centro l’immagine raccolta il 25 marzo 2015 della cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko.
Credit: sonda ESA/ATG medialab; cometa: ESA/Rosetta/NavCam – CC BY-SA IGO 3.0; dati: Altwegg et al. (2016)

Coloro che non l’avessero ancora letto, li invito a prendere visione del precedente articolo [cite]https://ilpoliedrico.com/2017/03/animaletti-interplanetari.html[/cite] e aspettare almeno 2 minuti.
L’idea di fondo è che tra i pianeti del Sistema Solare — questa idea dovrebbe essere altrettanto valida anche per tutti gli altri sistemi planetari — ci possa essere uno scambio continuo di materiale organico (ricordo che per materiale organico s’intendono tutti i composti chimici del carbonio quindi anche quelli che non sono di origine biologica) e presumibilmente anche biologico.

Panspermia interplanetaria

Questa si basa su solide basi scientifiche come la scoperta di aminoacidi nelle rocce lunari riportate dalle missioni Apollo [cite]https://www.nasa.gov/feature/goddard/new-nasa-study-reveals-origin-of-organic-matter-in-apollo-lunar-samples[/cite], il ritrovamento di composti organici complessi e aminoacidi in alcune meteoriti [cite]https://ilpoliedrico.com/2011/01/amminoacidi-levogiri-nelle-condriti.html[/cite][cite]https://ilpoliedrico.com/?s=Materia+pre-biotica+nelle+meteoriti+[/cite], le scoperte delle sonde Rosetta e Philae [cite]http://www.esa.int/Our_Activities/Space_Science/Rosetta/Rosetta_s_comet_contains_ingredients_for_life[/cite], etc.
Grazie alle analisi isotopiche dell’aria e del suolo di Marte compiuto dalle sonde Viking [cite]http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1029/JS082i028p04635/abstract[/cite] è stato scoperto che uno scambio di materiale planetario sotto forma di materiale meteorico è possibile.

Aminoacidi sulla Luna

L’astronauta Alan L. Bean, pilota della missione dell’Apollo 12 mentre mostra un contenitore dei campioni di suolo lunare. Credit: NASA

Questo suggerisce che il meccanismo di contaminazione del suolo lunare e quello che ha portato il materiale marziano sulla Terra è quasi sicuramente lo stesso.
Marte è circa la metà della Terra e leggermente meno denso; per questo ha una gravità — e di conseguenza una velocità di fuga —più basse di quella terrestre [cite]https://ilpoliedrico.com/utility/i-pianeti-del-sistema-solare[/cite].
Statisticamente parlando, ogni tanto può capitare che un asteroide o una cometa discretamente grande intercetti un pianeta qualsiasi. Su Marte basta che l’impatto provochi una eiezione di materiale superiore ai 5 km/sec. perché questo sfugga all’attrazione gravitazionale del pianeta per perdersi nello spazio.
Dopo alcune migliaia di anni e l’importante contributo del pozzo gravitazionale del Sole, ecco che può capitare che questi frammenti di suolo marziano, cadano sulla Terra come materiale meteorico.
Così se i meteoriti di origine marziana avessero contenuto materiale organico o biologico [cite]https://ilpoliedrico.com/2014/03/un-altro-caso-marziano-yamato-000593.html[/cite] (ricordo che non sono la stessa cosa) ecco spiegato come questo avrebbe potuto arrivare qui da Marte.
E gli aminoacidi sulla Luna? 65 milioni di anni fa lo stesso asteroide che pose termine all’era dei dinosauri produsse abbastanza energia per eiettare un po’ di crosta terrestre nello spazio. Materiale, soprattutto polvere, che la Luna avrebbe poi raccolto. La Luna non ha atmosfera, quindi tutto quello che poteva raccogliere è stato poi raccolto e conservato.

Conclusioni

Il concetto di panspermia interplanetaria è senza dubbio affascinante  e probabilmente esatto. Esso non pone un limite certo su dove, come e quando si è sviluppata la Vita.
E questo è forse anche il suo più grave difetto, rimanda cioè la domanda principe per cui è stato concepito, in pratica spiega tutto senza spiegare niente; come l’atavica domanda: è nato prima l’uovo o la gallina?

Sangue blu

Chi ama Star Trek non può non sapere che alcune razze aliene (Vulcaniani, Andoriani e Boliani) descritte nella saga  posseggono un ciclo dell’eme basato sul rame piuttosto che il ferro. Ma quella che sembra una semplice trovata narrativa tipica della fantascienza, è molto più vicina alla realtà di quanto si pensi.

 

Un polpo di profondità della specie Gradeledone Boreopacifica. Questa specie vive a 2000 metri di profondità e la sua ‘emolinfa è a base di rame (emocianina).

