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L’eterno Paradosso di Fermi (III parte)

Mentre nella prima puntata mi sono concentrato sul percorso che parte dalla vita e arriva fino allo sviluppo – almeno sulla Terra – di  una civiltà tecnologicamente avanzata, nella seconda credo di aver ampiamente dimostrato che un realistico piano di colonizzazione galattica non è poi di così difficile attuazione per una società abbastanza avanzata e motivata. Ma allora come rispondere alla domanda di Fermi “Dove sono gli altri?”?
La risposta quasi sicuramente è racchiusa nell’ultima incognita dell’Equazione di Drake: il fattore L che si occupa di stabilire quanto possa durare una civiltà tecnologicamente evoluta (qualcuno suggerì almeno 10 mila anni). Finora si è sostenuto che essa sottintendesse la capacità di una società tecnologicamente avanzata ad evitare l’autodistruzione per disastri ambientali estremi, guerre nucleari, etc.,  ma dobbiamo prendere in considerazione che possono esserci anche molti altri ostacoli, di certo meno violenti, che comunque portano al collasso di una civiltà in tempi molto più brevi.

Schemi ripetitivi nelle società umane

Le rovine di Tadmor (Palmira), che in aramaico significa Palma. Era conosciuta anche come La sposa del deserto, dove Oriente e Occidente si incontravano sulla Via della Seta.

Le rovine di Tadmor (Palmira), che in aramaico significa palma. Era conosciuta anche come La sposa del deserto, dove Oriente e Occidente si incontravano sulla Via della Seta. Qui sono fiorite e poi estinte molte civiltà  del passato.

Continuando a ipotizzare che il percorso evolutivo della Terra sia tipico anche per il resto dell’Universo, si può ritenere che dall’analisi delle diverse esperienze sociali umane sia possibile estrapolare modelli plausibili che possono poi essere utili a dare una risposta al dilemma di Fermi.
Il caso del drammatico crollo dell’Impero Romano (seguito da molti secoli di declino della popolazione, deterioramento economico  e regressione intellettuale) è ben noto, ma non era che uno dei tanti cicli di  ascesa e crollo delle civiltà europee. Prima della civiltà greco-romana, erano fiorite altre civiltà (come quella minoica e quella micenea) che erano risorte da crolli precedenti e avevano raggiunto livelli molto avanzati di civiltà prima del crollo definitivo. La storia della Mesopotamia è in realtà la somma di varie civiltà sorte e crollate in quei luoghi come Sumer,  l’Impero Akkad, Assiria, Babilonia, etc. [cite]http://goo.gl/i43lrZ[/cite]. Lo stesso può dirsi dell’Antico Egitto, delle diverse civiltà anatoliche (come gli Ittiti), in India (imperi Maurya e Gupta) e nel sud-est asiatico (Impero Khmer). Ci sono inoltre evidenti analogie tra le diverse dinastie dell’Antico Egitto e le varie dinastie imperiali cinesi, dove periodi di splendore si alternavano a periodi di crollo politico e socio-economico.
Anche il Nuovo Mondo non era immune a questi cicli storici. Le civiltà Maya, Inca e Atzeca traevano origine da altre culture precedenti, ma il loro collasso definitivo avvenne col contatto con la civiltà europea che si stava espandendo nel nuovo continente. Le culture nord americane della valle del Mississippi (Cahokia), del sud-ovest americano (Anasazi, Hohokam e Pueblo) e la complessa civiltà polinesiana [1.

Il Triangolo Polinesiano

TongatopTra il 3000 e il 1000 a.C. popolazioni di lingua austronesiana si diffusero in tutte le isole del Sud-Est asiatico. Probabilmente il loro ceppo comune è da cercarsi negli  aborigeni dell’isola di Taiwan (la popolazione attuale dell’isola è di origine cinese perché questa fu al centro di una migrazione su larga scala nel corso del 1600). Le più antiche testimonianze archeologiche mostrano l’esistenza di questa cultura – chiamata Lapita – già 3500 anni fa e che sia apparsa nell’Arcipelago Bismarck , a nord-ovest della Melanesia. Si sostiene che questa cultura sia stata sviluppata là o più probabilmente, di essersi diffusa dall’isola di Taiwan. Il sito più orientale per i resti archeologici Lapita recuperati finora si trovano nelle isole di Mulifanua e Upolu. Il sito Mulifanua ha un’ età di circa 3.000 anni stabilita con la datazione C14.
Nel giro di soli tre o quattro secoli circa tra il 1300 e il 900 a.C., la cultura Lapita – che includeva anche la ceramica, si diffuse 6.000 km più a est dell’arcipelago di Bismarck, fino a raggiungere le Figi, Tonga e Samoa. Intorno al 300 a.C. questo nuovo popolo polinesiano si diffuse da est delle Figi, Samoa, Tonga fino alle Isole Cook, Tahiti, le Tuamotu e le Isole Marchesi.
Tra il 300 e il 1200 d.C. (la data è incerta), i polinesiani scoprirono e si installarono nell’Isola di Pasqua. Questo è supportato da evidenze archeologiche, nonché dall’introduzione di flora e fauna coerente con la cultura polinesiana e le caratteristiche climatiche di quest’isola. Intorno al 500 d.C., anche le Hawaii vennero colonizzate dai polinesiani mentre solo intorno all’anno 1000, quest’ultimi colonizzarono infine la Nuova Zelanda.] si estinsero da sé dopo secoli di dominio culturale.
Tutto questo dimostra che l’evoluzione dei gruppi sociali segue da sempre dei cicli di crescita e declino, come dimostrano anche altri studi sulle società neolitiche [cite]http://goo.gl/Qg0dcC[/cite]. Di solito questi cicli di espansione e declino (della durata media di 300-500 anni) non sono frutto di eventi eccezionali come epidemie o cataclismi naturali, ma sono il frutto di una rapida crescita della popolazione unito allo sfruttamento naturale oltre i livelli sostenibili.

I modelli sociali

Uno serio studio sugli schemi evolutivi dei gruppi sociali è stato fatto nel 2012 da Safa Motesharrei e Eugenia Kalnay dell’Università del Maryland e Jorge Rivas dell’Università del Minnesota [cite]http://goo.gl/Em99bt[/cite]. Gli autori hanno ridotto gli schemi sociali a poche macrovariabili capaci comunque di descrivere abbastanza fedelmente le dinamiche che governano una società:

  • Popolazione (elite e popolo)
  • Risorse (esauribili e rinnovabili)
  • Ricchezza (risorse redistribuite)
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Il modello adottato per questo studio è anche quello che più si ritrova in natura: il Modello Predatore vs Preda; per questo è anche quello che probabilmente può descrivere di più una possibile società extraterrestre. Infatti il modello predatore-preda – in questo caso gli esseri umani e la natura – è piuttosto comune presso anche molte altre specie animali.

