Il patto dello scorpione

Uno scorpione camminava sulle rive di un fiume cercando il modo di attraversarlo. Ad un certo punto vide una rana nuotare nel fiume e subito la chiamò: “Fammi salire sul tuo dorso, e accompagnami sull’altra sponda del fiume, altrimenti non potrò mai attraversarlo.” “No” rispose la rana “so bene che mi pungeresti e morirei in pochi secondi”. Ma lo scorpione replicò: “Non ti pungerò: se lo facessi mentre siamo nel fiume morirei anch’io annegato”.
La rana si fece convincere e permise allo scorpione di salire sulla sua schiena. Quando erano a metà del percorso, lo scorpione punse la rana, che subìto iniziò a perdere le forze. Prima che il veleno la uccidesse del tutto chiese allo scorpione: “Perché l’hai fatto? Adesso moriremo entrambi.” “Io non volevo farlo” rispose lo scorpione “ma è la mia natura.”

 

Oramai la situazione politica in Italia è precipitata talmente in basso che non può più risollevarsi da sola; la politica è riuscita a stravolgere il significato stesso delle parole, ad appropriarsi di concetti fondamentali come giustizia e libertà, amore e bellezza.
L’operazione è riuscita talmente bene che oramai il cittadino italiano medio non si rende conto che è stato spogliato via di tutto, anche e soprattutto dei suoi più fondamentali diritti costituzionali come il diritto ad un’esistenza dignitosa, all’eguaglianza sociale al momento della nascita, a un’istruzione e una sanità paritaria, ridotto oramai a un termine nell’equazione economica italiana. Il termine stesso consumatore denota l’attenzione che si volge a quell’entità che prima di tutto è un Individuo, una Persona con esigenze ed emozioni.
Gli stessi operai che sono licenziati perché costa troppo mantenerli al lavoro, sono gli stessi che vengono tartassati perché la macchina burocratica italiana non si fermi, sono gli stessi che si vedono continuamente aumentare il prezzo dei beni primari necessari alla sopravvivenza, con un governo -questo- che vuole privatizzare anche l’acqua.
Apparentemente tutto questo ha origine dall’attuale leader italiano Silvio Berlusconi ma secondo me è troppo facile e riduttivo interpretare così le cause che sono alla base del declino italiano. Credo piuttosto che tutto abbia avuto inizio, se mai ce ne fosse stato uno, dalla mancata piena attuazione della Costituzione Italiana del 1948 durante l’intero arco della storia repubblicana. Uno dei principi cardine è l’articolo tre che recita:

 

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese

 

Quindi parlare di riforme costituzionali quando la stessa non è mai stata applicata nei suoi principi fondanti è un non-sense, ma c’è un motivo perché fosse così. La piena attuazione della seconda parte di quest’articolo sarebbe stata di ostacolo ai poteri economico-politici, in primis a quelle strutture che si erano sapute riciclare ed erano sopravvissute all’era fascista. Era necessario che in contrapposizione al partito comunista (il PCI) più grande del blocco occidentale ci fosse un partito borghese (la DC) capace di tenergli testa, anche con mezzi poco leciti.
Tra questi c’erano i finanziamenti occulti alla DC da parte dei servizi segreti americani (in contrapposizione ai finanziamenti sovietici al PCI) e il voto di scambio per ottenere numeri, quindi voti, importanti. All’epoca era quindi tutto lecito, anche l’eliminazione di personaggi scomodi come Enrico Mattei, reo di voler rendere l’Italia un paese energeticamente indipendente e il delitto Moro, reo questo di voler cercare un’alleanza col partito d’opposizione, il PCI.
Mentre il PCI cercava e trovava consenso nelle fabbriche tra gli operai, diretti discendenti dei contadini, la DC trovava nelle regioni dell’Italia meridionale, il suo bacino elettorale, grazie anche al meccanismo del voto di scambio e a rapporti con figure ambigue nate con la liberazione della Sicilia dall’esercito anglo-americano. Le altre forze politiche erano troppo piccole per assumere un ruolo espressivo al momento, per cui possiamo tranquillamente affermare che il bipolarismo già c’era all’inizio della storia repubblicana, ma mancava solo una cosa: l’alternanza di governo.
Il benessere sociale dovuto al periodo della ricostruzione dei danni della seconda guerra mondiale, alla scommessa sul mercato interno e l’onda lunga dell’opera d’imprenditori come Mattei e Olivetti, resero il traguardo della piena attuazione dell’articolo terzo quasi una cosa scontata, ma non fu così: in contrapposizione ai movimenti sessantottini, alle conquiste sociali come una legge sul divorzio e l’aborto, quest’ultime invise dal Vaticano, si contrappose una stagione del terrore in cui pezzi importanti dello Stato, giocarono nel campo avverso, ossia contro lo stesso Stato.
Questo culminò con il delitto Moro, ma intanto grazie alla stagione del terrore, il cui scopo era quello di eliminare le frange più estreme della società, gli attuatori di questa fase ebbero modo di intrecciarsi fra loro definitivamente e di organizzarsi in quella struttura parallela allo Stato conosciuta come Propaganda Due (P2) capitanata da Licio Gelli, imprenditore aretino con contatti importanti con le dittature sudamericane e con i servizi segreti di altri paesi. Il suo piano di Rinascita Democratica prevedeva la ristrutturazione dello Stato andando contro al dettato costituzionale con l’apparente scopo di una maggiore efficienza, ma in realtà con l’obbiettivo di restaurare le classi sociali in base alla loro ricchezza, l’impoverimento dell’appena nata classe borghese e il ridimensionamento del potere operaio, il censo più basso.
L’occasione fu data proprio dalla classe politica ufficiale, che a fronte della necessità di non permettere al PCI di salire al governo del paese, non si era mai rinnovata in quarant’anni (salvo fino all’apparizione di un partito fino ad allora marginale come il PSI che, con un segretario abile ma avido come Bettino Craxi), si era incancrenita e corrotta alla guida del Paese. La fine del blocco sovietico e la dissoluzione dell’URSS fecero mancare i finanziamenti al PCI, il quale si adattò assai rapidamente a quello che oramai era il Sistema Italiano, arrivano perfino nel 1991 a cambiare nome (PDS), nomenclatura e base di riferimento: se prima il PCI guardava al mondo operaio, adesso si spostava verso gli interessi di una fascia più colta e ristretta di intellettuali e borghesi in nome del rinnovamento, lasciando scoperte frange importanti del mondo operaio, che furono poi raccolte da un nuovo movimento  secessionista nato nel 1990, la Lega Nord (infatti, non di rado coesisteva nel mondo operaio l’abitudine delle due tessere:  quella del più grande sindacato di sinistra, la CGIL, e la tessera del partito leghista).
La magistratura italiana intanto scoperchiava il fronte della corruzione politica azzerando l’intera classe politica; in qualche modo gli eredi del PCI si salvarono perché non avevano avuto abbastanza tempo ad adattarsi definitivamente alla prassi politico-clientelare, anche se alcuni elementi della corrente migliorista, vicina al PSI, ne fu colpita.
Nel frattempo avvennero due fatti importanti: approfittando del caos politico conseguente all’operazione Mani Pulite, la finanza internazionale riuscì a distruggere la terribile concorrenza dell’l’IRI, un colosso da 67 miliardi di dollari di fatturato col controverso episodio del Britannia combinata alla speculazione di George Soros, avviando così la dismissione dell’intero sistema industriale italiano. Questo caos distrusse quindi non solo una classe politica corrotta, ma azzerò anche il tessuto industriale del paese che si era creato nel dopoguerra consegnando il paese a quei personaggi che erano riusciti a sopravvivere a Mani Pulite anche grazie alla P2, solo apparentemente sopita. Il piano di Rinascita Democratica inizia a compiersi.
Vi ricordate dello scorpione e della rana? La classe politica e imprenditoriale, ormai sempre più autoreferenziale, sta cercando di auto perpetuarsi togliendo al popolo anche la possibilità di scegliersi la classe dirigente grazie ad una legge elettorale ad hoc, non esiste più un tessuto industriale che sia di sostegno all’economia reale, ormai è lo scorpione che a dorso della rana (l’Italia) cerca di attraversare il fiume ma che nel frattempo la morde: la fine di questa classe (anti) politica coinciderà solo con la fine dello Stato se nel frattempo non sarà trovato l’antidoto al veleno mortale.

Una nuova speranza

Il fatto che Berlusconi ricopra un ruolo istituzionale che gli dia il potere di far approvare leggi che nel frattempo lo assolvino anche dai reati commessi, non implica affatto che debba usarlo. Ad esempio la depenalizzazione del falso in bilancio, reato di cui era accusato, se da un lato ha salvato alcune migliaia di artigiani e imprenditori (tra cui lui), dall’altra ha creato un danno a milioni di altri cittadini, tra cui altri artigiani e imprenditori (non lui) che hanno sempre pagato le tasse; questo discorso sii estende a tutte le altre leggi ad personam o ad aziendam (vedi il recente caso con Sky o la legge Gasparri): beneficio per pochi (tra cui lui) e scapito per gli altri (non lui)
Quando mani pulite scoppiò, tra gli accusatori che volevano un Parlamento pulito, c’erano moltissimi che adesso stanno (per fortuna per ora invano) santificando Craxi; lo stesso Berlusconi elogiò e poi invitò nel suo primo governo Di Pietro, lo stesso Berlusconi che ha dato mandato ai suoi figuri (Feltri, Bel Pietro e Signorini) di screditarlo; a questo fuoco mediatico si è adesso unito il Corriere della Sera che tira fuori presunte foto compromettenti di Di Pietro che in realtà non facevano allora, come non fanno ora, nemmeno cronaca. Lo stesso Corsera che qualche mese fa pubblicò lo scoop della D’Addario, se quello era solo gossip allora, perché non deve esserlo oggi per le foto di Di Pietro? Eppure la D’Addario si era introdotta nella casa privata di un primo ministro armata di registratore, provate ad immaginarvi Gordon Brown che si porta una prostituta col registratore a Downing Street…., mentre Di Pietro è andato a cena con altre persone tra cui Contrada, ma che anche se fosse stato indagato, ancora non aveva nemmeno ricevuto l’avviso di garanzia, come se voi capitaste a una cena di amici tra cui uno è spacciatore a vostra insaputa! Un primo ostacolo a Mani Pulite fu il decreto Conso, seguito poi da altre iniziative politiche che impedirono al pool di Milano di finire il lavoro iniziato con Mario Chiesa, quindi vedere nel’incompiutezza dell’opera un disegno criminoso è semplicemente ingenuo. Piuttosto un disegno criminoso lo evidenziò la commissione Anselmi su Propaganda 2 e sul piano di Rinascita Democratica di Licio Gelli, ma ovviamente di quello non si parla, del Affare Britannia che riunì il gotha dell’economia italiana con i banchieri inglesi che decretò la fine delle Compartecipazioni Statali e l’avvio delle privatizzazioni selvagge, l’incauto tentativo del governatore Ciampi di resistere a Soros che faceva affondare la sterlina e la lira facendole uscire dallo SME per deprezzare le aziende statali che dovevano essere privatizzate, ma di questi progetti criminosi nessuno ne parla; della distruzione sistematica dell’istruzione pubblica che dovrebbe essere salvaguardata dalla Costituzione, ma che è stata distrutta in questi ultimi vent’anni, a cui certo Berlusconi attraverso i suoi ministri della istruzione non è immune, ma nemmeno il governo D’Alema con la concessione delle parificazioni tra scuola pubblica e la privata cattolica non fu da meno, ma di tutto questo non si parla: si sente dire che dobbiamo investire in ricerca e poi si toglie la Geografia dall’insegnamento alle superiori accorpandolo allo studio della Storia, ma togliendo le ore settimanali di scuola e tagliando i fondi: fra un po’ dovremmo comprare i brevetti all’estero come attualmente fanno i paesi del terzo mondo, ma comunque dovremmo finanziare le madrasse vaticane per i nuovi fondamentalisti cristiani di domani…
No, nei fatti Berlusconi e D’Alema, dx e sx si equivalgono nel compito di demolizione dell’Italia, la distinzione classica dx e sx non ha più senso, se mai ne avesse avuto uno. Questa finta divisione serve solo a far scannare la gente convinta di essere ognuno nel giusto dalla parte sua, come un a partita di calcio, non troverai mai un tifoso obiettivo che ammetta un fallo della sua squadra; io a questo stupido gioco non ci stò, e quindi me ne tiro fuori.
Io spero e mi auspico una classe Politica nuova, che anteponga il benessere di tutti alla ricchezza di pochi, Berlusconi voleva sembrare il nuovo ma ha dato riprova del suo completo disinteresse ai problemi italiani occupandosi solo dei suoi interessi anche a scapito del benessere collettivo e la sx italiana quando ha governato ha fatto la stessa identica cosa (lo disse anche Violante in parlamento) , e constato ogni giorno sempre di più persone anche nel centro-dx che concordano con me: questa classe (anti)politica tutta deve essere cortesemente invitata a farsi da parte e lasciare le nuove generazioni non macchiate dai troppi compromessi alla guida del paese, solo così ci potrà essere un nuovo Rinascimento, altrimenti sarà il nostro Medioevo prossimo venturo.