Quasi tutta la vita animale terrestre fa uso dell’ossigeno per compiere i suoi processi metabolici. Negli organismi più piccoli e semplici le molecole d’ossigeno sono direttamente assorbite dalle cellule dal mezzo circostante, come l’aria, attraverso un intricato sistema capillare di condotti, chiamato sistema tracheale. Questo sistema di trasporto dell’ossigeno lo si trova ancora in uso nella stragrande maggioranza degli insetti, ossia in tutti quelli che ancora possiedono spiracoli tracheali (stigmi).
Finché l’organismo è abbastanza semplice e piccolo il sistema respiratorio basato sul trasporto diretto delle molecole di ossigeno funziona benissimo, ma appena questo si fa più complesso o le complessità dell’habitat rendono il sistema tracheale inefficiente, ecco che in natura appare un sistema respiratorio più complesso ed efficace basato su un sistema di trasporto capillare di proteine respiratorie conosciuto come emolinfa.

Le origini dell’emocianina

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Questo curioso animale (Limulus polyphemus) è stretto parente di ragni e zecche ed è apparso sulla Terra circa 20 milioni di anni fa. L’emolinfa dei lemuli è praticamente incolore ma assume un colore azzurrognolo a contatto con l’aria dovuto all’ossidazione dell’emocianina. l’emolinfa è preziosa per la medicina: essa contiene una proteina che è grado di riconoscere efficacemente i lipopolisaccaridi presenti sulla parete dei batteri Gram negativi ed eliminare questi ultimi racchiudendoli in un coagulo. Questa capacità ha portato allo sviluppo del test in vitro LAL (saggio del lisato di amebociti di limulus).

Le emolinfe sono l’analogo del sangue dei vertebrati. La principale differenza sta negli emociti che sono basati su un tipo diverso di proteina fissatore di ossigeno, molto spesso l’emocianina, basata sul rame. Questa è una metalloproteina contenente due atomi di rame che sono in grado di legare reversibilmente una molecola di O2, al posto della più nota emoglobina usata dai vertebrati e che usa il ferro per legare l’ossigeno.
In genere sono le specie che vivono in ambienti particolarmente freddi e con una bassa pressione di ossigeno ad utilizzare questo meccanismo di trasporto nell’organismo. In queste circostanze l’emoglobina sarebbe meno efficiente dell’emocianina. L’emocianina presenta però anche una bassa affinità di legame col monossido di carbonio rispetto all’emoglobina, il che la penalizza nel trasporto degli scarti della respirazione cellulare.
L’attuale granchio a ferro di cavallo, o lemule, fa uso di emocianina quale proteina respiratoria e può essere considerato un fossile vivente perché nei 20 milioni di anni dalla sua comparsa non si è mai evoluto. I suoi predecessori quasi sicuramente erano le trilobiti (appartengono allo stesso phylum) vissute tra il Cambriano e il Permiano (520-250 milioni di anni fa), quando ancora la Terra non possedeva un’atmosfera ricca di ossigeno (<50% del livello attuale) come oggi [cite]https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC1578726/[/cite]. Ed è proprio in un ambiente relativamente povero di ossigeno che l’emocianina può essersi sviluppata circa 740 milioni di anni fa [cite]http://dx.doi.org/10.1016/j.bbapap.2013.02.020[/cite] poco dopo la comparsa delle prime forme di vita animali 750-760 milioni di anni fa [cite]http://sajs.co.za/first-animals-ca-760-million-year-old-sponge-fossils-namibia/brain-c-prave-anthony-hoffmann-karl-heinz-fallick-anthony-botha-andre-herd-donald-sturrock-craig[/cite]. In quel periodo va ricordato che l’ossigeno rappresentava appena il 5% del volume atmosferico e stava cominciando appena a formarsi lo scudo di ozono; la terraferma era ancora potenzialmente letale se non si era qualche temerario batterio estremofilo.

Le peculiarità dell’emocianina

Ricostruzione a 9 Å ottenuta grazie a un crio-microscopio elettronico della struttura dell’emocianina della Megathura crenulata.

L’emocianina è la seconda catena proteica respiratoria biologicamente più diffusa dopo l’emoglobina. La stragrande maggioranza dei molluschi come i bivalvi e i cefalopodi  e anche alcuni gasteropodi, come i granchi, gli astici e i gamberi, usano l’emocianina come vettore biologico dell’ossigeno. Anche alcuni artropodi terrestri, come i centopiedi e i millepiedi, e qualche altro insetto usano l’emocianina [cite]https://dx.doi.org/10.1073/pnas.0305872101[/cite].
Come già accennato prima, l’emocianina usa gli atomi di rame per legare e trasportare ossigeno. Essa è composta da diverse sotto-unità proteiche individuali in cui ciascuna di esse possiede due atomi di rame (Cu-A e Cu-B) in grado di legarsi con una molecola di ossigeno (O2). Dette sub-unità poi tendono ad aggregarsi tra loro, per questo il peso dell’emocianina è generalmente alto; infatti la struttura molecolare dell’emocianina tende ad essere molto diversa tra gli artropodi (più grande in questi) e i molluschi [cite]http://www.nyu.edu/projects/fitch/resources/student_papers/nigam.pdf[/cite].
In ogni caso le emocianine nel loro complesso sono molto più grandi dell’emoglobina dei vertebrati e in numero nettamente maggiore per unità di volume. Queste catene proteiche possono trasportare dalle 5 alle 180 molecole di ossigeno ciascuna (dipende dalla quantità di sub-sezioni aggregate in una singola proteina) e circolare liberamente nell’emolinfa senza danneggiare l’organismo – l’emoglobina è molto più piccola e necessita di una cellula  per non creare disagio – e per questo nel loro complesso paiono più efficienti. Ma le loro dimensioni e concentrazione aumentano la viscosità dell’emolinfa, il che comporta di conseguenza anche un maggior dispendio di energia per essere distribuita. 