In sintesi, i risultati ottenuti indicano che i crolli sociali storici (come l’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali e/o una forte disparità economica tra le diverse classi sociali) possono essere causa di un crollo completo delle civiltà, come è avvenuto per l’Impero Romano, i Maya e la società Lapita.

L’unicità che contraddistingue la specie umana dagli altri animali è la sua capacità di accumulare grandi eccedenze (cioè ricchezza) per tamponare in parte o del tutto i periodi di scarsità di risorse quando esse non possono più soddisfare le esigenze abituali di consumo. Questa è la stessa capacità che ha permesso alla specie umana di creare strutture sociali più complesse del semplice branco e l’evolversi dell’intelligenza.
Queste strutture di solito prevedono che sia una elìte a controllare la quantità di eccedenze  prodotte e a redistribuire il minimo utile al resto del gruppo. Questa stratificazione sociale è importante per la dinamica del ciclo di evoluzione del gruppo sociale. Senza entrare nel dettaglio delle simulazioni, che comunque consiglio a chiunque fosse interessato di leggere, gli scenari presi in considerazione sono diversi e ognuno di loro presenta delle criticità evidenti che comunque convergono tutte verso uno scenario di crollo quando le sfruttamento delle risorse pro capite (ricchezza distribuita) supera il tasso di risorse  (pro capite) disponibile;  in fondo questo è quel che succede a tutti gli organismi viventi in natura quando le risorse diventano troppo scarse. Proverò a riassumere i quattro quadri che a mio giudizio sono i più indicativi:

  1. Modello sociale diseguale
    Una qualsiasi redistribuzione ineguale di ricchezza porta alla stratificazione sociale, dove l’elìte può permettersi di sopravvivere ai periodi di carestia a scapito del resto del gruppo che è invece destinato al declino dopo aver esaurito la sua parte di ricchezza. Il risultato è un crollo sociale, spesso accompagnato da episodi violenti e rifiuto di ciò che è stato, un po’ come avvenne con la Rivoluzione Francese. Un modo per invertire la tendenza verso il collasso richiede scelte politiche importanti come il controllo della crescita della popolazione e la riduzione delle diseguaglianze sociali.
  2. Modello sociale egalitario
    Anche una redistribuzione equa comunque non è affatto esente dal crollo sociale se la produzione di ricchezza supera la quantità di risorse disponibili; magari non è altrettanto brusca e violenta quanto la prima ipotesi ma lo scenario finale è comunque lo stesso: calo demografico e regressione culturale. Anche qui l’unica soluzione è che in qualche modo sia raggiunto un equilibrio tra risorse naturali consumate e quelle redistribuite.
  3. Modello sociale equilibrato
    Una qualsiasi società che impari a bilanciare la ricchezza prodotta con le risorse disponibili (non importa se il modello redistributivo sia equo o ineguale) non è esente da fenomeni di declino sociale, ma magari subisce oscillazioni più o meno ampie attorno ai valori che non le consentono affatto di evolversi (stagnazione sociale). In questo caso la destinazione di parte della ricchezza per progetti diversi alla semplice sopravvivenza del gruppo sociale potrebbe portare al suo crollo definitivo.
  4. Modello sociale espansionismo egalitario
    L’unico scenario che resta possibile è quello dell’espansione continua. Lungi da me giustificare scientificamente l’imperialismo europeo, resta comunque il dato che se l’Europa post-rinascimentale non avesse cercato altre vie per attingere risorse, non sarebbe sopravvissuta alle guerre al suo interno, mentre L’impero Romano segnò il suo destino quando decise di interrompere le sue conquiste, le risorse furono distratte per fronteggiare il malcontento interno e le elìte erano impegnate più a badare alle proprie ricchezze che alla cura dell’Impero.
    Quindi una società equa che si ponesse l’obbiettivo di espandere la sua area di sfruttamento delle risorse naturali disponibili è lo scenario a lungo termine preferibile, perché allontanerebbe da sé ogni rischio di conflitto sociale causato dalla stratificazione economica e dall’esaurimento delle ricchezze che potrebbero portare ad un crollo della civiltà, e sarebbe immune alla quasi altrettanto triste ipotesi della stagnazione del modello sociale equilibrato.

Ma quello che è più evidente è che se una qualsiasi civiltà inizia a erodere le risorse ambientali del proprio mondo troppo in fretta rispetto al naturale tasso di ricostituzione (come accade adesso per il caso terrestre) tende quasi inevitabilmente al collasso prima che possa acquisire la capacità di poter sfruttare l’inesauribile riserva di risorse posta al di fuori del suo pianeta.

Conclusioni

Dopo aver quindi ripercorso la vicenda terrestre, possiamo tentare di imporre qualche limite alle ipotesi di risposta alla domanda di Fermi.

  • Le attuali conoscenze scientifiche umane affermano che niente è più veloce della luce nel vuoto e che esplorare la galassia sarebbe certamente possibile ma unicamente a senso unico; anche le comunicazioni interstellari sarebbero comunque troppo lente per poter intavolare qualsiasi forma di dialogo con altre civiltà. Alla luce dell’importanza delle risorse naturali necessarie allo sviluppo di una civiltà planetaria è anche lecito supporre che una civiltà extraterrestre potrebbe considerare solo una grande perdita di tempo e spreco di risorse tentare intenzionalmente una qualsiasi forma di comunicazione con mezzi tradizionali (onde radio, laser etc).
  • Le condizioni per poter ospitare un pianeta di tipo terrestre nella nostra galassia esistono da almeno 8 miliardi di anni, anche se questo non significa necessariamente che ci siano pianeti  che ospitino o meno alcuna forma di vita.
  • Per la Terra sono occorsi 4 miliardi di anni prima che le più semplici forme di vita si evolvessero in organismi ben più complessi. Estrapolando questi dati verso altri mondi si può ragionevolmente ipotizzare che, se non avvengono fenomeni parossistici capaci di sterilizzare un pianeta come una supernova o un GRB vicino, oppure una improvvisa instabilità stellare o del sistema planetario, occorrono dai 4 ai 6 miliardi di anni per avere forme di vita complesse capaci di adattarsi – e adattare – l’ambiente circostante e sviluppare una qualche primitiva forma di consapevolezza.
  • Continuando ad usare lo stesso metro terrestre come paragone si ottiene che una qualche forma di intelligenza e tecnologia potrebbe essersi sviluppata su altri mondi tra gli 800 milioni e 5 miliardi di anni fa. Una civiltà così evoluta o potrebbe nel frattempo essersi estinta come illustrato in questo studio o aver trovato il modo  di prevenire il suo collasso imparando a gestire le sue risorse disponibili..