Critiche all’italico sistema

I componenti della nostra classe dirigente fanno di tutto fuorché occuparsi dello stato inteso come nazione, ma come stato sociale (il loro), si difendono tra loro, si autotutelano e si autoassolvono dei loro crimini. Il fatto che ci siano 18 condannati in via definitiva in Parlamento e che questi legiferino sulla liceità o meno della condotta di 60 milioni di persone ne è la riprova. Quando abbiamo personaggi ondivaghi che saltano da una parte all’altra dell’Emiciclo, non sono loro delle banderuole, ma le due parti (destra e sinistra) che si equivalgono pur cambiando nome. Per difendere il loro ruolo, che essi si sono presi, hanno disarticolato ogni sistema di partecipazione cittadina col voto bloccato, magari per poi inventare gazebo e finte primarie per darsi una parvenza di democraticità.
E quando un’indagine sta per mostrare il marciume, il clientelismo e lo spreco ecco, prima si facevano esplodere le autostrade, ora si bloccano le intercettazioni e si demonizzano i giudici alla TV e nei giornali, salvo per poi gridare contro l’immigrato o lo stupratore, veri strumenti di distrazione di massa, come il calcio, il grande fratello e le veline.
Ogni governo (dx o sx) taglia e distrugge la scuola da oltre vent’anni col risultato che i giovani neolaureati o accettano un miserrimo posto da centralinista di call center co.co.pro o vanno all’estero a fare quello per cui hanno studiato: in media uno studente costa allo Stato dalle elementari alla laurea intorno alle 500.ooo euro per poi venireabbandonato a sé stesso, lasciandogli come alternativa l’emigrazione all’estero o concorsi più o meno pilotati per posti spesso mal retribuiti; infatti riducendo la spesa per la ricerca viene mandato via deliberatamente quello che serve ad una nazione, specie in un momento di crisi economica, ossia la capacità di innovazione, un nuovo Rinascimento.
Invece di aiutare e motivare i ragazzi a contribuire alla rinascita di questo paese anche con incentivi economici, diamo (altri) aiuti alla Fiat (che ha sempre privatizzato gli utili e nazionalizzato le perdite) perché l’auto è un cardine centrale dell’economia italiana. Benissimo, ma perché non vengono legato gli aiuti all’obbligo di ricerca verso forme di trasporto meno inquinanti: quanti si ammalano di cancro per inquinamento nelle metropoli e finiscono a carico del S.S.N.? quanti milioni di euro si potrebbero reinvestire?
È di queste ore la proposta del ministro del lavoro Sacconi di introdurre degli stages di apprendistato (in realtà lavorativi) fin dall’età di 15 anni per aggirare surrettiziamente l’età minima lavorativa che in Italia coincide con la fine della scuola dell’obblico, cioè 16 anni. Una proposta per ceri versi assurda, se si pensa alla disoccupazione giovanile e quella fascia non più produttiva ma che ancora non ha maturato il diritto alla pensione.
Ma se guardiamo bene, tutto questo accanimento su ciò che è pubblico è funzionale a un controllo totale del pensiero e della persona, una persona istruita, ma anche solo curiosa che si pone delle domande, è vista come pericolosa, la democrazia, la libertà e la giustizia sono concetti giudicati pericolosi. Per questo viene continuamente attaccata la nostra Costituzione: essa è come il sistema immunitario del Paese, scardinarla vuol dire distruggere il Paese e rinnnegare chi è morto per essa.
Allora ecco che il cittadino viene reso schiavo con le tasse, in perenne debito con sé stesso tramite il debito pubblico in costante aumento, con il controllo dei media principali perché non pensi ma anzi arrivi ad osannare chi lo riduce in braghe di tela, con la distruzione dell’istruzione pubblica perché l’indottrinamento dei media possa fare presa e non possa avere strumenti per pensare.
Per questo non arriverà mai una banda larga per Internet in Italia, per questo il WiMax è stato bloccato e non vedrà mai la luce, per questo la cogenerazione di energia è di fatto disincentivata, l’acqua viene privatizzata: a tutto ciò che è democratico non deve essere permesso di essere.
Una volta le dittature si muovevano con la repressione e la superstizione, oggi il ruolo della repressione è stato relegato come ultima risorsa, la prima è la disincentivazione dell’informazione come fonte di conoscenza: il recente equo compenso esteso a tutte le memorie di massa ha questo scopo: rendere sempre meno appetibile la tecnologia, renderla un lusso alla portata di sempre meno persone. Una telecamera o un cellulare o un palmare sono visti come strumenti del dissenso e siccome non possono essere proibiti, se ne disincentiva l’acquisto.
L’acqua pubblica genera dissenso politico: una amministrazione comunale inefficiente può essere mandata a casa dagli elettori, ma questi non hanno alcun potere nei confronti dei consigli di amministrazione di una SpA (che spesso sono nominati dagli stessi politici) che opera in regime di monopolio, per questo in Puglia si sta scatenando un’inferno sui candidati regionali: da una parte c’è chi vuol mantenere pubblico uno degli acquedotti più grandi d’Europa e chi invece lo vuol dare in gestione ai privati…
Lo sfruttamento di risorse energetiche alternative estremamente diluite come l’energia solare potrebbe avere un ruolo importante per lo sviluppo economico del paese, a patto che o piastrelliamo la Puglia con una immensa centrale solare o redistribuiamo la produzione energetica sulle case degli italiani, sui capannnoni industriali etc. Ma così si impedirebbe alle lobby energetiche (ENI-ENEL in primis) di fare utili e di acquistare consenso (!) presso i politici ed eccco quindi rispuntare una tecnologia pericolosa per l’ambiente forse più dei combustibili fossili: il nucleare.
l nucleare: ma questi politici hanno una vaga idea dei costi di questa fonte energetica? Senza incentivi statali e considerando i costi del processamento e stoccaggio del combustibile esausto il costo per ogni kWora è improponibile per il mercato anche col petrolio a 200 dollari al barile e siccome non abbiamo più questo tipo di tecnologia, nonostante fosse stata inventata da brillanti menti nate in Italia come Enrico Fermi Ettore Majorana etc., essa è stata riacquistata dalla Francia con denaro pubblico italiano, che si sarebbe potuto reinvestire in ricerca e sviluppo di energie alternative, come appunto l’eolico e il fotovoltaico, prendendo esempio dalla Germania che nonostante un tasso di insolazione annua nettamente inferiore a quello italiano ha messo a regime e tuttora investe molto di più di noi nel fotovoltaico

L’Italia degli onorevoli: affari, cachemire e soldi

Questo è un bellissimo post che riporto per intero così come l’ho trovato, che efficacemente illustra l’attuale condizione politica italiana con poche parole, senza dietrologie e oscuri complotti, “l’ismo” da combattere non è là fuori, è dentro di noi, nel nostro DNA,. Buona lettura.