Conclusioni

A questo punto è plausibile pensare che la percentuale dell’ossigeno biochimicamente disponibile abbia pesantemente influenzato l’evoluzione della vita sulla Terra. L’aumento dei livelli di ossigeno molecolare disponibile alla respirazione fu reso possibile dalla comparsa di un’altra proteina, stavolta nel regno vegetale che da poco aveva iniziato a colonizzare anche la terraferma: la lignina (450 Myr) [cite]http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/j.1469-8137.2010.03327.x/full[/cite]. Questo deve aver reso l’esperienza dell’emocianina nel suo complesso inadatta ai più agili e veloci organismi vertebrati che sarebbero apparsi dopo.
L’emocianina e l’emoglobina sono due esperienze di convergenza evolutiva, due proteine con struttura e morfologia completamente dissimili che però svolgono nel complesso lo stesso compito.
Spesso la realtà è nettamente superiore e stupefacente della miglior fantascienza.

LUCA il progenote

Il Peccato originale e cacciata dal Paradiso terrestre è un affresco di Michelangelo Buonarroti, dipinto attorno all'anno 1510 nella volta della Cappella Sistina, nei Musei Vaticani a Roma,

Il Peccato originale e cacciata dal Paradiso terrestre è un affresco di Michelangelo Buonarroti, dipinto attorno all’anno 1510 nella volta della Cappella Sistina, nei Musei Vaticani a Roma,

Nella Genesi biblica c’è un passo che reputo molto significativo: la cacciata dal Paradiso.
Eva, la figura mitologica della prima donna, spinta dalla’incarnazione del Male inteso come l’opposto del Divino, suggerì al suo compagno Adamo ad assaggiare il Frutto Proibito colto dall’Albero della Conoscenza. Fu allora che la coppia primigenia si accorse di essere nuda di fronte alla vastità del Paradiso e venne cacciata.
Amo pensare che il Frutto dell’Albero della Conoscenza sia l’allegoria della Curiosità. E come una di quelle varietà più piccanti di peperoncino che spinge i loro consumatori a ingerire liquidi nel vano sforzo di arginare il disagio, la Curiosità anima la sete di conoscenza che da sempre ci distingue dalle altre specie animali. In questa mia personale interpretazione il Peccato Originale non è altro che l’essenza del Frutto Proibito che si tramanda a tutte le generazioni del genere umano, così come la nudità della Cacciata dal Paradiso la vedo come la rivelazione dell’ignoranza dell’Uomo verso tutto ciò che lo circonda.
L’unico mantello che possa coprire l’umanità consiste nel placare la sua innata sete di conoscenza [1. Ovviamente la mia è solo una libera e personale interpretazione del mito, ma trovo che sia una chiave di lettura che merita attenzione e approfondimento.] e
 questo blog lo si può interpretare come il tentativo di espiare la mia parte di Peccato Originale.

Per i cristiani e gli ebrei il Libro della Genesi spiega come sia stato creato l’Universo e la Vita. Un passo particolare descrive la creazione dell’Uomo: «  Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. »   (Genesi 2,7)

La generazione spontanea

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Cavalier-Smith propone solo due grandi domini tassonomici: Eukaryota e Prokaryota. Il dominio prokaryota in realtà è l’unione dei due domini precedenti, che ora diventano regni, Bacteria e Archaea. Questo diagramma mostra i principali tipi di cellula del mondo vivente e la loro probabile evoluzione partendo da organismi ancestrali comuni. Credit: Cavalier-Smith, 2004

Questo è un chiaro esempio di come nell’antichità si cercasse di spiegare come sia sorta la Vita. Oggi parleremmo di abiogenesi (dal greco a-bio-genesis, “origini non biologiche”), ma esso non è un concetto moderno, bensì è antico quasi quanto l’uomo. Le culture abramitiche convergevano nell’indicare sia l’Uomo che tutti gli altri esseri superiori (cani, cavalli, uccelli ad esempio) fossero stati creati per intervento divino, mentre quelli inferiori (mosche, cimici, blatte etc.) traessero origine dallo sporco e dal sudore. Anche nell’antica Cina esistevano credenze analoghe, così come anche nella cultura babilonese, da cui discendono appunto le moderne religioni monoteiste.
Nel pensiero classico greco la vita era direttamente collegata alla materia. Essa appariva spontaneamente qualora le condizioni ambientali le fossero favorevoli, un pensiero che in astratto è molto più moderno di quanto di primo acchito si creda, come vedremo più avanti. Aperti sostenitori della teoria della generazione spontanea furono filosofi del calibro di Talete, Democrito ed Epicuro, ma fu Aristotele che ne fece una sintesi accurata che sopravvisse fin dopo il Rinascimento. Egli sosteneva che gli esseri viventi nascessero da altri organismi simili ma che talvolta avrebbero potuto anche generarsi spontaneamente dalla materia inerte 1. Perfino pensatori famosi come Newton, Cartesio e Bacone sostenevano l’idea della generazione spontanea della vita.