Anche se non è detto che il percorso vita – consapevolezza – intelligenza – tecnologia avvenga sempre e comunque su tutti i pianeti potenzialmente adatti, ognuna di queste condizioni deve superare delle criticità che possono compromettere uno qualsiasi degli stadi successivi. A fronte di qualche decina di milioni di pianeti potenzialmente disponibili forse in questo momento la Galassia può contare di ospitare una decina o forse meno di Civiltà tecnologicamente evolute tanto da dedicarsi all’esplorazione dello spazio e dotate di capacità di ascolto, ma questo porta a supporre che esse possono anche essere troppo lontane fra loro perché possa avvenire un qualsiasi contatto.


Note:

L’eterno paradosso di Fermi (parte II)

L’aspetto più curioso da comprendere circa il paradosso di Fermi è che non affatto necessario viaggiare più veloce della luce per colonizzare la galassia. Ma allora la domanda di Fermi “Dove sono tutti gli altri?” diventa ancora più importante, tanto che una delle possibili risposte può spaventare: “Gli alieni non sono qui perché non esistono. Siamo l’unica specie senziente e tecnologica di tutta la galassia“.
Le conseguenze in questo caso sarebbero meravigliose e terrificanti allo stesso tempo …

La colonizzazione dello spazio

L'interno di un'a possibile arca spaziale, una Sfera di Bernal. Credit: Rick Guidice - NASA Ames Research Center

L’interno di un’a possibile arca spaziale generazionale, una Sfera di Bernal.
Un habitat simile può essere ricavato scavando l’interno di alcuni asteroidi più grandi. Una sfera di 16 km di diametro potrebbe ospitare stabilmente dai 20 ai 50 mila abitanti.
Credit: Rick Guidice – NASA Ames Research Center

Il cinema e la fantascienza televisiva hanno talmente condizionato l’immaginario collettivo fino a far passare il messaggio che solo le tecnologie che consentono viaggi superluminari possono rendere possibile la colonizzazione interstellare.
Questo non è poi del tutto vero, per arrivare  fino alla stella più vicina nell’arco di tempo di una vita umana, mettiamo 75 anni, basterebbe viaggiare a 6 centesimi della velocità della luce, cioè ad appena 18000 chilometri al secondo. E anche se per ora ci appaiono come velocità ancora improponibili per la nostra attuale tecnologia, esse sono quasi sicuramente raggiungibili in un futuro abbastanza prossimo piuttosto che aspettare – forse mai – di viaggiare alla velocità della luce. Inoltre queste velocità avrebbero dalla loro i vantaggi di rendere irrilevanti gli effetti relativistici e le radiazioni indotte dalle velocità.
Certo, sarebbero dei viaggi di sola andata, un po’ come quelli dei pionieri della frontiera americana o dei coloni australiani, ma non sarebbero richieste le avveniristiche tecnologie di Star Trek o i sofisticati metodi di ibernazione suggeriti in Alien 1. Sarebbero delle arche spaziali, strutture artificiali ecologicamente autosufficienti capaci di sostenere una popolazione di diverse migliaia di persone, magari costruite all’interno di asteroidi o partendo dai materiali estratti da essi. I nuovi coloni sarebbero gente del tutto comune, perlopiù agricoltori, tecnici e artigiani, consapevoli che il loro sacrificio darà i suoi frutti solo ai discendenti.

Questo significa che qualsiasi civiltà con un grado di sviluppo paragonabile al nostro da qui a cento anni sarebbe in grado di colonizzare l’intera galassia nell’arco di pochi milioni di anni.
Nell’arco di poche centinaia di migliaia di anni, un battito di ciglia nell’età di una tipica galassia, una qualsiasi civiltà tecnologicamente evoluta può colonizzare interi settori di spazio con i suoi discendenti usando semplicemente arche generazionali  che consentono unicamente viaggi di sola andata.
Nel giro di diecimila anni e con un intervallo di 500 anni tra un viaggio e l’altro una qualsiasi civiltà abbastanza determinata può raggiungere almeno 100 mila stelle. Della civiltà originale a quel punto ne sopravvivrebbe forse solo il mito. Un mito delle Origini Lontane che potrebbe addirittura perdersi nell’oblio dopo i tanti passaggi necessari alla colonizzazione del cosmo; un piccolo prezzo in fondo per aver avuto il coraggio di abbracciare la Galassia.

Alcune risposte

Scala di Kardašëv

 La scala Kardashev  fu proposto per la prima nel 1964 dall’astronomo  russo Nikolai Kardashev. Essa  è un metodo per misurare il livello tecnologico di una civiltà basato sulla quantità di energia che essa è in grado di utilizzare. La scala è composta da almeno cinque livelli:
Una civiltà di tipo I utilizza tutte le risorse disponibili sul suo pianeta natale (4×1012 watt), il tipo II sfrutta tutta l’energia della sua stella (4×1026 watt), quella di tipo III della sua galassia (4×1037  watt), mentre quella di tipo IV è in  grado di controllare l’energia di un intero superammasso di galassie (1×1046  watt).
Il livello successivo, il tipo V, sarebbe invece capace di controllare tutta l’energia dell’universo visibile (1×1056  watt), come Frank Tipler e  John Barrow suggeriscono con il loro Principio Antropico Ultimo.
Successivamente l’astronomo americano  Carl Sagan definì un metodo per calcolare, a partire dai tipi iniziali, anche i decimali, per mezzo della seguente formula: K=log10W610 nella quale K rappresenta il livello di civiltà della scala e W i watt utilizzati. Secondo questo metodo la civiltà umana sarebbe ad un livello di 0,7.

La scala è solo ipotetica, ma mette consumo di energia in una prospettiva cosmica.