Probabilmente non ci si deve più stupire, né indignare nel vedere lo spettacolo che il nostro bel Paese – socialmente e politicamente – ci offre.
In realtà siamo i figli della più volgare dittatura (di destra) che l’Europa abbia conosciuto, e ne paghiamo ancora le conseguenze (o forse ci sguazziamo dentro tutti quanti).
Non l’austera, oscurantista e baciapile dittatura di Franco, tra Cristo Rey, mantiglie nere, cavalieri dalla trista figura e corride sanguinose; non quella di Salazar, cupa, misera, volutamente isolata e volutamente ignorante, sebastianista e razzista; e non quella mitica, pagana, supina, obbediente, scientificamente macellaia e perennemente in divisa di Hitler.
No, la nostra è stata una dittatura di una volgarità inarrivabile: dalla Marcia su Roma, sorta di gita fuori porta a fave e pecorino o di viaggio organizzato per pensionati con vendita di batteria da cucina o trasferta rissosa e avvinazzata al seguito della squadra del cuore; al “Boia chi molla” (certamente nonno del “celodurismo padano”); al manganello sempre citato anche nei suoi doppi sensi; alla punizione/umiliazione dell’olio di ricino: vera rappresentazione in stile Ambra-Jovinelli e ora Bagaglino dell’umorismo del rutto e della scoreggia; alla buffoneria del Duce: parole vuote ma altisonanti, ammiccamenti, barzellette da piazzista, mani sui fianchi, mascella in fuori, abbigliamento da buffone (il duce aviatore, il duce marinaio, il duce pilota d’automobili, il duce operaio, il duce borghese buon padre di famiglia, il duce gagà amante instancabile, il duce banchiere, il duce fantino a Villa Borghese…) o non-abbigliamento altrettanto ridicolo (il duce a torso nudo che taglia il grano, il duce in costume che nuota,…); alla pochezza e all’ignoranza dei suoi ministri e generali; alla menzogna ispiratrice di ogni azione militare (i milioni di baionette, la forza aerea, quella navale, e invece le scarpe rotte, la mancanza di preparazione, di mezzi, di tattica, di scienza militare, che ci hanno visti sconfitti e in fuga su tutti i fronti…); l’arte esibita e volgarizzata nel cattivo gusto del Vittoriale e nelle vestaglie orientaleggianti del Vate cocainomane…; l’iscrizione al Partito per convenienza, per ottusità, per quieto vivere, per corrompere ed essere corrotti, per non partire militare, per non pagare le tasse, per rubare sulle forniture o sulle grandi opere del regime; il doppiogiochismo della Chiesa e il suo chiudere gli occhi davanti alla distruzione degli ebrei d’Europa, davanti ai rastrellamenti di ebrei e partigiani fatti dai “ragazzi di Salò”;…
Ed è di tutto ciò che noi siamo figli. Non dei Garibaldi e dei Mazzini, dei Cavour e dei Croce. Ma di omuncoli come il vigliacco re Umberto e la sua corte (progenitore di un Vittorio Emanuele impresentabile, di una volgarità – la sua e della sua famiglia – granitica, forse il più basso esempio di testa coronata che l’Europa abbia mai prodotto). E poi gli intellettuali regolarmente iscritti al Partito Nazionale Fascista che l’indomani la Liberazione riescono a farci credere di essere candidi come sante vergini; un inciucio politico che ha visto per la gran parte lasciati ai loro posti prefetti, questori, giornalisti di regime, responsabili della deportazione di ebrei e di prigionieri vari, che in cambio di questo silenzio condiviso taceranno su stragi rosse e vendette personali, su foibe e gulag. È il paese del volemose bene, dell’uno a me e uno a te; del chiudiamo un occhio; del girarsi dall’altra parte. Per cui dopo una breve parentesi postbellica dedicata al tentativo di ricostruzione e di coesistenza semi pacifica tra comunisti e democristiani, si assiste alla negazione delle speranze e delle buone intenzioni dei Di Vittorio, dei De Gasperi, degli Einaudi, dei Nenni.
E si assiste alla creazione di una delle burocrazie più inscalfibili e potenti del mondo; di una classe politica in gran parte inefficiente e mangiasoldi; di una collusione continua tra potere mafioso e potere politico e industriale; di una Giustizia inefficiente e corrotta; si assiste impotenti (ma anche silenti e quindi in certi casi conniventi) a una continua, progressiva, inarrestabile distruzione del territorio, alla cementificazione di chilometri e chilometri di coste e montagne, all’abbandono e allo spreco delle opere d’arte, alla fuga dei cervelli, alla finta ospitalità nei confronti di milioni di immigrati, all’incapacità di mantenere un minimo di democratico ordine pubblico.
Poco da stupirsi quindi di una situazione come quella attuale: fatta di volgarità e di veline, di cachemire di sinistra e di doppiopetti di destra, di telespazzatura e di tasse non pagate (a destra, a sinistra, al centro), di furbetti del quartierino e di furboni delle cooperative, di rolex d’oro e di bandane, di tette finte e di telethon, di grandi fratelli e isole dei famosi, di piagnistei in diretta, di piduisti trasformati in statisti, di risse televisive, di razzismo mascherato, di telefonini regalati ai bambini e di suv, di opere pubbliche mai realizzate, di mignotte travestite da intellettuali e di intellettuali travestiti da mignotte, di turismo caciarone e di buonismo elettorale, di notti romane, di calciatori violenti, di cori razzisti, di parcheggi in doppia fila e di raccomandazioni, di mandolini e di catene da picchiatore, di passamontagna di sinistra, di caschi di destra, di centri sociali finanziati e di ospedali e cronicari fatiscenti, di ronde leghiste, di matrimoni celtici…
E così via… (ma l’elenco è molto, molto più lungo).
In mezzo a tanto letame (come diceva De Andrè) ci sono anche i fiori, certamente, ci sono anche le persone oneste – socialmente e intellettualmente -, ma il rischio di soffocamento è alto. Senza contare i suggerimenti dei giornalisti. Esempio del niente che spesso distribuiscono. Durante la quotidiana rubrica che conduce alla radio, Barbara Palombelli è riuscita a dire, a proposito della tragedia haitiana: “L’effetto positivo delle grandi catastrofi è che adesso ho sentito che c’è un sacco di gente che si è messa a pensare”. Peccato non tremi la terra ogni giorno. Pensando, pensando l’ Italia potrebbe cambiare.

Paolo Collo (Torino, 1950) ha lavorato per oltre trentacinque anni in Einaudi, di cui è tutt’ora consulente. Ha collaborato al supplemento “Tuttolibri” della “Stampa”; ora scrive per “Repubblica”. E’ curatore scientifico di diverse manifestazioni culturali a Torino, Milano, Cuneo, Ivrea, Trieste. Ha tradotto e curato testi di molti autori, tra cui Borges, Soriano, Rulfo, Amado, Saramago, Pessoa.

Financial Fools' Day

Ho ritrovato un mio vecchio appunto dell’anno scorso (aprile 2009) di Loretta Napoleoni, importante economista italiana che studia l’economia legata ai fenomeni mafiosi, che illustra efficacemente la situazione economica mondiale e come essa sia intimamente legata alla criminalità. Buona lettura.


Senza la cocaina il PIL di molti Paesi occidentali crollerebbe. La criminalità organizzata investe centinaia di miliardi di guadagni della coca all’anno in immobili, titoli, aziende. La coca tira l’economia, ma anche l’economia tira la coca. La mancanza di liquidità non riguarda i capitali mafiosi che possono fare shopping mondiale a basso prezzo grazie alla crisi. Chi controlla il capitale controlla la società. Ma chi controlla il controllore del capitale? Loretta Napoleoni esperta di sistemi finanziari e di terrorismo è intervenuta a Bruxelles al Parlamento Europeo il primo aprile scorso.
“Se fino adesso vi siete depressi, dopo il mio discorso sarete proprio a terra, lo dico subito!
Oggi è una giornata particolare perché a Londra, dove ci sono stati degli scontri tutto il giorno da parte del movimento contro il capitalismo e in particolare nella City di Londra, dove gran parte degli sconti che avete sentito hanno avuto ampio svolgimento, è stato chiamato il Financial Fools’ Day che sarebbe il pesce d’aprile finanziario.

Credo che questa sia una descrizione abbastanza divertente per descrivere la rabbia e la disperazione della gente nei confronti di una crisi economica creata dalle banche, non solamente dalle banche italiane, purtroppo, ma anche le banche mondiali, di fronte a una crisi epocale, in cui prima di tutto non si sa cosa fare, si incontrano domani questi del G20 con la speranza che risolveranno in quelle poche ore in cui si incontreranno e si faranno molte foto, risolveranno i problemi del mondo, tutto sicuramente non succederà e queste manifestazioni a Londra in un certo senso ci dicono che la gente è stanca di tutte storie e quindi non ci crede più.
Di professione faccio l’economista e vi dico che non è un bel momento per la mia professione, molti si aspettano che quando faccio questi discorsi, tiro fuori il turbante e la sfera di cristallo perché ormai il sinonimo dell’economia è la chiromanzia, questa è la situazione. Quindi oggi ho pensato, invece di parlarvi del futuro di raccontarvi una storia del passato, perché secondo me la storia è in un certo senso la nostra guida e noi molto spesso ce la dimentichiamo, infatti abbiamo completamente perso la memoria storica.
Voglio raccontare il fenomeno di interdipendenze economiche, come una legislazione introdotta in un paese, in particolare parliamo del Patriot Act, una legislazione per bloccare il finanziamento del terrorismo, in realtà poi ha creato una situazione tremenda, deleteria in un altro paese e qui parliamo dell’Europa, come questa legislazione ha trasformato l’Europa nella lavanderia del denaro sporco del mondo e tutto questo è avvenuto dall’11 settembre fino a oggi, sotto i nostri occhi e noi non ce ne siamo neanche resi conto.
Cominciamo questo racconto dalla cosiddetta deregulation di cui domani parleranno i grandi del mondo nella speranza di ridurre i danni causati dalla deregulation e gran parte delle storie che avete sentito fino adesso sulle banche, sono legati proprio alla deregulation, all’assenza di legislazioni e all’introduzione di un grande livello di libertà nelle mani delle banche, senza nessun controllo da parte dello Stato.
Cosa succede con la deregulation? Praticamente c’è l’abbattimento delle barriere finanziarie, c’è l’abbattimento anche delle legislazioni finanziarie, dei controlli tra un paese e l’altro e chi ne ha approfittato? In realtà ne ha approfittato il crimine organizzato, ma anche l’economia illegale e i gruppi armati.
Dall’inizio degli anni 90, fino al 2001 si forma quindi un nuovo sistema economico, dove confluiscono gli interessi di queste categorie, il che vuole dire che si formano joint venture, la relazione che esisteva tra le FARC colombiane e i narcotrafficanti, si formano anche delle associazioni tra vari gruppi armati e i gruppi criminali per usufruire di alcuni canali finanziari, attraverso i quali si ricicla il denaro sporco.
L’ammontare totale, il fatturato, il Pil, la produzione monetaria di questo sistema economico, ammontava prima dell’11 settembre a 1.500 miliardi di dollari il che vuole dire circa il 5% dell’economia mondiale, questo era quasi tutto in dollari, un 90% di questa produzione monetaria era in dollari, la denominazione preferita era il dollaro, il biglietto da 100 dollari. Gran parte di questo flusso di denaro sporco veniva riciclato negli Stati Uniti e quindi in dollari attraverso i paradisi fiscali delle isole dei Caraibi.
In realtà questo riciclaggio era benefico per l’economia americana, equivaleva a una iniezione di contante e questo lo scopriamo analizzando i dati della domanda e dell’offerta di moneta americana. Dalla metà degli anni 60, fino al 2001 una quantità crescente della nuova moneta, quella che viene stampata ogni anno dalla riserva federale, usciva dal circuito nazionale illegalmente, questi erano soldi che uscivano nelle valigette oppure nelle scatole di cartone portate via, facendo finta che fossero scatole necessarie per traslochi etc., quindi illegalmente e questi soldi andavano a soddisfare la domanda di moneta prodotta dall’economia criminale, ma anche dall’economia terrorista e dalla varia economia illegale.
Nel 2001 2/3 della nuova offerta di moneta americana, quindi dei soldi stampati nel 2001 è uscito dagli Stati Uniti in questo modo, ammontava a 500 miliardi di dollari l’offerta di moneta, il che vuole dire che la crescita monetaria degli Stati Uniti era più bassa, quindi la domanda di moneta dell’economia americana, di quella che proveniva invece da fuori e era sostenuta dal mondo del crimine, dal mondo del terrore e dall’economia illegale, ma c’è un altro aspetto molto interessante di questa interrelazione e è il fatto che il dollaro è la riserva monetaria mondiale, il che vuole dire che il tesoro americano può prendere in prestito soldi contro l’ammontare totale di dollari nel mondo, quindi l’indebitamento americano è pari a quanti dollari ci sono in giro per il mondo.
Il Patriot Act e il riciclaggio di denaro
E’ chiaro che se l’economia criminale domanda ogni anno una quantità crescente di dollari, gli Stati Uniti possono indebitarsi sempre di più, questo è valido solamente per gli Stati Uniti, perché fa parte del cosiddetto “signoraggio”.
In Europa tutto questo non succede, per esempio la Banca centrale europea non può emettere obbligazioni per un ammontare superiore alla quantità di Euro in circolazione nei paesi dell’Unione, anche se magari una quantità enorme di Euro è in circolazione negli Stati Uniti o addirittura in Asia o in Africa etc., quindi gli Stati Uniti sono in una posizione ideale, lo erano anzi in una posizione ideale fino all’11 settembre, perché questo? Perché la situazione cambia radicalmente l’11 settembre.
Viene introdotto il Patriot Act, quest’ultima è una legislazione antiterrorista, voi chiaramente lo conoscete benissimo, viene prodotta nell’ottobre 2001 e entra in vigore nel novembre 2001, la sezione finanziaria del Patriot Act è quella del ci interessa, il Patriot Act aveva come obiettivo la riduzione del finanziamento del terrorismo, ma questo obiettivo chiaramente non è stato raggiunto