Dio plasmò […] dalla polvere e soffiò […] un alito di vita.

Però la rivoluzione del pensiero scientifico introdotta da Galileo Galilei non mancò di influenzare anche la biologia. L’aretino Francesco Redi fu uno dei primi naturalisti a sperimentare, e a confutare, la generazione spontanea della vita. Egli contestò l’idea che i vermi sorgessero spontaneamente dalla carne putrefatta. Ben conscio che le sue scoperte minavano la posizione aristotelica della Chiesa, Redi fu molto cauto nel divulgare le sue scoperte; quindi fece in modo che le sue interpretazioni fossero sempre basate su passi biblici, come ad esempio il famoso adagio: “Omne vivum ex vivo” (Tutta la vita viene dalla vita).
Il naturalista aretino non fu il solo, nei decenni successivi molti altri scienziati arrivarono alle stesse conclusioni dimostrando come il calore potesse rendere sterile una coltura. In questo campo furono importanti le ricerche del gesuita Lazzaro Spallanzani 2 nel 1757 e di Theodor Schwann nel 1836.
Nonostante tutto erano ancora molti i naturalisti ancora convinti della generazione spontanea della vita. Ma nel 1864 un esperimento del francese Louis Pasteur pose definitivamente fine all’antica visione. Egli sterilizzò un brodo di carne dentro una beuta col collo piegato prima verso il basso e poi verso l’alto senza chiuderlo. In questo modo l’aria sarebbe potuta entrare nel recipiente senza alcun ostacolo tranne che per le impurità dell’aria che si sarebbero depositate sul fondo della curva del collo della beuta; se l’aria effettivamente conteneva un qualsiasi calore vitale questo avrebbe contaminato il brodo. Invece la coltura non produsse microorganismi né altre forme di vita. Ma quando Pasteur ebbe rotto il collo della beuta i germi ricomparvero subito nel brodo.
Fu così dimostrato definitivamente che in assenza di contaminazione da parte di altra materia biologica non poteva esserci una generazione spontanea della vita come fino ad allora si era inteso; il concetto di generazione spontanea era sbagliato, semmai si doveva parlare di riproduzione spontanea. Il motto di Francesco Redi era salvo.

Il moderno concetto di abiogenesi

Zoonomia, Or, The Laws of Organic Life, in three parts (Erasmus Darwin, 1803)

« Would it be too bold to imagine that, in the great length of time since the earth began to exist, perhaps millions of ages before the commencement of the history of mankind would it be too bold to imagine that all warm-blooded animals have arisen from one living filament, which the great First Cause endued with animality, with the power of acquiring new parts, attended with new propensities, directed by irritations, sensations, volitions and associations, and thus possessing the faculty of continuing to improve by its own inherent activity, and of delivering down these improvements by generation to its posterity, world without end! »
« Sarebbe osare troppo immaginare che, nel lungo periodo di tempo da quando la terra ha cominciato la sua esistenza, forse milioni di secoli prima dell’inizio della storia dell’umanità, che tutti gli animali a sangue caldo siano cresciuti da un singolo filamento vivente, che la grande Causa Prima indusse alla vita, con la possibilità di acquisire nuove parti, migliorato da nuove propensioni, guidato da nuovi stimoli, sensazioni, volontà ed associazioni, e per cui capaci di continuare a migliorare per propria attività naturale, e di consegnare questi miglioramenti attraverso la riproduzione alla propria prole, ed al mondo, senza fine! »