Con tutte queste premesse ecco perché diventa importante la domanda di Fermi “Dove sono gli Altri?”. Ragionevoli supposizioni teoriche ci mostrano – come descritto nella prima parte – un universo brulicante di vita e, in alcuni casi, intelligente. Insieme a quanto descritto qui sopra sappiamo che le civiltà aliene abbastanza evolute e determinate possono arrivare a colonizzare buona parte della Galassia nel giro di poche centinaia di migliaia di anni; è quindi lecito immaginare che prima o poi altre razze aliene potrebbero aver visitato e magari lasciato qualche loro manufatto a memoria del loro passaggio, magari se non sulla Terra ma comunque nel Sistema Solare.
Per la nostra scala il Sistema Solare è enorme, abbiamo imparato a studiarlo da appena 400 anni coi telescopi e da 40 con le sonde automatiche; non è certo molto ma finora di manufatti alieni come per esempio il monolite suggerito da Arthur C. Clarke nel romanzo 2001 Odissea nello spazio (probabilmente un sonda di von Neumann 2 ) non è stata trovata alcuna traccia, né qui sulla Terra e né là fuori. Questo ovviamente non esclude che la Terra sia mai stata visitata in passato o che possa esserlo in futuro, è che a tutt’ora non esistono prove per affermare che sia mai accaduto.
Le risposte allo storico quesito si sprecano: la non contemporaneità dello sviluppo delle civiltà nella nostra galassia che limiterebbe l’esistenza a pochissime civiltà – o forse nessun’altra – nello stesso periodo temporale e nel raggio di comunicazione; di conseguenza esse possono essere troppo lontane sia nel tempo che nello spazio per potersi accorgere di noi e noi di loro. Il che ci renderebbe unici, almeno in quest’angolo remoto dell’Universo, e pertanto immensamente preziosi; sarebbe un vero insulto al Creato se per qualche nostra sconsiderata miopia o per qualche irresponsabile egoismo dovessimo estinguerci, In questo istante dello spazio-tempo potremmo essere l’unico momento in cui l’Universo inizia lentamente a prendere coscienza di sé stesso!

Oppure, secondo un loro codice etico, ogni civiltà interstellare ha deciso di non contattarci perché non ci ritiene abbastanza maturi per un Primo Contatto e ha deciso che noi ci si debba sviluppare in totale autonomia fino a che non saremmo pronti ad affrontare un simile evento 3. Questo però non esclude sporadiche visite al nostro sistema solare o che comunque potremmo essere  noi quelli osservati di nascosto [cite]http://goo.gl/Nxd098[/cite]. Una variante di questa linea di pensiero è che a causa della nostra – ancora – immaturità tecnologica e/o morale potremmo rappresentare un pericolo per noi e/o gli altri casomai venissimo in possesso di tecnologie più avanzate delle nostre; questo motivo spingerebbe le altre civiltà aliene a starsene in disparte allo stesso modo in cui un adulto responsabile tiene fuori portata dei bambini di casa gli oggetti più pericolosi ed evita di maneggiarli davanti a loro.

La sonda berserker di un episodio di Babylon 5

La sonda berserker di un episodio di Babylon 5

Un’altra idea non banale e che riprende un po’ l’ultimo concetto espresso, è quello che vuole che in questo momento esistano solo poche civiltà, o forse addirittura solo una, dominanti e che vedono come un potenziale pericolo qualsiasi altra civiltà abbastanza sviluppata. È nel loro interesse far sì che le altre civiltà emergenti – come la nostra – non rappresentino per loro una minaccia. In questo caso possono impedirne l’evoluzione, manipolarne lo sviluppo o addirittura cancellarle. Magari queste civiltà aliene possono aver creato sonde Berserker 4 – che magari potrebbero benissimo, a patto che le si riconosca, essere scambiate per degli innocui manufatti alieni – con lo scopo di testare il grado di sviluppo delle civiltà emergenti ed annientarle qualora si dimostrino un potenziale pericolo.
Costruite sullo stesso principio delle sonde di von Neumann, le Berserker avrebbero il compito di eliminare le civiltà emergenti oppure di adattare i pianeti (noi diremmo terraformazione) alla successiva ondata di colonizzazione; in fondo il risultato è lo stesso.
Comunque la storia delle sonde di von Neumamn, le Berserker o altri tipi di sonde automatiche che teoricamente sono capaci di visitare ogni angolo della galassia in pochi milioni di anni [cite]http://goo.gl/REwAME[/cite] sposta solo la domanda principale “Dove sono gli altri?” a “Dove sono queste sonde?“.
A parte il fatto che – come ho detto prima – probabilmente  non le sapremmo neppure riconoscere per quanto ci apparirebbero aliene, questa domanda se la pose il fisico americano Frank Tipler nel 1981, il quale giunse alla conclusione che questo genere di sonde interstellari non potrebbero esistere perché semplicemente non esisterebbero neanche i loro costruttori [cite]http://goo.gl/vHGkcB[/cite], sostenendo quindi in pratica l’unicità della specie umana in quest’angolo del cosmo. Carl Sagan e William Newman replicarono che Tipler aveva in realtà sottovalutato il tasso di replicazione delle sonde nei suoi calcoli, e che – secondo i due scienziati – nel caso della loro esistenza, queste macchine avrebbero già dovuto iniziare a consumare la maggior parte della massa della galassia; consapevole del pericolo quindi, una razza intelligente non progetterebbe mai simili macchine, ma che anzi si sarebbe spesa per eliminare qualsiasi tecnologia autoreplicante potesse incontrare [cite]http://goo.gl/J6pacL[/cite]. Come spesso accade, però anche qui la verità potrebbe essere nel mezzo: magari una civiltà che volesse davvero avvalersi delle sonde di von Neumann può benissimo programmarle con un tasso di replicazione limitato (il che comporterebbe anche una molto minore capacità di diffusione nella Galassia), programmarle per avere il massimo riguardo per ogni forma di vita, di disattivarsi in questo caso e di riprodursi solo ove questo non possa arrecare danno alla vita autoctona.

E se tutto quello ce conosciamo fosse semplicemente il frutto di un esperimento di laboratorio?

E se tutto quello ce conosciamo fosse semplicemente il frutto di un esperimento di laboratorio?

Invece un’inquietante ipotesi prende spunto dal racconto di Isaac Asimov “Coltura Microbica” 5 dove si suggerisce che l’umanità sia in realtà un esperimento genetico condotto da  altre intelligenze aliene superiori a noi quanto – noi – lo siamo ai nostri microbi. In questo caso la risposta alla domanda di Fermi è semplice: la realtà che percepiamo è in realtà un’illusione creata allo scopo di testare le nostre reazioni come fossimo cavie da laboratorio; e che se casomai arrivassimo un giorno ad un contatto alieno è perché lo hanno voluto le entità superiori che ci studiano.
Un ‘intero universo che magari è una simulazione governata da un supercomputer, come in Matrix, oppure una simulazione come quelle che Frank Tipler suggerisce, e che per molti è solo pseudoscienza, nella sua Teoria del Punto Omega [1. Il concetto di Punto Omega fu introdotto per primo dal gesuita paleontologo Pierre Teilhard de Chardin (1881 – 1955) nelle discussioni tra scienza e religione come un riferimento al Cristo come l’obiettivo finale del processo evolutivo. La teoria del fisico e matematico Frank Tipler The Point Theory Omega, ispirata comunque dal pensiero del gesuita, è ben lontana dall’originale.  Questa teoria fu avanzata in una serie di articoli pubblicati verso la fine del 1980 e reso popolare nel 1994 nel libro La fisica dell’immortalità. Qui Tipler teorizzò che al termine dell’universo (chiuso) tutta la materia convergerà verso un infinito punto onnisciente chiamato Omega seguendo le normali leggi fisiche e le loro conseguenze; la Vita infatti è una di quelle. Anche se nell’idea del Punto Omega si scorge un figura onnisciente e onnipresente come il Dio del teismo tradizionale, questo è il frutto della convergenza di tutte le leggi fisiche, non il Dio dettato dalla fede religiosa.].