, perché in realtà è una legislazione contro il riciclaggio del denaro sporco e vediamo perché, ci sono due elementi fondamentali nel Patriot Act: 1) viene proibito alle banche americane, straniere che sono registrate negli Stati Uniti di avere qualsiasi tipo di relazione commerciale con le banche dei paradisi fiscali, quindi si chiude la porta di accesso, ma anche quella porta di uscita del denaro sporco e del denaro riciclato che erano i paradisi fiscali dei Caraibi.
L’altro elemento interessante è che si dà alle autorità monetarie la possibilità di monitorare tutte quante le transazioni di dollari nel mondo e se una banca americana, una banca che è straniera e che opera negli Stati Uniti non le allerta di transazioni sospette, questa banca viene punita penalmente e sappiamo di storie interessantissimi nella “Lloyds Bank” è l’ultima che è stata punita e che ha dovuto pagare un ingente quantità di denaro, ma anche la USB etc., quindi cosa succede? Succede che il Patriot Act viene introdotto solamente negli Stati Uniti, si riferisce solamente a un dollaro e rivoluzione completamente i flussi monetari dell’economia legale e dell’economia illegale.
Guardiamo prima i flussi legali, chiaramente alle banche internazionali questa legislazione non è piaciuta perché nessuno vuole che nel 2001 le Patriot Act di un paese vadano a vedere cosa succede tra la banca e il cliente, come abbiamo sentito poco fa, quindi cosa succede? Succede che le banche internazionali decidono di consigliare ai loro investitori, ai loro clienti di abbandonare l’area del dollaro e di muoversi verso l’Euro. L’Euro è la nuova moneta europea, è da poco che è in circolazione, offre grossissime opportunità ma soprattutto in Europa non esiste una legislazione simile al Patriot Act, in Europa ci sono i paradisi fiscali che funzionano benissimo, nessuno controlla nulla e quindi ecco che abbiamo questo flusso di uscita dal dollaro verso l’Euro e è molto interessante studiare la correlazione tra l’introduzione del Patriot Act, l’inizio della caduta del dollaro e l’inizio della rivalutazione dell’Euro e c’è un gruppo di economisti nell’OECD che ha fatto una ricerca e ha messo in correlazione tutti questi vari dati e praticamente la verità è questa, che l’inizio dell’era dell’Euro coincide con la fine dell’era del dollaro, ma questo non si riferisce solamente ai flussi legali, un elemento importantissimo nella rivalutazione dell’Euro è l’economia criminale, infatti il mondo del crimine si trova in una situazione abbastanza complessa, nel senso: cosa fare? Non si può più riciclare negli Stati Uniti, diventa difficilissimo riportare il denaro in patria perché in realtà il problema del riciclaggio non è solamente quello di pulire le monete, è soprattutto quello di mettersi in tasca i profitti dell’attività criminale, esistevano alcuni stratagemmi, per esempio c’era il black pesos money exchange che usavano i colombiani dove i narcotrafficanti agivano da veri e propri uffici di cambio, cosa succedeva? Che magari un imprenditore colombiano voleva andare negli Stati Uniti, non voleva allertare le autorità monetarie che avrebbe portato dei soldi all’estero e quindi pagare la tassazione e anche cambiare i soldi al cambio ufficiale, andava a uno di questi uffici di cambio e depositava i pesos, una volta arrivato a New York, qualcuno gli portava una valigetta piena di dollari, questi dollari chiaramente erano i proventi della vendita della cocaina da parte dei narcotrafficanti.
L’allenza tra narcotrafficanti colombiani e ‘ndrangheta
Il problema fondamentale era un altro, era che negli anni 90, grazie alla globalizzazione, i proventi del commercio della droga erano aumentati a dismisura, quindi i narcotrafficanti dovevano trovare un metodo di riciclare a livello industriale, perché le quantità monetarie erano enormi e vi dico che l’80% del riciclaggio avviene in contante, quindi il black pesos money exchange non aveva la possibilità fisica di macinare tutto quanto questo denaro e è a questo punto che un emigrato italiano, Salvatore Mancuso in Colombia, diventato capo del gruppo paramilitare delle AUC, ha indea geniale, decide che il modo migliore è di mettere in contatto i suoi compari dell’ndrangheta insieme con i narcotrafficanti colombiani e lì nasce questa alleanza fantastica, nel senso, per i colombiani è stata una svolta, è vero!
E’ una svolta perché? Perché si apre la possibilità di esportare cocaina in un altro continente, in un continente che in un certo senso era un po’ limitrofo perché fino allora la cocaina andava semplicemente dal sud al nord e quindi andava negli Stati Uniti, c’è questa possibilità, in più c’è la possibilità di sviare le restrizioni del Patriot Act, perché in Europa è facilissimo riciclare, non ci sono legislazioni che controllano e che puniscano questi tipi di attività.
Allora cosa succede? Inizia un’attività di vendita di cocaina, di esportazione di cocaina dalla Colombia, arriva inizialmente in Calabria, in Calabria, l’ndrangheta la prende e la distribuisce attraverso il suo network , rete che ha in Europa e qui ci dobbiamo fermare un attimo perché in realtà tutto questo è potuto avvenire soprattutto perché l’ndrangheta aveva una rete in Europa, Cosa nostra questa rete non ce l’aveva, la camorra non ce l’aveva, l’unica organizzazione di crimine organizzato che aveva una rete capillare, ma non solamente in Europa, nel resto del mondo è l’ndrangheta e questa rete era stata costruita attraverso la diaspora dei calabresi di milioni di milioni di calabresi che negli ultimi 30/40 anni si erano recati all’estero e quindi avevano fatto gli immigrati, quindi l’ndrangheta in realtà era al posto giusto nel momento giusto e ha usato anche il cervello perché invece di offrire un tipo di servizio a alto costo, ha fatto esattamente il contrario, ha offerto ai narcotrafficanti di fare importazione, vendita, riciclaggio attraverso la stessa rete, perché all’interno della rete c’era un gruppo di avvocati, di commercialisti, agenti immobiliari che una volta che i soldi vengono racimolati, li prende e grazie all’esistenza dell’Euro li sposta da un paese all’altro, li investe nel settore immobiliare perché questa rete lavora con alcuni agenti immobiliari e praticamente pulisce soldi, genera profitti e poi tornano normalmente attraverso il sistema bancario in patria in Colombia.
Tutto questo l’ndrangheta lo fa con un costo del 30%. Negli Stati Uniti riciclare il denaro sporco ai narcotrafficanti, costa dopo l’introduzione del Patriot Act circa il 60%, quindi l’ndrangheta offre un servizio fantastico. In più riesce a fare un marketing, questa è l’intelligenza secondo me dell’organizzazione, della cocaina sul mercato europeo vendendola a prezzi bassissimi, per cui la cocaina entra in concorrenza con le droghe leggere, non con le droghe pesanti e così vediamo che dal 2001 fino a oggi, la diffusione della cocaina come droga di divertimento della classe media è aumentata esponenzialmente, vedete com’è facile? Basta che uno ha il cervello e ha la rete, in realtà questa è la verità, non ci sono leggi, non ci sono controlli, voi immaginate che per esempio in questo tipo di riciclaggio che avviene attraverso il settore immobiliare, è difficilissimo controllarlo, perché per esempio l’ufficio del catasto della Costa del Sol, non ha possibilità di parlare con l’ufficio del catasto di Londra, non esiste nessun contatto, quindi non si può sapere se una società sta acquistando nello stesso momento o in momenti successivi in vari parti dell’Europa, in più non c’è un sistema che monitora le transazioni finanziarie e monetarie in Euro da un paese all’altro, non esiste!
Una masnada di delinquenti
Quindi la situazione europea è ideale, ecco perché l’Europa è diventata la lavanderia del mondo. Per quanto riguarda poi l’ultima evoluzione, così finiamo e andiamo a casa… l’ultima evoluzione avviene nel 2005, la domanda di cocaina chiaramente aumenta a dismisura perch

é costa poco, è una droga divertente, l’ndrangheta ha fatto un marketing fantastico e quindi il trasporto comincia a pesare sulla rapidità con la quale queste spedizioni avvengono, allora cosa si decide? Si decide di trasformare la Guinea Bissau in un transhpment point, quest’ultimo è un punto dove la droga generalmente si ferma e da lì viene ridistribuita e l’idea è geniale perché con i piccoli aerei, aerei da turismo dalla Colombia o dal Venezuela perché molta di questa droga passa attraverso il Venezuela, si arriva a nella Guinea Bissau in 3 o 4 ore, la Guinea Bissau diventa un narcostato e viene puntualmente colonizzato, acquistato dai narcotrafficanti, lì si organizzano dei magazzini dove la droga arriva, viene depositata, lo stesso giorno arrivano i compratori europei, la comprano, la prendono, la riportano in Europa o con piccoli aerei un con piccole imbarcazioni.
In una settimana oggi come oggi abbiamo la cocaina dal produttore colombiano al consumatore nelle discoteche europee, questa è la situazione, la maggior parte di questo commercio è controllato da organizzazioni criminali legate all’ndrangheta italiana.
Quindi qual è la lezione di questa storia? Vi vedo molto negativi. La storia è questa che bisogna accettare il fatto che esistono interdipendenze economiche tra l’economia legale e l’economia illegale, è inutile che ci facciamo queste illusioni che non è vero, molti dei prodotti che comprate in un modo o nell’altro vanno a arricchire gente che sono dei delinquenti, non è solamente la droga, è tutto, quindi se vogliamo veramente fare qualcosa, vogliamo bloccare questo commercio, se vogliamo anche risolvere il problema della crisi economica, perché in realtà questa è una crisi economica che è stata creata da una masnada di delinquenti perché questi sono i banchieri che hanno creato quello che succede oggi come oggi, dobbiamo accettare che esistono queste interdipendenze e solamente evitando la contaminazione tra l’economia criminale, illegale e la nostra economia noi potremo andare avanti, perché altrimenti la situazione che vi ho descritto diventerà una situazione sempre peggiore e noi saremo sempre più delle vittime!”