Tutto mostrava che la vita potesse originarsi soltanto da altra vita, o come suggeriva Charles Darwin, da forme di vita più semplici preesistenti.
Charles Darwin, naturalista e geologo britannico, scrisse il suo più celebre saggio “L’origine delle specie” nel 1859, partendo dalle riflessioni e gli appunti di viaggio racccolti nei suoi celebri viaggi attorno al mondo col brigantino Beagle, che già erano apparsi in altri lavori minori del celebre scienziato.
Anche se è indubbiamente giusto ricordare Charles Darwin come il padre della teoria sull’evoluzione delle specie, è altrettanto opportuno ricordare l’humus culturale della sua formazione. Suo nonno, Erasmus Darwin, nel 1794 scrisse Zoonomia, un trattato di medicina che in sé suggeriva già alcune idee sulle teorie evolutive che poi sarebbero state fonte di ispirazione per il naturalista francese Jean-Baptiste de Lamarck. Il lamarckismo 3 è probabilmente la prima teoria evolutiva coerente, anche se oggi ampiamente confutata dalle esperienze scientifiche e di laboratorio, in cui si cerca di superare il concetto di immutabilità delle specie come era raccontato dai filosofi greci e dalla Bibbia.
L’idea di una primigenia forma di vita molto semplice riapre il dibattito su chi o cosa ci sia stato prima. Un po’ come il paradosso dell’uovo e della gallina. Chi è nato prima? Per il misticismo religioso non ci sono dubbi: è tutto merito del divino del credo di appartenenza, per gli scettici qualcos’altro.
È così che l’abiogenesi, data per confutata dagli esperimenti di Pasteur, torna prepotentemente in auge col darwinismo per cercare di rispondere a cosa ci sia stato prima delle prime forme di vita.
Oggi ci riferiamo a questo organismo estremamente semplice chiamandolo LUCA (Last Universal Common Ancestor), un antenato comune a tutti i regni (eucaryota e prokaryota) e domini [cite]http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/15306349[/cite] e quindi comune a tutte le forme di vita esistenti sulla Terra. Il riferimento a questo essere animato è fin troppo evidente nel pensiero di Erasmus Darwin. Ma anche LUCA deve essere venuto da qualche parte, ci devono essere stato qualcos’altro prima di lui, qualcosa che prima era inanimato e che poi è diventato vita.
Possiamo attenderci che una serie di eventi chimici ed energetici abbia coinvolto atomi e molecole combinandoli poi in molecole via via più complesse finché esse non sono state in grado di autoreplicarsi 4 [cite]http://dx.doi.org/10.1063/1.4818538[/cite].
Anche la discussione tra origine autoctona o panspermia lascia sostanzialmente invariata la risposta, decidere se le molecole prebiotiche si siano sviluppate qui sulla Terra o se sono piovute dallo spazio grazie alle comete [cite]http://ilpoliedrico.com/2016/05/alla-ricerca-delle-origini-della-vita.html[/cite]. È come se di fronte a una sala superbamente arredata ci si chiedesse se l’arredatore abbia da sé abbattuto gli alberi e costruito i mobili o abbia usato le tavole dell’Ikea.

Il progenote

phylogenetic-tree-of-life

Questo diagramma, sviluppato studiando l’rRNA comune a quasi tutti gli organismi del pianeta, mostra come i tre domini vita Archea, Bacteria e Eucaryota, siano in realtà imparentati fra loro tramite un ultimo antenato comune universale (il tronco nero nella parte inferiore della struttura). Si noti che la maggior parte dei modelli moderni ora pongono l’origine degli eucarioti all’interno della stirpe archaea. Credit: Wikimedia, CC BY-SA

All’incirca negli ultimi 30 anni sono stati compiuti grandi passi nello studio delle sequenze genetiche. Tale successo ha permesso di identificare e studiare sequenze genetiche comuni alla maggior parte delle specie viventi. Questo è risultato essere molto importante per capire i processi evolutivi di interi gruppi etnici e le loro secolari migrazioni (vedi ad esempio gli Etruschi), ma anche a livello di interspecie, proprio appunto per creare un quadro evolutivo coerente della vita sulla Terra. Lo studio tassonomico di sequenze comuni tra le diverse specie, dai batteri all’uomo per intenderci, ha permesso di scrivere alberi filogenetici come questo qui accanto.
L’analisi di oltre 6 milioni di geni codificanti proteine nel RNA ribosomiale 5 [cite]http://dx.doi.org/10.1038/nmicrobiol.2016.116[/cite], o rRNA, di organismi procariotici ha permesso di isolare un gruppo comune di proteine (355 su 286514, un po’ più dello 0,12%)  che potrebbero aiutare a capire l’ambiente ancestrale in cui il progenote deve aver vissuto.
Il mondo di questi organismi ancestrali comuni vissuti quasi tre miliardi e mezzo di anni fa [cite]http://ilpoliedrico.com/2015/01/sedimenti-naturali-e-strutture-fossili.html[/cite] era assai diverso dal nostro. Ancora non esisteva l’atmosfera attuale così ricca di ossigeno [cite]http://ilpoliedrico.com/2010/07/lantica-storia-della-terra.html[/cite] come la conosciamo e da cui quasi tutti gli organismi pluricellulari attuali dipendono, Secondo le proteine sintetizzate dalla componente genetica comune l’ambiente più adatto al progenote era molto simile agli odierni camini idrotermali delle dorsali oceaniche [cite]http://ilpoliedrico.com/2010/07/ce-vita-anche-laggiu.html[/cite]
Questo antenato comune avrebbe metabolizzato idrogeno, usato il biossido di carbonio e di azoto per replicarsi e il ferro come agente catalizzatore negli enzimi cellulari più o meno come ancora oggi fanno molti microbi termofili anaerobici come l’attuale Clostridium thermoaceticum [cite]https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/1900793[/cite].

Al di là quindi delle origini delle molecole organiche complesse, la vita pare essersi sviluppata in maniera autonoma su questo pianeta e in ambienti molto lontani dalla sola energia solare e da quella parossistica dell’atmosfera. Questa scoperta suggerisce che dopotutto anche mondi posti all’esterno di una zona Goldilocks, come ad esempio i satelliti più grandi dei pianeti esterni, potrebbero dare origine a processi biologici importanti e ospitare forme di vita elementare se fossero sede di fenomeni geotermali persistenti.
Niente fulmini, ma il lento cullar del respiro della terra che incontra il mare.