Principio Antropico Forte

L’universo possiede tutte quelle proprietà (leggi fisiche) che ad un certo punto della sua storia permettono l’esistenza di osservatori  al suo interno.”

Questa teoria in pratica è un’estensione del cosiddetto Principio Antropico Forte che si spinge fino alla sua sua riformulazione in “L’universo possiede quelle proprietà (leggi fisiche) che portano allo sviluppo della vita intelligente in modo tale che essa possa poi acquisire vita eterna anche attraverso mezzi tecnologici“. Diventare eterna e onnisciente significa che prima o poi la vita acquisirà il controllo totale dell’Universo, una civiltà con un livello tecnologico spaventoso, di tipo V nella scala Kardashev che forte di tutta l’energia che può controllare può eseguire simulazioni reali di ogni suo momento passato. Scoprire così che la risposta al Quesito di Fermi è che noi potremmo essere soltanto una simulazione è quasi altrettanto inquietante che scoprire di essere una coltura microbica.

Oppure più realisticamente siamo noi che non sappiamo cosa, come e dove ascoltare per trovare le altre civiltà aliene. Magari l’ipotesi di Giuseppe Cocconi (anche lui conobbe Enrico Fermi e ebbe l’occasione di lavorare all’Istituto di Fisica di via Panisperna) e Philip Morrison di aspettarci comunicazioni interstellari nei pressi dei 21 cm di lunghezza d’onda è sbagliata, forse ancora non abbiamo la più pallida idea di come un segnale alieno potesse essere modulato, di come i dati potrebbero essere stati codificati all’interno del segnale e neppure che tipo di dati aspettarci. Magari gli alieni comunicano tra loro in  modi completamente a noi sconosciuti, modulando magari fasci di neutrini o sfruttando l’entanglement quantistico. O magari semplicemente … non ci sono, o forse ci sono stati nel passato del nostro pianeta, quando ancora appariva totalmente inospitale alla vita da non ritenersi adatto, fino a che qualcuno ha pensato di usarlo come incubatrice per la sua discendenza.
Questa è la Panspermia Guidata; una teoria che ipotizza che un’antica civiltà consapevole della propria estinzione avrebbe disseminato il proprio DNA o una reingegnerizzazione di esso. La cosa curiosa è che fu proprio il Nobel Francis Crick (uno degli scopritori della struttura a doppia elica del DNA) ad avanzare per primo questa teoria nel lontano 1973,  sostenendo che il DNA è troppo complesso per essere di origine naturale. Certo che scienziati e biologi finora non sono ancora riusciti a riprodurre i passi che separano la Non-Vita dalla Vita, ma comunque – come ho scritto nella prima parte di questo articolo – il puzzle si sta pian piano componendo. Tornando all’idea di Crick che una lontana – nello spazio e nel tempo – civiltà avesse disseminato nel cosmo i mattoni della nostra esistenza è allettante e allo stesso tempo non risponde affatto al quesito principale in quanto adesso dovrebbero esserci migliaia di altre specie aliene più o meno simili a noi e all’incirca col nostro stesso grado di sviluppo tecnologico  (nella scala Kardashev) nella Galassia.

Tornando un attimo alle navi-arca, potrebbe a questo punto della discussione speculare che potremmo essere noi i discendenti di una antica colonia proveniente da un altro mondo di coloni, anch’essi provenienti da una civiltà ormai scomparsa da eoni. Gli animali che prosperano con noi potremmo averli portati appresso da qualche altro mondo; oppure no? In questo caso dovremmo trovare traccia di organismi assolutamente estranei a noi nel lontano passato del la Terra. E invece parte del nostro genoma lo si ritrova in organismi ancestrali a noi molto lontani, perfino con i dinosauri abbiamo qualcosa in comune perché entrambi discendiamo da organismi comuni più semplici.
Forse la risposta al quesito di Fermi è in una di queste risposte o forse risiede nel fattore L dell’equazione di Drake che si occupa di stabilire quanto possa esistere una civiltà tecnologicamente evoluta. Proverò a spiegare questo nella prossima parte.

(fine  seconda parte)

Note:

L’eterno paradosso di Fermi (parte I)

Se il dialogo da cui scaturì il celebre Paradosso di Fermi [cite] http://www.fas.org/sgp/othergov/doe/lanl/la-10311-ms.pdf[/cite] abbia mai avuto luogo o meno non sta a me accertarlo, ma ormai esso è talmente entrato nell’immaginario collettivo che è diventato come la celebre Mela di Newton. Apocrifa o meno, comunque è una leggenda a cui merita dare una risposta. Una risposta che per certi versi è come tentare di risolvere l’Equazione di Drake o almeno l’ultima e più grande incognita dell’Equazione: il fattore L 1. A differenza di altri studi passati, qui si è cercato di basare questo studio sull’ipotesi (altrettanto opinabile quanto supporre l’esistenza certa di altre forme di vita intelligenti nell’universo basandosi sul fatto che Noi esistiamo) che l’esperienza umana sia tipica anche per il resto dell’universo. Partendo da questa ipotesi si è infine tentato di applicare le stesse spinte sociali umane per tentare una risposta a questa domanda.