Loretta Napoleoni

C’è sempre qualcuno che sta più a nord

Questa non è roba mia, ma è un estratto di un libro, credo, di Gian Antonio Stella. L’ho riportato qui perché finché esisterà questo blog e qualcuno avrà la bontà a la pazienza di leggere quest’articolo, ci sia, spero, anche una memoria attiva. Buona lettura.

Alla borsa di Zurigo la quotazione di Attilio Tonola era di due cigni e sedici merli. Lo stabilì il tribunale di Coria, che diede al più feroce dei suoi assassini due anni di galera. Una condanna che ebbe sui giornali svizzeri molto meno spazio e sollevò meno scandalo della notizia che certi italiani pazzi di fame, e ignari di quanto quella carne facesse schifo, si erano mangiati come un cappone il cigno di un parco. Gesto indegno ripetuto da altri tschingge (così erano chiamati i nostri: dal suono che faceva alle orecchie elvetiche il grido cinq!: lanciato dai giocatori di morra) con lo spiedino non meno immangiabile di tre merli. Crudeltà punite dai giudici locali rispettivamente con quattro e con tre mesi di carcere.
Era il 1° marzo 1969, quando si svolse il processo. Gli imputati erano un manesco elettricista, e due fratelli: Joseph e Armin Schmid. Li accusarono d’aver ammazzato Tonola, un tranquillo operaio valtellinese di Villa Chiavenna, sposato e padre di quattro bambini, massacrandolo di botte e urlando “caiba cincali!”. Un insulto in dialetto intraducibile che significava più o meno “lurido bastardo italiano” e veniva come tschingge dal gioco della morra.
Congiurava tutto, contro i tre razzisti. Avevano ucciso con le aggravanti dei motivi ignobili e di essere stati totalmente ubriachi dopo una serata passata a bere per festeggiare il compleanno di Armin. Avevano passato precedenti penali per reati di vario genere compresa, nel caso di Armin, una tentata evasione dal penitenziario di Celerina, nei Grigioni. Avevano cercato, prima di andarsene a dormire, di sbarazzarsi del corpo trascinandolo in un garage dove l’Attilio, avrebbe accertato l’autopsia, era morto soffocato dal sangue colato in gola dalle ferite che gli avevano inferto, già a terra, prendendolo a calci in faccia con gli stivali. Congiurava tutto meno un dettaglio: loro erano svizzeri, il morto italiano.
Durò due giorni, il processo. Due giorni. I giornalisti gli dedicarono poche righe. Il dibattimento si svolse senza che mai venisse nominata la parola xenofobia nonostante i tre si fossero allontanati barcollando dopo il pestaggio bofonchiando ancora “caiba cincali!”. L’aggressione (si sa che gli italiani sono attaccabrighe…) fu derubricata in rissa. L’occultamento di cadavere o almeno l’omissione di soccorso sparirono davanti a una spiegazione ridicola presa per buona: “Era ancora vivo, l’abbiamo posto al riparo, faceva freddo e non volevamo lasciarlo in strada”. E per finire il pubblico ministero, cosa mai vista al mondo in una causa per omicidio, rinunciò alla replica dopo le arringhe dei difensori. Sentenza: 2 anni a Bernard Sgrutter, 15 mesi a Joseph Schimd e assoluzione per suo fratello Armin.
Un verdetto vergognoso, seguito dal rifiuto dell’istituto nazionale svizzero di assicurazione di pagare un solo franco (se fu una rissa non fu un omicidio) alla vedova e ai quattro bambini del poveretto. Ma niente affatto isolato. Tre anni prima, nel 1966, il tribunale di Araau aveva condannato per omicidio premeditato (ripeto: premeditato) un falegname, Kurt Haeberle, che aveva confessato d’aver ucciso a martellate l’operaio Vincenzo Rossi e di averlo poi buttato dentro un altoforno: 6 anni. Tre anni dopo, nel 1972 quello di Briga avrebbe giudicato con la stessa “imparzialità” la strage di Mattmark. Ricordate? 88 operai, quasi tutti stranieri di cui 55 italiani, che avevano lavorato in un cantiere sotto il ghiacciaio dell’Allalin, rimasero sepolti il 30 agosto 1965 da una gigantesca frana. Si accertò che il ghiacciaio aveva già dato evidentissimi segni di smottamento. Che i responsabili del cantiere lo sapevano. Che ciò non li aveva dissuasi dal fare costruire dei baraccamenti proprio sotto la linea di caduta. Che non avevano previsto alcun servizio di monitoraggio per controllare se per caso un pezzo di montagna si fosse mossa. Eppure il pubblico ministero, pur accusando del disastro 17 persone, fu clemente: non solo rinunciò a chiedere ogni forma di pena detentiva (che per omicidio collettivo prevedeva fino a tre anni), ma propose per tutti multe dieci volte inferiori a quelle fissate a quelle fissate dal codice. Uno schifo. Superato dalla sentenza: tutti assolti e spese processuali a carico dello Stato. Il capolavoro, però, doveva ancora venire. E sarebbe arrivato appunto nell’ottobre 1972 col verdetto d’appello: tutti assolti e spese per metà a carico dei parenti dei morti. Imparassero a non rompere le scatole.
Tutto rimosso, abbiamo. Tutto cancellato. Sepolto.
Come la strage del 1875 a Goeschenen raccontata dal giornalista Remo Griglié in una storia della costruzione della galleria del San Gottardo rimasta sciaguratamente inedita. Storia segnata da un’ecatombe tra gl’italiani che costituivano il 90% degli operai: 144 furono ammazzati dalle esplosioni di dinamite o dai crolli, altre decine da una serie di malattie, prime fra tutte le infezioni intestinali, dovute alle condizioni di lavoro. “In galleria faceva un caldo torrido” racconta Griglié. “A causa dei gas scaturiti dallo scoppio di una volata di mine si respirava a fatica. E forse quel giorno non funzionavano a pieno ritmo i ventilatori aspiranti. A un certo punto, pare in seguito agli ordini impartiti con contorno di ingiurie da un capo squadra molto duro che intimava ad accelerare il ritmo per la rimozione del materiale scavato, alcuni operai buttarono le pale. “Ora basta – presero a urlare – Smettiamola”. E presero la corsa in direzione dell’uscita. Si formò così un gruppo di fuggiaschi che via via andò a ingrossarsi sino a raggiungere la consistenza di un’ottantina di uomini. L’uscita però era lontana; perché vi erano da percorrere quattro o cinque chilometri di tunnel appena abbozzato, lungo il quale lavoravano i rifinitori. Questi, vedendo i fuggiaschi, pensarono allo scoppio imminente per qualche “mina gravida” e a loro volta corsero via terrorizzati”. Era il 27 luglio.
“Nel volgere di mezzo’ora tutti cessarono di lavorare e uscirono. Così presso l’imbocco di Goeschenen si formò un assembramento di uomini molto agitati, collerici, esasperati. E forse già timorosi delle conseguenze che sarebbero arrivate dall’abbandono collettivo del lavoro.” Fu solo nel tardo pomeriggio che il direttore dei lavori, l’ingegner Ernst Der Stockalper, ricevette una delegazione dei minatori. “Ascoltò le confuse e balbettanti lamentele sul clima, sull’aria irrespirabile, sui ritmi forzati di lavoro, sulle paghe inadeguate. “Avete ragione. Qui la vita è dura e probabilmente ingiusta. Chi non se la sente di continuare non ha che da andarsene. Passi dalla cassa e sarà liquidato. Chi, invece, desidera continuare a lavorare con noi, torni subito al suo posto. Subito”. Girò i tacchi e uscì dalla stanza”.
Ormai si era fatto buio. Furenti per la risposta sprezzante, i minatori decisero di entrare in sciopero e di picchettare l’ingresso della galleria. Visto come buttava, l’ingegnere non perse tempo. E spedì un telegramma alla direzione della società, ad Altdorf: “I minatori sono in sciopero e bloccano i lavori. Mandare 50 uomini armati e franchi 30.000”. I soldi dovevano servire forse per liquidare gli operai costretti ad andarsene, forse per pagare le spie tra i manifestanti. A cosa servissero i fucili, invece, si sarebbe visto il giorno dopo.
La notte passò senza incidenti. Bastonati dal vino e dalla fatica, i minatori si misero a dormire. E dormirono fino a tardi. Quando si svegliarono, a metà mattinata del 28 luglio, un certo sergente Troesch, “una specie di sceriffo privato, era già al lavor