L’ampiezza di una zona Goldilocks

Questo articolo nasce in seno alla preparazione del materiale di studio per lo stage per i finalisti delle Olimpiadi di Astronomia 2016 presso l’INAF-Osservatorio Astrofisico di Asiago due lezioni, tra le tante, dedicate interamente ai pianeti extrasolari. Sabrina Masiero e il sottoscritto hanno studiato e rivisto i calcoli, più volte, perciò fidatevi!

goldilocksOgni volta che sentiamo parlare della scoperta di qualche nuovo pianeta in orbita attorno a qualche stella, viene spontaneo chiederci se esso può ospitare una qualche forma di vita. La vita come la conosciamo ha bisogno di acqua allo stato liquido per poter esistere, e poter stabilire i limiti dove questo è possibile è di notevole importanza. Questa zona è chiamata Goldilocks o Riccioli d’Oro 1 perché ricorda la bambina della favola, Goldilocks appunto, quando deve scegliere tra le tre ciotole di zuppa, quella che non sia né troppo calda né troppo fredda, giusta.
Calcolare le dimensioni e ‘estensione della fascia di abitabilità di una stella ci permette di capire quanto debba essere grande l’orbita di un pianeta per essere potenzialmente in grado di sostenere la vita.
Per comodità di calcolo verranno qui usati i parametri del nostro Sistema Solare ma conoscendo il flusso energetico (ossia la temperatura superficiale) di una qualsiasi stella e il suo raggio, allora sarà possibile usare questi nei calcoli che qui presentiamo purché si usino le stesse unità di misura.

  • Temperatura superficiale del Sole T_\odot 5778 Kelvin
  • Raggio del Sole in unità astronomiche R_\odot \frac{6,96\times 10^{05} km}{1,496\times 10^{08} km} = 4,652 \times 10^{-03} AU
  • Distanza dal Sole in unità astronomiche a
  • Albedo del pianeta A (nel caso della Terra è 0,36)

Credit: Il Poliedrico

Credit: Il Poliedrico

Come spiegato anche nell’illustrazione qui accanto il flusso luminoso, e quindi ovviamente anche la temperatura, obbedisce alla semplice legge geometrica dell’inverso del quadrato della distanza.
La luminosità di una stella non è altro che la quantità di energia emessa per unità di tempo e considerando una stella come un corpo nero perfetto, si trova che L_\odot= 4 \pi {R_\odot}^2\sigma {T_\odot}^4, dove \sigma è la costante di Stefan-Boltzmann.
Pertanto un pianeta di raggio R_p in orbita alla distanza a dalla sua stella di raggio R_\odot riceve una certa quantità di energia che riemette nello spazio come un corpo nero e raggiungendo perciò un equilibrio termico con il flusso di energia ricevuto. \frac{\pi {R_p}^2}{4\pi a^2}=\left ( \frac{R_p}{2a} \right )^2\tag{1}
Il pianeta offre solo metà di tutta la sua superficie alla stella ( 2 \pi {R_p}^2), per questo si è usato questa forma, perché il flusso intercettato è pari alla sezione trasversale del pianeta (\pi {R_p}^2), non tutta la sua superficie, mentre invece tutta la superficie del pianeta, quindi anche la parte in ombra, è coinvolta nella riemissione di energia ( 4 \pi {R_p}^2).
Una parte del’energia ricevuta dal pianeta viene riflessa comunque nello spazio in base al suo indice di riflessione (fosse idealmente bianco la rifletterebbe tutta così come se fosse idealmente nero l’assorbirebbe tutta); questo indice si chiama albedo A e varia di conseguenza tra 1 e 0. La forma “1- A” consente di stabilire quanta energia è quindi assorbita da un pianeta: (1-A) \times 4 \pi {R_\odot}^2 \sigma {T_\odot}^2\times \left ( \frac{R_p}{2a} \right )^2\tag{2}

Semplificando il tutto e eliminando per un attimo anche la superficie della sezione trasversale del pianeta, quasi insignificante come contributo al calcolo, si raggiunge questo risultato: {T_{eq}}^4 =(1-A){T_\odot}^4\left ( \frac{R_\odot}{2a} \right )^2\tag{3} T_{eq} =(1-A)^{1/4}{T_\odot}\sqrt{\left ( \frac{R_\odot}{2a} \right )}\tag{4}
Se usassimo questi valori per la Terra usando come è stato detto le lunghezze espresse in unità astronomiche otterremo: T{eq}= (1-0,36)^{1/4} \cdot 5778 \sqrt{ \left(\frac{4,625 \times 10^{-03}}{2 \cdot 1 }\right )}=249 K\tag{5}