“Ammesso che la vita sia un fenomeno abbastanza comune nell’Universo, allora dove sono gli altri?”

ienLa domanda precisa di Fermi pare che fosse posta in termini diversi, ma il succo non cambia. Anche se per ora conosciamo  soltanto un luogo dell’Universo dominato dalla Vita, molte attuali scoperte e conoscenze portano a credere che essa sia un fenomeno abbastanza comune nel cosmo. Sono state infatti trovate traccie di molecole organiche 2 complesse nelle comete, nei meteoriti e nelle nubi interstellari [cite]http://www.cv.nrao.edu/~awootten/allmols.html[/cite], scoperte influenze quantistiche nei meccanismi biomolecolari [cite]http://goo.gl/6Gq7SQ[/cite], nella trascrizione del DNA [cite]http://goo.gl/U5G9TN[/cite] e anche le stesse leggi fisiche fondamentali che governano la materia inanimata pare che svolgano un ruolo essenziale nella formazione delle ben più complesse strutture necessarie allo sviluppo della vita stessa [cite]http://goo.gl/fexb02[/cite].  Le molecole organiche complesse sono un fondamentale passo per lo sviluppo successivo di catene proteiche ancora più complesse necessarie alla nascita della Vita 3.
Per questi motivi è lecito pensare che lo sviluppo della Vita non ponga poi dei paletti molto stringenti; fondamentalmente le serve solo abbastanza tempo per attecchire sui mondi dove sia presente un flusso abbastanza stabile nel tempo di energia da sfruttare per sé.
Un altro aspetto spesso trascurato ma fondamentale per la Vita è l’ambiente cosmico in cui essa può attecchire. La Terra è in una posizione piuttosto periferica della Via Lattea, circa 7,62 kpc (più o meno 26 000 anni luce) dal centro galattico. Questa è una zona piuttosto tranquilla dalle turbolenze gravitazionali – e non solo – del nucleo galattico. Può sembrare una cosa di poco conto ma anche la posizione nella galassia invece è rilevante [cite]http://goo.gl/RGVZSB[/cite] per stabilire in linea di massima quali possibilità ha ogni pianeta di supportare la Vita.
Con un ambiente sostanzialmente privo di pericoli, una fonte di energia costante destinata a durare qualche miliardo di anni (come quelle fornite da stelle medio-piccole nella loro sequenza principale [cite]http://goo.gl/7waC7J[/cite]), si può altrettanto ragionevolmente supporre che anche le più semplici forme di vita procariotiche possono evolversi prima o poi in strutture multicellulari molto più efficienti e diversificate.
Ora rimane la domanda più difficile: anche ammesso che la Vita sia abbastanza comune nell’Universo, per contro quanto può esserlo l’intelligenza?
orologio-geologicoNon avendo altri metri di paragone, guardiamo un attimo a ritroso la storia della Vita sulla Terra, ammettendo per un attimo che essa sia tipica nell’Universo. Dal diagramma qui accanto si nota che le prime forme di vita procariotiche si svilupparono sulla Terra 3,8 – 3,4 miliardi di anni fa. Eppure, forme di vita moderne, complesse quasi quanto quelle attuali, sono comparse solo 541 milioni di anni fa con quella che è stata chiamata Esplosione Cambriana. I motivi di quell’improvviso sviluppo di forme di vita – tanto che in passato questo aveva addirittura messo in crisi l’ipotesi dell’evoluzione darwiniana ma che probabilmente poi tanto repentino non fu  – non sono ancora del tutto noti 4 ed esulano dall’argomento di questo studio, ma tutto questo significa che le forme di vita superiori sono presenti su questo pianeta per un periodo che rappresenta appena il 12% della sua storia.
Recentemente si è iniziato a comprendere che alcune caratteristiche neurali – come la consapevolezza e la capacità di elaborazione  – finora considerate  tipiche dei primati e dei mammiferi e ritenute residenti nella neocorteccia in realtà siano molto più primitive e antiche, tanto da far supporre che esse si siano sviluppate ed evolute insieme alla vita animale [cite]http://goo.gl/Iw0GkJ[/cite]. Questo ovviamente suggerisce che dato un tempo abbastanza lungo, è inevitabile che prima o poi si sviluppi una specie con capacità senzienti [cite]http://goo.gl/OQPIFM[/cite] [1. Molti scienziati suggeriscono al contrario che i dinosauri – che non erano senzienti neppure lontanamente di quanto lo fosse il più lontano primate –  se non si fossero estinti 65 milioni di anni fa adesso la Terra sarebbe ancora dominata da quegli stupidi bestioni che erano esistiti per 165 milioni di anni. Eppure è anche lecito supporre che prima o poi una crisi alimentare o climatica abbastanza seria – come accadde ai primati nostri antenati quando dovettero adattarsi alla savana – avrebbe potuto selezionare una forma rettile più adatta e magari più capace di altri di manipolare consapevolmente l’ambiente circostante; questo purtroppo non ci è dato saperlo.].

Dalla vita alla tecnologia – l’esperienza sulla Terra

Gli esseri viventi che si mostrano capaci di manipolare l’ambiente circostante non necessariamente posseggono una qualche intelligenza evoluta; più o meno un po’ tutte le specie animate lo fanno: dalle stuoie microbiche dei coralli marini che seguono le correnti oceaniche fino agli uccelli coi loro nidi, ai castori con le loro dighe fino ai primati più evoluti. E anche inventarsi nuove strategie di sopravvivenza borderline come hanno imparato certi corvi [cite]http://goo.gl/9aFBMc[/cite] o sapersi adattare alle mutate condizioni ambientali come fanno le piante non indica necessariamente una qualche forma di raziocinio.

L'albero dell'evoluzione umana

L’albero dell’evoluzione umana

Definire cosa sia l’intelligenza ci porterebbe troppo fuori dal seminato ma si può supporre che la sopravvivenza in un contesto inospitale come lo era la savana africana 5 qualche milione di anni fa e la perenne competizione con altri predatori naturali molto più abili, abbiano selezionato tra gli ominidi che più erano capaci di elaborare convenienti strategie di sopravvivenza 6. Non appena la raccolta di risorse necessarie alla sopravvivenza quotidiana superò stabilmente il loro consumo, quella stessa capacità di elaborazione prima indirizzata a garantire la continuità del gruppo e dell’individuo ecco che diventa linguaggio, pensiero astratto e logica; in altre parole, intelligenza.
I primi ominidi si svilupparono da precedenti primati circa 6 milioni di anni fa ma l’uomo moderno risale ad appena 45 mila anni fa, questo per dire quanto  comunque lunga e difficile sia stata la strada che ha portato dai primati consapevoli all’Homo Sapiens dotato di intelligenza.
Ma analizzando più da vicino questi ultimi 45 mila anni vediamo che solo una civiltà, la nostra, si è evoluta abbastanza da sviluppare l’esplorazione spaziale. Il livello tecnologico che oggi abbiamo è frutto della globalizzazione delle idee e delle conoscenze che 500 anni di esplorazioni e di egemonia economico-politica europea hanno esportato nel mondo. A sua volta la civiltà europea ha radici che affondano nella cultura greca e più giù fino a alle estinte civiltà mesopotamiche. Adesso non possiamo ovviamente sapere se qualcuna delle altre civiltà esistite nell’arco della storia umana avrebbe potuto sviluppare un qualche interesse per lo spazio e le comunicazioni interstellari.
Fino al XVII secolo la Cina è stata per molti versi la nazione tecnologicamente  più evoluta del globo. Essi conoscevano la polvere pirica, i razzi e la stampa ben prima degli europei, già nel XI secolo avevano conoscenze matematiche che in Europa si sarebbero viste soltanto nel XVI secolo [cite]http://goo.gl/xqxbMc[/cite] ed erano eccellenti osservatori del cielo. Però nonostante tutto era una società tradizionalista, e anche se padroneggiavano benissimo l’ingegneria navale 7 non furono mai degli esploratori come gli europei che, nonostante le continue guerre che martoriavano il continente politicamente frammentato, erano sempre in cerca di nuove risorse da sfruttare 8.
Altre realtà sociali raccontano una ben altra storia. Moltissime altre culture isolate o comunque refrattarie all’integrazione verso la nostra cultura tecnologica (Indios dell’Amazzonia, Aborigeni australiani, molte società tribali africane etc.) si sono limitate ad usare le risorse ambientali disponibili e a fermarsi lì. Alcune non hanno mai sviluppato interesse allo sfruttamento intensivo del territorio e al commercio (magari sostituito dal baratto o dalla semplice appropriazione), e preferito la stagnazione culturale adottando un modello di società tribale che a noi appare primitivo. In molti casi l’inospitalità ambientale ha costretto loro alla continua lotta per la semplice sopravvivenza del gruppo (Aborigeni australiani), mentre in altri casi (Indios dell’Amazzonia)  è accaduto l’esatto contrario: le fin troppe risorse di base disponibili hanno paradossalmente limitato la necessità e l’interesse nel cercare altri contatti culturali e la stagnazione sociale ha preso il sopravvento.