o giù ad Altdorf, allo sbocco della vallata del Reuss, per raccogliere in giro per le osterie un po’ di mercenari disposti per dieci franchi al giorno a dare una lezione agl’italiani. Una decina ne trovò lì, un’altra lungo la strada a Wassen dove lavoravano molti austriaci del Voralberg molto ostili verso i nostri emigrati, un’altra ancora all’arrivo a Goeschenen. Trenta persone in tutto, armate con fucili Milbank – Amsler nuovi fammianti, comperati “precauzionalmente” prima ancora che cominciassero i lavori al traforo, e dieci cartucce a testa”.
Alle dieci di sera, la soldataglia arruolata dalla società si mosse. E marciò verso la piazza dov’era l’ufficio postale, che era un po’ il punto di riferimento degli immigrati. Tutti gli operai come avrebbe dimostrato l’inchiesta, erano disarmati. Appena videro quella “truppa dei padroni” arrivare, cominciarono a tirar addosso dei sassi. La risposta fu terribile: fuoco a volontà. Per cinque, sei minuti. Un inferno. Quando fu tutto finito, le luci delle lanterne illuminarono i corpi di 4 minatori morti e altri 10 feriti gravemente. Il giorno dopo, rimossi i cadaveri e licenziati 80 operai, i lavori riprendevano. Tra le ironie del Basler Nachrichten, un giornale di Basilea che irridendo ai poveretti in fuga sotto le pallottole degli assassini, scrisse: “L’italiano è molto spavaldo quando tiene lui il pugnale in mano. Ma diventa molto incerto non appena si trova di fronte la forza”.
Tutto rimosso. Cancellato. Sepolto. Come i cartelli affissi per decenni, fino agli anni Settanta del Novecento, sulle vetrine di bar e ristoranti. “Vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”. Come i sondaggi che vedevano il 76%, che oggi hanno radicalmente cambiato idea, considerare “assolutamente negativa” la nostra immigrazione. O come la sentenza che nel 1974, l’anno in cui Claudio Baglioni cantava “E tu” Mario Ponticelli girava Romanzo Popolare e Pippo Baudo faceva Senza Rete, vide il tribunale di Zurigo chiudere in una sola udienza (una!!) il processo Gerhard “Gerry” Schwitzgebel, un balordo altro due metri e pesante 130 chili che nel 1971 aveva ammazzato a pugni e calci un bellunese, Alfredo Cardini, venuto a cercar fortuna nella dolce Helvetia lasciando a Cortina d’Ampezzo la moglie e un figlioletto.
Era asfissiato dalla malinconia, quella sera, Cardini. Aveva bevuto, camminato per ore e ore nella notte, bisticciato con una prostituta tedesca, vomitato e pianto. Finchè era finito, alle cinque di mattina, in un caffè che non sapeva avere una pessima fama. “Gerry” l’aveva visto entrare e l’aveva preso di punta. Un insulto buttato là, una risposta brusca. Il colosso gli era piombato addosso e l’aveva fatto a pezzi. Quindi l’aveva sollevato come uno straccio e, con l’aiuto di altri avventori, l’aveva buttato in mezzo fuori, sul marciapiede. Lasciandolo agonizzare lì, nella neve, per due ore. Senza che uno solo dei clienti che andavano e venivano si chinasse a vedere. All’arrivo dell’ambulanza era già morto.
Diciotto mesi: questa fu la condanna per il gigante omicida. Ma solo perché i giudici, come avrebbe spiegato il Corriere, lo riconobbero colpevole, oltre che di eccesso colposo di legittima difesa, anche di furto continuato, violazione della legge sugli stupefacenti e omissione di soccorso. E perché erano intestati a suo nome, negli archivi di polizia, 150 rapporti per reati violenti. Sennò se la sarebbe cavata con meno. Guai a toccargli i merli però, agli svizzeri. Lo dicevano già i regolamenti stabiliti dopo la Grande Caccia all’italiano del 1896. Tre giorni di furia selvaggia che, scatenata dalla morte di un arrotino tedesco ucciso da un italiano (poi condannato a tre mesi perché perfino la magistratura elvetica aveva dovuto riconoscere che si era trattato di legittima difesa dopo un’aggressione), avevano visto migliaia di persone assaltare i bar, i negozi, le case dei nostri emigranti, spaccare le ossa a tutti i malcapitati, attaccare le stazioni di polizia per liberare i più fanatici dei loro che erano stati arrestati, seminare un panico tale da spingere le autorità a organizzare addirittura dei treni speciali per rimpatriare i nostri, terrorizzati.
Die Italiener – Revolt in Zürich fu il titolo dell’opuscolo stampato a ricordo del pogrom. Come se i protagonisti e non le vittime, fossero stati gli italiani. E le nuove norme decise dalla municipalità, in linea con la tesi del sindaco secondo il quale i disordini andavano interpretati come una “esplosione degli offesi sentimenti di diritto della nostra popolazione indigena”, puntarono a regolare la convivenza dettando ai nostri come dovevano comportarsi per non urtare la suscettibilità dei padroni di casa.
Con un secolo di anticipo sul sindaco Giancarlo Gentilini – che dopo aver visto vicino alla stazione di Treviso “decine di negri seduti sulle spallette del ponte e altri extracomunitari sulle panche e conficcare spuntoni nelle spallette così che non “ci potesse più posare un essere umano” – gli indesiderati ospiti vennero messi in riga così: fu vietato calpestare i prati pubblici (art. 30); sostare sui marciapiedi intralciando il passaggio (art. 67); ballare nei locali pubblici senza l’autorizzazione dell’ispettore di polizia se non per sei domeniche l’anno (art. 94); scrivere o disegnare graffiti sulle pareti dei locali o sui muri pubblici (art. 117); bighellonare alticci per la strada (art. 118); tenere bambini nelle osterie o mandarli a elemosinare (art. 120). “In sostanza lo spazio pubblico venne riservato alla circolazione delle merci”, spiega nel suo saggio sul pogrom anti – italiano lo studioso Heinz Looser. “I singoli potevano usufruire di percorsi ristretti”.
Le lagnanze popolari e i rapporti di polizia contro gli italiani, per decenni e decenni, son rimasti quelli illustrati dall’italo – svizzero Peter Manz. Tipo un verbale del 1896: “Il Maulbeerweg e la Isteinerstrasse sono diventati invivibili a causa degli italiani che li frequentano. Non si può più camminare sui marciapiedi dalle sette di sera, quando gl’italiani si accampano e fanno tanto chiasso che non si sente neppure la propria voce”. O la denuncia di un abitante del quartiere Petersberg del 1893: “Gl’italiani tengono le finestre spalancate per tutta la domenica, dal primo mattino fino alla sera. Le loro stanze sono affollate per tutto il giorno. Fanno tutto con le finestre aperte, anche per vestirsi, come i selvaggi. Siedono intonando da mattina a sera canzoni oscene e alcuni giocano a carte sulle note dei loro strumenti d’ottone. La cara domenica ci viene guastata da questo indicibile e vergognoso comportamento. Abbiamo l’impressione di esserci trasferiti in una regione selvaggia”.
La petizione al consiglio di Stato di Basilea del giugno 1901 è una sintesi di tutto. “Le condizioni dei servizi igienici al n. 8 e n. 10 sono preoccupanti. In uno dei caseggiati il gabinetto è guasto e una puzza spaventosa si diffonde in tutto il vicinato. Al n. 8 il gabinetto – horribile dictu – è sostituito da un mastello. Specialmente nella Bartenheimerstrasse si son formati degli accampamenti di massa ed è spaventoso pensare quali conseguenze potrebbe avere lo scoppio di un’epidemia in queste condizioni (…). I giardini di notte spesso vengono danneggiati e i fiori strappati, cosicché è fatica sprecata volerli tenere in ordine”.
E via così. “Nessuna massaia osa più stendere la biancheria in giardino, poiché questa, a causa della vicinanza degli italiani, sparisce. (…) Uomini e donne gironzolano nei giardini e nelle strade rivelando nell’abbigliamento una trascuratezza che supera ogni senso di vergogna. La loro spudoratezza è così grande che alcuni di questi italiani fanno i loro bisogni apertamente per strada, nei giardini o attraverso le finestre (…). Anche da un punto di vista morale le condizioni sono inquietanti. In questi accampamenti di massa vi sono famiglie, donne sole, pensionanti e ospiti per la notte tutti mescolati assieme. (…) Non possiamo permettere ai n

ostri bambini di andare per strada se non vogliamo rischiare che tornino a casa con i pidocchi o altri parassiti presi dagli sporchi bambini italiani. (…) Noi riteniamo che una convivenza fra abitanti civili e questi semiselvaggi alla lunga sia insostenibile”.
Settant’anni dopo, quando si scatena la nuova ondata xenofoba che avrà come “effetti collaterali” gli omicidi e le sentenze di cui ho scritto, tutto è immutabilmente uguale. “Le mie quattro figlie non rincaseranno in compagnia d’Italiani. Le ho ammaestrate troppo bene perché lo facciano”, dichiara il signor Fritz Meier, un costruttore che ha fondato la National Action gegen die Überfremdung von Volk und Heimat, l’Azione nazionale contro l’inforestamento del popolo e della patria. “Versano il vino sulla tovaglia, molestano le cameriere, parlano a voce alta!” barrisce Albert Stocker, un altro leader di Azione Nazionale che verrà emarginato perché troppo fanatico persino per i fanatici. “Non siamo più padroni in casa nostra!” si sfoga il suo successore Rudolf Dinier con Fiorenza Venturini, autrice di Nudi col passaporto. “Gli stranieri dominano in molte fabbriche. E i risultati? Mancanza sempre più grave di alloggi, di letti negli ospedali di personale curante, prezzi alle stelle, speculazioni…” “Per quella gente lì”, spiega alla stessa scrittrice Walter Früh, il comandante della polizia che confida a bassa voce d’esser figlio di una immigrata siciliana, “greci, turchi, ungheresi sono tutti Italiener”.
Per James Schwarzenbach, no. Lui sa distinguerli benissimo. Fa l’editore, fuma la pipa, si compiace di somigliare a Jean – Paul – Sartre, ha scritto un libro sulla Belle Epoque dedicato a “Giovanni Segantini, un italiano dai sentimenti svizzeri” e passa per un raffinato intellettuale. E’ lui, a cavallo tra gli anni Sessanta e i Settanta, che sferra l’attacco più pesante. Tre referendum di fila, per fermare l’”orda degli invasori”. E la prima volta, a fine ottobre del 1969, pur avendo tutti ufficialmente contro sfiora il colpaccio, vincendo in 8 cantoni su 25, prendendo il 46% dei voti, gettando le basi per il futuro trionfo alle politiche del 1971 in cui prenderà 110.000 voti personali. Sforna cartine con l’Italia, la Francia, la Germania e in mezzo, al posto della Svizzera, la “Cosmopolitania”. Pubblica vignette in cui un tizio tira su una forchettata di spaghetti che diventano capi dai quali penzolano tanti omini. Attacca i nostri, in un’intervista data a Maurizio Chierici, perché non sanno stare al loro posto di servi: “Gli italiani sono venuti qui per evitare agli svizzeri i lavori più pesanti: ma ecco che, che dopo due, tre, cinque anni cominciano ad aspirare a posti più comodi, fanno studiare i loro figli. Come dovremmo reagire? Accettare le loro aspirazioni significherebbe due cose: o costringere gli svizzeri meno preparati a fare un passo indietro, o chiamare altra gente dall’estero per sbrigarle, certe incombenze, il che significherebbe inquinare sempre di più le nostre strutture sociali e le nostre tradizioni”. Prego notare il verbo: “inquinare”.
Eppure le leggi elvetiche, in quegli anni, sono già spietate. “I lavoratori italiani in Svizzera sono divisi in tre gruppi: annuali, stagionali e frontalieri”, spiega la rivista Tempo del febbraio 1974 alla vigilia di un nuovo referendum xenofobo. “Gli annuali sono i lavoratori che hanno il diritto, in base all’accordo italo – svizzero del giugno 1972, e a partire dal 1° gennaio di quest’anno, di stabilirsi nella confederazione a patto di aver lavorato per almeno due anni consecutivi nello stesso cantone e nella stessa azienda. Quindici mesi dopo aver ottenuto la qualifica di annuale, l’immigrato può chiamare in Svizzera la famiglia”. Chiaro? Il rapporto è tale che all’inizio non puoi manco passare, se sei bravo e ti offrono di più, dalla ditta Schimd alla ditta Roth: servitù della gleba.
Ma non basta: “L’avvenire dell’immigrato annuale è sottoposto a numerose condizioni: anzitutto è Berna a decidere quanti possono essere gli “stagionali” che diventeranno “annuali”. E soprattutto, per dieci anni dopo la sua promozione da cittadino di serie C a cittadino di serie B, l’immigrato annuale può ancora essere espulso dalla Confederazione se commette qualche reato. Per avere un’idea di quanto sia facile commettere un reato in Svizzera, basta ricordare come tre operai italiani di Zurigo (Nicola Tomasello, Bernardo Tomasello e Antonio Vengari) furono sottoposti nel 1971 a procedura di espulsione per aver fatto uno sciopero simbolico di quindici minuti in memoria di Alfredo Zardin”. Cioè del bellunese ucciso a calci e pugni di cui abbiamo scritto.
Non è finita: “Dopo aver atteso per anni la qualifica di “annuale” (la maggior parte dei lavoratori italiani non riesce ad ottenerla), l’immigrato deve così superare anche questi dieci mesi di buona condotta, durante i quali al minimo sciopero, alla minima protesta, la Fremdenpolizei gli mette le mani addosso. Dopo dieci anni, finita la condizionale, arriva il Niederlassungsbewilligung, cioè il diritto a non essere messo alla porta alla prima infrazione”.
Ma cosa vuol dire, ancora a metà degli anni Settanta “stagionale”? Sembrerebbe indicare lavoratori che vanno in Svizzera per qualche mese a fare la stagione (come in agricoltura o nell’industria alberghiera) e restano a casa, in Italia, il resto dell’anno”, risponde l’intervista.
“Per alcuni è effettivamente così, ma la maggior parte degli stagionali fa una “stagione” di undici mesi, ed è costretta a tornare in Italia per un mese l’anno in modo che non scatti per loro il diritto al permesso di soggiorno annuale”.
Questo permesso infatti “dura undici mesi; allo scadere dell’undicesimo mese, la Fremdenpolizei controlla che il lavoratore straniero se ne vada. Quando tornerà, un mese dopo, potrà strappare solo un nuovo permesso di undici mesi. In base all’accordo italo – svizzero del giugno 1972, lo “stagionale” diventa “annuale” se riesce ad accumulare trentasei mesi di lavoro in quattro anni”. Il che significa che se il quarto anno qualcosa si inceppa o se la Fremdenpolizei si mette di traverso impedendo allo stagionale il diritto al passaggio di grado, questi deve ricominciare da capo. Se invece gli va bene, “lo aspettano i dieci anni di condizionale prima di approdare, ormai anziano, al permesso di residenza. Che garantisce all’immigrato tutti i diritti, tranne quelli politici”. Che se ne farebbe di questi, se in base alla legge del 1936 lo straniero non ha il diritto di prendere la parola in pubblico? Per non parlare delle schedature: 300.000 italiani erano catalogati, negli archivi di polizia. Lo ha raccontato nel 1996 ancora Chierici, sul Corriere. Nessuno, pare, se n’era mai accorto. Unico sospetto: “La posta arrivava con ritardi scandalosi in un paese dove la puntualità resta virtù ambita e, quando arrivava, le buste avevano l’aria sofferta”. Quando il segreto è caduto, Leonardo Zanier, poeta e animatore politico della comunità italiana a Zurigo, si è fatto dare il fascicolo: “11 marzo 1967. Alle 19.35 il soggetto entrava al Ristorante Cirio, Militastrasse 16. In un secondo tavolo riservato lo aspettavano Maria Delfino Bonado e Adriano Molinari. Più tardi arrivava un altro italiano…”.
Eppure, in quegli anni di febbre xenofoba, a James Schwarzenbach tutto questo non basta. Gli stagionali sì, gli stanno benissimo. Come stanno benissimo a quel giornale di Zurigo che prima del referendum del 1974 ironizza: “Volete vedere che a vincere sarà la paura di dover pulire i cessi?” E come stanno benissimo alla grande maggioranza degli svizzeri che ancora nel 1982 voteranno perfino in Ticino contro un minimo di aumento dei diritti di questi precari della vita. Ma lui, che in gioventù è stato nazista e salutava felice la missione delle giovani armate di Hitler e Mussolini di unire l’Europa, vuole di più. Vuole l’espulsione di almeno la metà degli immigrati. E lo dice con to