Purtroppo non è dato sapere a priori l’albedo di un qualsiasi pianeta, esso varia infatti col tipo e composizione chimica dell’atmosfera e del suolo di un pianeta, per questo può risultare conveniente omettere il computo dell’albedo nel caso di un calcolo generale senza per questo inficiarne nella bontà, un po’ come è stato fatto anche per la superficie del pianeta prima. Così la formula può essere riscritta più semplicemente come  T_{eq} ={T_\odot}\sqrt{\left ( \frac{R_\odot}{2a} \right )}\tag{6}
Se ora volessimo calcolare entro quale intervallo di distanza dalla stella vogliamo trovare un certo intervallo di temperatura potremmo semplicemente fare l’inverso per aver il risultato espresso in unità astronomiche: a=\frac{1}{2} \left (\frac{T_\odot}{T_{eq}} \right)^{2}R_\odot\tag{7}

Diagramma di fase dell'acqua. La possibilità dell'acqua di rimanere allo stato liquido a pressioni molto elevate le consente di svolgere il ruolo di lubrificante delle placche continentali. Fonte dell'immagine: Wikipedia.

Diagramma di fase dell’acqua in ordine alla temperatura e pressione.
Fonte dell’immagine: Wikipedia.

Per trovare un intervallo di temperature compreso tra 240 K e 340 K nel Sistema Solare dovremmo andare tra i 1,35 e 0,67 AU.
Perché ho usato questo strano intervallo di temperature pur sapendo che alla pressione canonica di 1 atmosfera l’acqua esiste allo stato liquido tra i 273 e i 373 K?
Semplice 2! Ogni pianeta possiede una sua atmosfera (ce l’ha anche la Luna anche se questa è del tutto insignificante) che è in grado di assorbire e trattenere calore, è quello che viene chiamato effetto serra. L’atmosfera della Terra ad esempio garantisce a seconda dei modelli presi come riferimento da 15 a 30 e più gradi centigradi di temperatura in più rispetto alla temperatura di equilibrio planetario, consentendo così all’acqua di essere liquida pur restando ai margini superiori della zona Goldilocks del Sole.

Aggiornamento

Non riporterò questo aggiornamento di stato nel sito Tutti Dentro dove questo articolo è uscito in contemporanea a qui. Questa aggiunta è mia e me ne assumo ogni responsabilità verso i lettori per quello che sto per scrivere.

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Forse non è stato compreso bene che nonostante il ruolo dell’albedo sia importantissimo nel calcolo esatto per stabilire se una precisa orbita cade all’interno di una zona Goldilocks, esso purtroppo è un dato che non è possibile stabilire per adesso nel caso dei pianeti extrasolari. Si possono considerare un ampio spettro di possibilità, diciamo tra un albedo di 0,99 e 0,01, indicare un valore medio tra questi due oppure scegliere tra uno de valori che sono suggeriti in questa tabella o oppure ancora si può scegliere di non usare affatto l’indice albedo in questa fase di calcolo, come ho fatto deliberatamente io in questa fase. Dopotutto si deve stabilire un discreto intervallo di possibili orbite di un pianeta di massa non bene definita su un ampio intervallo di possibili temperature di equilibrio attorno ad una stella lontana.
Prendiamo ad esempio il Sistema Solare visto da una manciata di parsec e si supponga fosse stato possibile identificare sia Venere che la Terra, di conoscere la loro distanza e il loro  albedo.
Applicando l’equazione sprovvista del computo dell’albedo qui sopra (\frac{1}{2} \left (\frac{T_\odot}{T_{eq}} \right)^{2}R_\odot) , essa restituisce una temperatura di equilibrio, che per Venere sappiamo essere di  253 kelvin, di 327  K, ma che corretta per l’albedo, ossia:  a=\frac{1}{2} \left (\frac{T_\odot}{T_{eq}} \right)^{2} R_\odot \sqrt{1-A} dà esattamente il valore corretto. Un errore del 29% in più ma che per albedo inferiori tende quasi ad annullarsi.
Un altro metodo che era stato proposto e fatto passare come l’unico valido  a=\frac{\sqrt{1-A}}{2} R_\odot \left (\frac{T_\odot}{T_{eq}}\right)^2 sembra esattamente equivalente allo stesso metodo corretto per l’albedo qui suggerito (\frac{1}{2} \left (\frac{T_\odot}{T_{eq}} \right)^{2} R_\odot \sqrt{1-A}), ma si dimostra essere del tutto fallace se usato senza tenere conto dell’albedo; con lo stesso esempio precedente si arriva a definire la temperatura di equilibrio di Venere a 462 K, l’83% in più.

Sono piccolezze, è vero, e di solito non amo polemizzare – anche se qualcuno potrebbe pensare il contrario – e ammetto che non sono un gran genio nella matematica, di solito faccio dei casini enormi nelle semplificazioni (ma non in questo caso). Ma amo sperimentare, rifare i calcoli decine di volte prima di scriverli e pubblicarli, per cui quando lo faccio so che sono corretti e testati decine di volte come in questo caso.
Ho scelto di offrire il mio modesto aiuto a una cara amica per questo appuntamento e scoprire che presuntuosamente veniva affermato che questo lavoro era sostanzialmente errato non l’ho proprio digerito. Con questo  stupido esempio ho voluto mostrare la bontà di questo lavoro  che consente a scapito di un lieve margine di errore di poter essere usato anche senza tener conto dell’albedo di un pianeta; ho scelto Venere perché avendo l’albedo più elevata era quello che più avrebbe messo in difficoltà il procedimento descritto in questo articolo (se avessi usato la Terra avrei avuto un 12% a fronte di 58%).
Quindi il mio invito è quello di non raccattare formule a caso qua e là sulle pubblicazioni più disparate e spacciarle per buone senza averle prima provate, smembrate e ricomposte; qui l’errore è evidente, non serve molto per vederlo. Potreste dire poi delle castronerie che prima o poi si rivelano per quel che sono: ciarpame.