Apertura dei Giochi Olimpici di Berlino 1936.

Ma torniamo all’unica civiltà tecnologicamente evoluta capace di poter ascoltare messaggi interstellari e inviare sonde automatiche nello spazio: la nostra.
Questa tecnologia è apparsa solo nell’ultimo secolo, conseguenza delle scoperte scientifiche sull’elettricità e l’elettromagnetismo, della meccanica relativistica e quantistica. Il primo segnale elettromagnetico di una certa rilevanza emesso dall’uomo fu nel 1936 per l’occasione delle Olimpiadi di Berlino 9.
Più o meno lo stesso discorso vale per l’esplorazione spaziale. Anche se esistono leggende su maldestri tentativi di sperimentazione del volo umano tramite razzi 10, solo nel XX secolo la nostra tecnologia ha raggiunto la capacità di raggiungere l’intero Sistema Solare. Ma, sarebbe ipocrita non ammetterlo, molta di questa tecnologia è stata sviluppata all’inizio per un uso bellico. Le celebri conquiste spaziali, da Gagarin fino all’allunaggio dell’Apollo 11, furono in realtà il frutto di una competizione militare tra due superpotenze politiche.
Senz’altro la naturale evoluzione tecnologica avrebbe prima o poi portato agli stessi successi, ma questi si sarebbero avuti sicuramente in tempi molto più lunghi.

(fine  prima parte)

Note:

 

Interminati mondi e infiniti quesiti

La copertina del mio libro: anche la fotografia qui è mia. Su Amazon si può leggere sia la sinossi che un breve estratto gratuito.

Ho sempre sostenuto che nell’affrontare un argomento tanto complesso non si dovrebbe mai prescindere dal raccontare anche le condizioni che lo circondano, esattamente come per lo scrivere, o il parlare, occorre conoscere il significato di ogni singola parola usata. Mi è altrettanto caro però anche un altro concetto: un libro non serve a dare esclusivamente nozioni, ma deve offrire al lettore anche qualcosa su cui riflettere e proporre di approfondire autonomamente l’argomento di cui tratta.

Per questo saggio[1] a me sono serviti quattro anni. O forse anche di più.
Sicuro che il primo embrione di quello che poi sarebbe diventato il mio primo libro — non ho affatto intenzione di fermarmi a questo, uscì proprio su questo Blog nel 2015[2], attraverso una serie di articoli sul celebre Paradosso di Fermi. Non sto a ripeterne qui la storia, l’ho spiegata in un capitolo del mio lavoro.
Ho detto quattro anni, perché ne parlai durante un pranzo con la Responsabile della Didattica e Divulgazione presso la Fondazione GAL Hassin-Centro Internazionale per le Scienze Astronomiche, Isnello (PA), (blogger di Tutti Dentro , firmatrice di diversi articoli qui ospitati, nonché mia carissima amica) Sabrina Masiero nel lontano 2016, e che poi mi ha aiutato tantissimo proprio nelle ultime revisioni alla fine dello scorso anno.

È stata una genesi lunga che alla fine mi ha portato molto lontano — e non solo da queste pagine — e fatto maturare in modi che, sinceramente, non avrei mai creduto possibile. Ho rivisto alcune mie posizioni, affrontato argomenti e campi a me del tutto sconosciuti o appena osservati da lontano.
Esplorare le innumerevoli domande insite in questo saggio è virtualmente impossibile, perché ognuna di esse apre infiniti altri quesiti che richiederebbero altrettanti trattati. Per questo ne ho scelti e affrontati soltanto qualcuno. Una scelta difficile, che mi ha portato a scrivere e abbandonare centinaia di bozze e sviluppare quelle che ho comunque ritenuto più significative.

Affrontare i temi della Vita, Intelligenza e Civiltà extraterrestri prendendo spunto unicamente dall’umana esperienza su questo mondo può sembrare scontato, ma molto spesso tale sforzo non viene  compiuto.
Duecento o quattrocento miliardi di stelle nella nostra Galassia non significa che ognuno di quei soli sia accompagnato da qualche forma di vita, anche se appena batterica. Anzi: la maggior parte delle stelle che vediamo ad occhio nudo (appena qualche migliaio) o è troppo grande oppure possiede qualche altro handicap da scontare.
Eppure tra queste centinaia di miliardi si possono ancora calcolare milioni di altre stelle che potrebbero benissimo ospitare altrettante terrificanti e pur sempre meravigliose forme di vita; queste potrebbero funzionalmente somigliare ad alcune di quelle che la Terra ha ospitato in quattro miliardi di anni, oppure no.
Come è esattamente sorta la vita sulla Terra ancora nessuno lo sa, ma ci sono buoni e ragionevoli motivi per pensare che questo sia accaduto — e che accada ancora — attorno a quei milioni di stelle che ho appena citato, e questo lo si è creduto o, perlomeno sospettato, fin dalla preistoria.
Il concetto stesso di Vita ha mutato significato nei secoli e con esso anche il modo in cui si è supposto che la Vita sarebbe potuta emergere. Dall’aristotelica abiogenesi alla sua definitiva smentita da parte di Pasteur, dal concetto fumoso di Erasmus Darwin (il nonno di Charles) fino agli esperimenti di Miller e Urey[3] che hanno spianato poi la strada alla moderna astrobiologia.
Ma quello che — almeno per me, amante da sempre del razionalismo scientifico — è apparso sempre più evidente, man mano che andavo avanti con la stesura, è stata la similitudine tra il concetto metafisico del Divino e quello dell’Universo e la sua storia che  faticosamente stiamo scoprendo nel’ultimo secolo.
Deus sive Natura, diceva più di tre secoli fa il filosofo olandese Baruch Spinoza, Dio ossia la Natura. E l’implicito che qui in parte tento di mostrare è simile: tutta la storia dell’Universo che abbiamo ricostruito ci mostra che sotto molti aspetti il Divino e la Natura possono essere concetti piuttosto simili e spesso essere perfino sovrapponibili. Col mio studio desidero soltanto offrire alcuni spunti su cui riflettere partendo da una domanda fatta per celia all’ora di pranzo dal grande fisico che fu Enrico Fermi e che è matematicamente riassunta nell’Equazione di Francis Drake.