ni tali da far ribrezzo addirittura a Egidio Sterpa, allora inviato del Corriere della Sera. Tre decenni dopo, il 4 giugno 2002, in un’Italia “inquinata” da un 3% di stranieri, Sterpa darà entusiasta il suo voto di deputato berlusconiano alla legge Bossi – Fini bollata dalla Caritas come gonfia di xenofobia. Ma in quel novembre 1969, in una Svizzera che conta 970.000 stranieri, di cui 630.000 italiani, su 4 milioni e mezzo di abitanti (percentuale di dieci volte superiore alla nostra di oggi: 21%) la posizione di Schwarzenbach pare al nostro bravo giornalista mostruosa. Indignatissimo, lo strapazza: insomma, se non è xenofobo lei, “come si definisce: patriota per caso?”. Titolo del pezzo: “Il crociato del razzismo elvetico”.
Un razzista vero. Che scatenò l’iradiddio, sordo all’insegnamento della celebre frase dello scrittore Max Frisch (“Volevamo braccia, sono arrivati uomini”), contro la richiesta dei nostri emigrati di portare in Svizzera i vecchi genitori, le mogli, i figlioletti: “Sono braccia morte”, scrisse di suo pugno, “che pesano sulle nostre spalle. Che minacciano nello spettoro d’una congiuntura lo stesso benessere dei cittadini svizzeri. Dobbiamo liberarci del fardello. Dobbiamo, soprattutto, respingere dalla nostra comunità quegli immigrati che abbiamo chiamato per i lavori più umili e che nel giro di pochi anni, o di una generazione, dopo il primo smarrimento, si guardano attorno e migliorano la loro posizione sociale. Scalano i posti più comodi, studiano, s’ingegnano: mettono addirittura in crisi la tranquillità dell’operaio svizzero medio, che resta inchiodato al suo sgabello con davanti magari in poltrona, l’ex guitto italiano”. “Non sono razzista. Sono un realista”, spiegò affabile a Maurizio Chierici del Giorno, in quel 1969, Daniel Roth, l’allora direttore e proprietario del periodico Schweizer Spiegel e presidente di un movimento dalla sigla (“per una Svizzera viva”) apparentemente innocua. “Gli operai stranieri costituiscono una massa informe che non può legare, per livello culturale, per tradizioni religiose e politiche, con l’ambiente che li accoglie. Non è colpa nostra se provengono da paesi dove il disordine sociale ha per norma gli scioperi, le manifestazioni di piazza, la lotta tra sindacati e imprenditori. La nostra è una piccola nazione tranquilla. Pensi un po’: l’ultimo sciopero generale risale al 1919. Tenere in casa gente di quel tipo costituisce un pericolo non sottovalutabile. Per difendere lo spirito svizzero è nostro dovere allontanare i potenziali disturbatori”.
Per questo, diceva il braccio destro di Schwarzenbach rovesciando un luogo comune, “in Ticino, come a Zurigo, amano più gli italiani del Sud. Lì sentono docili e sottomessi. Quelli del nord hanno invece ambizioni che si scontrano con le nostre”. Domanda di chierici: “Nei suoi discorsi parla di popoli mediterranei come di popoli inferiori. Sul serio lo crede?”. Risposta: “Penso che sia proprio così. Conosco bene la razza mediterranea. Ho cominciato a studiarla molti anni fa, nel Sud della Francia. La mia idea non è cambiata. Dalla Provenza in giù esiste un altro popolo. Anche in Italia si può tracciare un confine: 70% di gente sottosviluppata come civiltà e cultura, un 30% di persone che possono ricordare gli svizzeri.Persero tutti i referendum, quei fanatici razzisti: la Svizzera era migliore e più ospitale di quanto loro immaginassero. Culturalmente, però, vinsero un po’ anche loro. Lo dimostra lo strascico di prove referendarie indette dai suoi eredi fino al 1986. La storia di molti italiani costretti come Paolo Melillo ad assumere la propria moglie come domestica per poter portarla a Zurigo.
Ma più ancora un libro di Marina Frigerio e Simone Burgherr, Versteckte Kinder (Bambini nascosti), mai tradotto da noi ma ancora una volta fatto conoscere in Italia da Chierici. E’ la storia di migliaia di bambini italiani nascosti in casa dai genitori che non avevano il diritto secondo le rigidissime leggi svizzere, di portare la famiglia a Berna o a Ginevra. Piccoli fatti entrare di straforo e costretti a vivere come Anna Frank. Sepolti vivi, per anni, in un appartamento di periferia, senza poter ridere, giocare, piangere. Senza poter uscire, andare ai giardini, farsi un amichetto.
Lucia, una delle protagoniste dell’inchiesta, viveva con i genitori in una stanza d’un appartamento abitato anche da altre famiglie. Quando il padre e la madre andavano a lavoro, la chiudevano dentro a chiave. Uscì fuori la prima volta solo quando aveva tredici anni.
Anna restò sepolta quattro anni: “Di giorno resta chiusa in casa. Le rare volte che può scendere in cortile non deve parlare con nessuno: sa solo l’italiano e i vicini possono accorgersi della diversità. Per spaventarla, la madre le racconta che basta una parola, una sola e arriva la polizia a punirla (…). Non sa cos’è l’altalena. Non ha mai sfiorato la sabbia con le dita. Non riesce a correre perché le manca il fiato. Quando esce dal nascondiglio e può andare a scuola, ha otto anni. La maestra la descrive assente, spesso impaurita. Disegna animali minacciosi di fronte ad una piccola bambina.
Erano trentamila quei nostri bambini nascosti, secondo la Frigerio, verso la metà degli anni Settanta: “Erano così tanti che qua e là, protette in genere da qualche parrocchia o qualche comunità religiosa, esistevano perfino delle scuole clandestine. Elementari. Anche medie. E sono andate avanti fino agli anni Ottanta”. Quando uscì il libro era il 1992. Le prime navi cariche di profughi albanesi erano arrivate a Brindisi da pochi mesi. E avevamo ancora in Svizzera almeno un migliaio di figli clandestini.

di Gian Antonio Stella, l’ORDA.

Medioevo prossimo venturo

Altroconsumo, associazione a difesa dei diritti dei consumatori, ha fatto qualche calcolo, affermando che nel corso di un anno una famiglia italiana media spenderà più di 100 euro per effetto del decreto firmato da Bondi. Si tratterebbe di un perverso meccanismo di triplo pagamento a carico del consumatore: “Scaricando legalmente un brano da iTunes, il consumatore sta già pagando per le copie private. Poi paga l’equo compenso sul PC. Poi quello sull’iPod”.