Alla ricerca delle origini della vita

Il bacino del Sudbury in Canada è uno degli ultimi resti dei grandi bombardamenti cometari subiti dalla Terra nella sua infanzia di cui sia rimasta qualche traccia.  Il suo studio è quindi molto importante per capire cosa è davvero successo in quell’epoca così remota e come sia arrivato il nostro pianeta ad ospitare la Vita.

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Credit: NASA & MNDM

Credit: NASA & MNDM

Nella regione dell’Ontario (Canada) esiste un cratere, ormai quasi del tutto eroso dal tempo, vecchio di 1,8 miliardi di anni. Fu una cometa di circa dieci o quindici chilometri a provocarlo, più o meno quanto si pensa che fosse stato il terribile asteroide che si suppone pose fine al dominio dei dinosauri su questo pianeta 65 milioni di anni fa. Perché vi possiate rendere conto delle dimensioni, immaginatelo grande quanto Firenze o Deimos, una luna di Marte.
Un impatto di un corpo simile oggi contro la Terra è molto più remoto che in passato, se dovesse comunque accadere esso segnerebbe la fine della nostra civiltà e probabilmente anche della nostra specie. Ma impatti simili nei primi 500 milioni di anni della Terra quasi sicuramente hanno portato gli ingredienti necessari alla vita e creato le condizioni ambientali adatte perché questa potesse formarsi e prosperare.
La comparsa della vita sulla Terra avvenne circa 3,8 – 3,4 miliardi di anni fa, ossia appena 700 milioni – un miliardo di anni dopo la sua formazione, circa alla fine del periodo conosciuto come Intenso Bombardamento Tardivo. Un periodo forse fin troppo breve per spiegare la formazione di molecole complesse come la glicina, la β-alanina, gli acidi amminobutirrici etc. che si suppone siano state i precursori della vita sul nostro pianeta. Diversi studi [cite]http://www.acs.org/content/acs/en/pressroom/newsreleases/2012/march/new-evidence-that-comets-deposited-building-blocks-of-life-on-primordial-earth.html[/cite] svolti in passato mostrano come le molecole organiche più semplici che comunemente vengono osservate nelle nubi interstellari possono essere arrivate qui sulla Terra cavalcando le comete senza distruggersi nell’impatto ma altresì trovare in questo l’energia sufficiente per formare strutture organiche , peptidi, ancora più complesse [cite]http://ilpoliedrico.com/2012/05/aminoacidi-astrostoppisti.html[/cite].

sudbury-impact1Da diverso tempo si sono sostituite le scariche elettriche dei fulmini e delle radiazioni ultraviolette delle teorie di Haldane e di Oparin con fonti energetiche più dolci e continue come le bocche idrotermali oceaniche. Lì metalli come ferro, zinco, zolfo disciolti in un ambiente acquatico ricco di energia non ionizzante, avrebbero avuto modo da fungere da catalizzatori per la creazione di molecole organiche complesse prebiotiche e, in seguito, per la vita. Le ricerche di laboratorio però mostrano che anche i luoghi di impatto cometario possono essere stati luoghi altrettanto interessanti.
Il bacino di Sudbury è ideale per verificare questa ipotesi: l’impatto cometario ha deformato la crosta fino a una profondità di ben sedici chilometri, permettendo così ai minerali di nichel, ferro e zinco di risalire dal mantello. Il cratere, inizialmente inondato dal mare subito dopo l’impatto, è poi rimasto isolato abbastanza a lungo da permettere la formazione di un sedimento spesso un chilometro e mezzo. Per i ricercatori che attualmente stanno studiando questo complesso [cite]http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0016703716301661[/cite] l’acqua raccolta nel cratere avrebbe quindi promosso i processi idrotermali non dissimili a quelli che vengono attualmente osservati nelle dorsali oceaniche.

Qui gli ingredienti per la creazione della vita ci sono tutti: molecole organiche semplici che vengono portate sulla Terra da una cometa e che si pensa che possano sopravvivere all’olocausto dell’impatto e trasformarsi in molecole anche più complesse; l’acqua trasportata dalla stessa cometa e dal mantello fessurato; energia prodotta dall’attività idrotermale indotta dall’impatto; metalli e solfuri pronti per fungere da catalizzatori per i processi organici immediatamente disponibili …
Insomma, un mix di condizioni ideali all’abiogenesi iniziale possono essersi create già nei primissimi milioni di anni di vita della Terra.