Ora 100 € a famiglia secondo me è esagerata come stima, ma sulla 40 di euro per i backup settimanali per ogni workstation all’anno ci stanno tutti. Non tutti hanno 3 postazioni come me (lo ammetto, so’ malato per i pc), se poi ci mettiamo anche i guasti improvvisi siamo fritti, ma non tutti hanno una workstation in casa e non credo che tutti debbano cambiare il cellulare figo ogni settimana.
L’ingiustizia profonda del provvedimento è nel solito modo italiota di fare di ogni erba un fascio, io ad esempio uso i dvd riscrivibili da 4,7G per i backup giornalieri delle mie macchine a rotazione dove non si trova musica, ma programmi e dati elaborati, se scrivo una bischerata di programma o scarico una distribuzione GNU/Linux da mettere su cd, quella non è musica!
Un’altro pesante attacco all’industra del software indipendente venne da Colui-Che-Non-Vuole-Essere-Processato Silvio Berlusconi che reintrodusse l’obbligo di apposizione dei contrassegni SIAE su CD, DVD e software. Sulla Gazzetta Ufficiale n. 80 del 6 aprile 2009 è presente infatti il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 23 febbraio 2009, n. 31 che “che stabilisce l’obbligatorietà del contrassegno Siae da apporre sui supporti fono-videografici, multimediali e su quelli contenenti programmi per elaboratore, come previsto dall’articolo 181bis della legge sul diritto d’autore n.633/41”. tutto questo in barba a sentenze della Cassazione e dell’Unione Europea che stabilivano l’iniquità e l’eccessività del balzello: infatti un bollino che va apposto per ogni singolo supporto costa 0,65 € a fronte di un costo di 0,25 € per ogni supporto vergine! Quindi portare in macchina un cd di mp3 per ascoltarlo senza il bollino è illegale! ma da noi anche le banane vogliono il loro bel bollino blu, anzi azzurro…
Volendo comunque esistono vari metodi per limitare il danno, comprare quando possibile l’hardware e i supporti all’estero o approfittare di mercatini dove gli sconti assorbono i costi dell’iniquo balzello, ma si sa, siamo il solito branco da mungere a cui però non viene dato da mangiare, né viene messo in condizioni di potersi nutrire; questo giochetto avrà termine molto presto, quando le mammelle saranno oramai rinsecchite e allora saranno dolori per tutti, altro che orrore miseria e morte come qualche psicolabile gridava dal suo palco dorato, anzi azzurro…

EQUO COMPENSO ESISTENTE
•Supporti audio analogici: 0,23 euro per ogni ora di registrazione;
•Supporti audio digitali (CD-R): 0,22 euro per ogni ora di registrazione;
•Supporti digitali non dedicati (CD-R dati): 0,15 euro ogni 700MB;
•Supporti audio digitali non dedicati riscrivibili (CD-RW): 0,15 euro ogni 700MB;
•Supporti video analogici: 0,29 euro per ogni ora di registrazione;
•Supporti video digitali dedicati (DVHS): 0,29 euro per ogni ora di registrazione;
•Supporti digitali non dedicati (DVD di vario tipo): 0,41 euro ogni 4,7 GB;
•Supporti digitali non dedicati riscrivibili (DVD dual layer, DVD-RW): 0,41 euro ogni 4,7 GB;
•Supporti digitali Blu Ray: 0,41 euro ogni 25 GB (0,25 euro ogni 15 GB per gli HD-DVD).

NUOVI DISPOSITIVI INTRODOTTI

•«Apparecchi idonei alla registrazione analogica o digitale, audio e video e masterizzatori di supporti: 5% del prezzo indicato dal soggetto obbligato alla documentazione fiscale; per i masterizzatori inseriti in apparecchi polifunzionali: 5% del prezzo commerciale di un apparecchio avente caratteristiche equivalenti» (medesimo obolo è richiesto ad apparecchi polifunzionali aventi funzioni ulteriori rispetto alla registrazione);
•0,05 euro/GB per le memorie trasferibili o removibili da 32MB a 5GB; 0,03 euro/GB per capacità maggiori di 5GB;
•Per le chiavette USB il compenso è previsto in 0,10 euro/GB (da 256MB a 4GB) e 0,09 euro/GB per capacità superiori ai 4GB;

•Per gli hard disk esterni il compenso previsto è di 0,02 euro/GB se al di sotto dei 400GB e 0,01 euro/GB se al di sopra dei 400 GB;

•Per memorie o hard disk integrati in apparecchi multimediali portatili o dispositivi analoghi si va dai 3,22 euro per capacità fino a 1GB a 28,98 euro per capacità superiori a 250GB (con ulteriore sovrapprezzo a partire dal prossimo anno per quelli superiori ai 400GB);

•Memorie o hard disk integrati in lettori portatili MP3: da 0,64 euro per capacità fino a 128 MB, a 9,66 euro per capacità oltre i 15GB con ulteriori sovrapprezzi per categorie di capacità superiore a partire dal prossimo anno;

•Hard disk esterno multimediale con uscita audio/video per la riproduzione dei contenuti su apparecchi tv o hi-fi: da 4,51 euro per capacità fino a 80GB, a 12,88 euro per capacità superiori ai 250GB con ulteriori sovrapprezzi a partire dal secondo anno di vigenza delle disposizioni;

•Hard disk esterno multimediale con entrata audio/video per la registrazione di contenuti e uscite per la riproduzione: da 3,22 euro per capacità fino a 1GB, fino a 29,98 euro per capacità superiori ai 250 GB;

•Memorie o hard disk integrati in videoregistratori, tv o decoder di qualsiasi tipo (tale categoria sembra peraltro comprendere anche i decoder MySky): da 6,44 euro per capacità fino a 40GB, fino a 28,98 euro per capacità superiori ai 250GB.

Il decreto prevede inoltre un compenso fisso di 2,40 euro per ogni singolo computer venduto con un masterizzatore incluso e di 1,90 euro per ogni computer venduto privo di un masterizzatore.

Proibizionismo e risorse energetiche per il futuro

Una piccola premessa: questo è uno studio che non vuole essere un incentivo all’uso degli stupefacenti, ma un ragionamento serio e pacato sulla miopia del concetto che sta alla base del proibizionismo. Buona lettura.

Quello che sappiamo della canapa è che questa si è evoluta con l’umanità, ne troviamo tracce della sua coltivazione a partire dal neolitico e che cresce a qualsiasi latitudine e quota, dalla Scandinavia agli altopiani del Tibet, senza bisogno di pesticidi o concimi artificiali, resistente alla siccità e che la sua versalitità nel corso dei secoli ha contribuito allo sviluppo dell’esplorazione del pianeta: infatti le corde e le vele delle imbarcazioni una volta erano ricavate dalla fibra della canapa e Bologna e Ferrara vantavano questo tipo di coltivazione nei loro comprensori fin dal 1600.
C’è una diatriba tra i botanici se esistano tre specie distinte di canapa o una sola, ma il fatto che queste siano biocompatibili geneticamente fa pensare che in realtà siano solo sottospecie di un unico genere.
La canapa è quindi da sempre stata coltivata e usata per tutta la storia dell’umanità per ragioni diametralmente opposte a quelle odierne, la tossicità e le sostanze psicotrope originali (fino al “Marijuana Tax Act”, USA – 1937) erano addirittura più basse di quelle dell’odierno tabacco. Fu per un mero tornaconto economico che la reputazione di questa pianta fu distrutta: da essa venivano prodotti infatti olio vegetale come combustibile (i primi motori Diesel andavano con l’olio di canapa e Henry Ford costruì la Ford T con le fibre plastiche prodotte dalla lavorazione della canapa) e fibre vegetali per la produzione di tessuti e della carta. I nascenti gruppi industriali americani invece puntavano soprattutto allo sfruttamento del petrolio per l’energia (Standard Oil – Rockfeller), delle risorse boschive per la carta (editore Hearst) e delle fibre artificiali per l’abbigliamento (Dupont) – tutti settori nei quali avevano investito grandi quantità di denaro, per cui essi fecero fronte comune e con la loro potenza economica distrussero un’attività, quella della coltivazione millenaria della canapa indiana, la più diffusa. L’uso della canapa per scopi psicotropi diversi dall’ambito mistico-religioso e spirituale avvenne all’inizi del’900 presso le popolazioni povere e di colore nell’area del Mississipi importando quest’abitudine dal Messico e che poi si estese in tutta l’area del sud degli Stati Uniti. La propaganda razzista che volle i neri come responsabili di crimini contro i bianchi, magari sotto l’effetto di stupefacenti come la marijuana, dal nome originario della località messicana che aveva diffuso l’abitudine di fumare le foglie e i semi (la canna), rese facile dapprima proibire la coltivazione e il possesso della canapa, poi la campagna lobbistica dei magnati della carta e del petrolio fecero il resto, a cui si aggiunsero Hollywood, sempre in cerca di denaro facile, e l’industria del tabacco che voleva sfruttare il bacino dei fumatori rimasti orfani della canna.
Tranne una breve parentesi che oggi dovrebbe far riflettere: durante il periodo della II Guerra Mondiale, il Giappone e l’Europa cessarono le loro esportazioni di cellulosa verso gli Stati Uniti e questi si videro costretti a sospendere l’embargo alla canapa e incentivarono gli agricoltori alla sua coltivazione per sopperire alla richiesta di cellulosa; alla fine della guerra l’embargo ritornò come prima.
Adesso oramai la canapa indiana viene coltivata e usata solo per le sue capacità allucinogene, che la selezione artificiale e l’ibridazione è riuscita a produrre piante con un quantitativo di THC (tetraidrocannabinolo) molte volte più alto delle piante naturali, dal classico 1% della canapa originale al 25-30% della skunk, la canapa più potente.
In un mondo oramai al collasso per la distruzione di risorse naturali importanti come le foreste, l’aria e il suolo e l’acqua, riprendere l’uso di coltivare la canapa consentirebbe di riscoprire importanti risorse per la produzione di cellulosa per la carta e per le fibre vegetali biodegradabili al posto delle fibre sintetiche prodotte col petrolio, e tutto questo con risparmio di pesticidi e diserbanti di cui queste coltivazioni non avrebbero bisogno, senza contare che nella fase di lavorazione si potrebbe ricavare del prezioso olio vegetale da usare come combustibile per autotrazione. Ovviamente questa riconversione produttiva avrà ricadute importanti sul piano occupazionale, ma se questa venisse fatta in un’ottica globale, a livello ONU, con aiuti economici ai paesi che accetteranno la sfida, sicuramente potrà avere successo.
Ma chi si oppone a questa idea di liberalizzazione della canapa, anzi che ancora ne osteggia l’uso industriale? La risposta è scritta sopra, le multinazionali che nell’ultimo secolo si sono arricchite con l’imposizione del proibizionismo a detrimento del pianeta, ma anche e soprattutto le organizzazioni criminali che hanno fatto del commercio illegale di stupefacenti un businness.
Quest’ultime prosperano proprio nel fornire all’umanità ciò che per legge le è proibito, come per esempio accadde nel periodo del Proibizionismo americano (1919-1933), anche in quel caso voluto dai gruppi fondamentalisti cristiani e moralisti della destra americana, che permise alle organizzazioni mafiose criminali di controllare interi stati della costa orientale americana e la zona dei Grandi Laghi.
Chi ci guadagnerebbe invece? Innanzitutto il pianeta, una riconversione energetica dell’umanità ormai è improcrastinabile, e la reintroduzione della coltivazione della canapa come biomassa sarebbe funzionale alla riduzione della dipendenza dal petrolio e la salvaguardia delle foreste per almeno un buon 10% del fabbisogno attuale di petrolio e che la sua coltivazione può essere estesa a tutto il pianeta senza togliere terra già dedicata alle coltivazioni per l’alimentazione umana (è stato calcolato che appena il 6% di terreni continentali americani convertiti in coltivazioni di bio-combustibile renderebbero gli USA indipendenti dal petrolio come combustibile primario). Questo avrebbe certamente una ricaduta positiva nella bilancia dei paesi del terzo mondo che avrebbero un attivo dall’esportazione dei semilavorati della canapa e delle biomasse e che potrebbero finalmente ambire all’indipendenza energetica.
Le organizzazioni criminali non avrebbero più quindi l’introito economico dovuto al commercio di sostanze illegali, e, quando finalmente avremmo capito che il proibizionismo è solo un altro modo per fare ora di nascosto a pagamento ciò che magari non avremmo fatto gratis, questo esperimento sociale verrà abbandonato, le loro economie avrebbero una sonora battuta d’arresto e non potranno disporre di facili risorse economiche illegali da investire, economie da dirigere e politici da comprare.