Come ogni buon libro che si rispetti, ho chiesto a Marco Castellani, dell’Osservatorio Astronomico di Roma – INAF, blogger di Gruppo Locale e scrittore, di curare la prefazione del mio lavoro. Ne è sortita una piccola perla che merita di essere gustata per intero, perché anch’essa offre al lettore miriadi stimoli di riflessione.

Non voglio svelare di più per non rovinarvi il gusto della lettura del mio saggio, ma posso dirvi che per me è stato un viaggio meraviglioso e che spero, con l’approvazione di voi lettori, presto di rifare.

 

Cieli sereni.

La bellezza nell’essere unici

Sono colpevolmente assente da queste pagine da molto, troppo tempo. Quest’anno non ho nemmeno avuto il tempo di partecipare alla pubblicità della Notte Europea dei Ricercatori sponsorizzata ogni anno  a settembre per l’Italia dagli amici di Frascati Scienza. Ritengo quel momento fondamentale per l’intera ricerca scientifica europea e le importanti sfide che ci attendono nel futuro e spero di essere presente il prossimo anno come blogger.
Il motivo di questa mia lunga pausa è dovuto al fatto che ho da poco ripreso in mano l’idea, vecchia ormai di due o tre anni, di scrivere un mio libro. Non me la sento per ora di garantire un regolare flusso di articoli finché sarò preso in questo importante progetto che non so per quanto mi terrà impegnato nel prossimo futuro. Per farmi perdonare e per stuzzicare la vostra curiosità, pubblico in anteprima un breve estratto della presentazione che lo accompagnerà.

Tic-tac-toe in the skyOvunque posassimo lo sguardo nell’Universo vedremmo infinite varietà che rendono unico ogni anfratto.
Le leggi fisiche sono soltanto quattro, le combinazioni che i protoni, neutroni ed elettroni possono raggiungere — presumibilmente — sono appena 137. Eppure in questo sterminato Universo fatto di migliaia di miliardi di galassie e infiniti vuoti non c’è una stella, un mondo, un metro cubo di spazio esattamente uguale a un altro.
E anche là dove fosse sorta la vita, non potrebbe esserci un organismo esattamente identico a un altro, sia nello spazio che nel tempo. Restando su questa piccola gemma blu spersa nell’infinito cosmico, nelle migliaia di secoli non è mai esistito animale o vegetale del tutto identico al suo più prossimo. Un solo Pitagora, un solo Giulio Cesare, Gandhi o Einstein: ognuno di noi è lievemente diverso dal resto e proprio questo lo rende preziosamente unico.
Per estensione potremmo affermare che la Specie Umana e la Terra sono uniche in tutto l’Universo e in tutta la sua storia passata, presente e futura. Questo non deve essere visto come un inno all’antropocentrismo ma bensì come lode all’essere umano. 
Come esseri senzienti dovremmo riflettere bene su questo aspetto e di conseguenza mirare le nostre azioni se non vogliamo finire nell’oblio cosmico.

Una plausibile risposta alla celebre domanda “… allora dove sono tutti quanti?” di Enrico Fermi — poi passata alla storia come il Paradosso di Fermi — è che ogni civiltà tecnologica emergente prima o poi è costretta ad affrontare una o più sfide che ne potrebbero decretare il fallimento, un Grande Filtro che di fatto renderebbe il passaggio da civiltà tecnologica a civiltà interplanetaria e poi cosmica molto molto difficile.
Trent’anni fa era la prospettiva di una guerra apocalittica combattuta con armi di distruzione di massa [1. 
Carl Sagan sostenne che è proprio la durata di una civiltà il fattore più importante per stabilire quante esse ci siano adesso nella galassia: egli sottolineò l’importanza delle difficoltà che avrebbero incontrato le specie tecnologicamente avanzate per evitare l’autodistruzione. Questa consapevolezza accese l’interesse di Sagan verso i problemi ambientali e lo spinse ad impegnarsi contro la proliferazione nucleare.] per la supremazia tra due modelli sociali opposti e apparentemente inconciliabili 1,  oggi quell’incubo, anche se non si è mai allontanato del tutto, è stato scavalcato dal degrado ambientale globale, di cui il Global Warming con tutte le sue conseguenze politiche ed economiche che comporta è soltanto il più noto, l’esaurimento delle risorse naturali causato dal dissennato sfruttamento imposto dal modello economico globale imperante, oppure una involuzione sociale causata da una o a tutte le minacce menzionate qui sopra messe insieme.

Qualora ci soffermassimo per un attimo a osservare il percorso evolutivo dell’Universo, potremmo renderci conto che quando facciamo della scienza e della filosofia non siamo nient’altro che Universo che si interroga su sé stesso, un angolo di Autocoscienza Universale che non merita di perdersi nell’oblio del nulla: una flebile scintilla di intelligenza che merita di diventare fuoco eterno.
Affinché l’Umanità emerga  nel panorama cosmico, cosa che mi auguro, essa dovrà saper affrontare grandi e importanti sfide: non esistono scorciatoie per questo traguardo.
E lo dobbiamo per nostri sacrifici, i nostri antenati e tutta la storia di questo pianeta; dobbiamo farlo per assicurare un futuro ai nostri figli e  tutti i nostri discendenti. Altrimenti ogni sforzo, lacrima e sudore versati finora da ogni Uomo sarà stato vano.

Ascoltando il silenzio

Nell’articolo precedente ho illustrato la base minima su cui partire per cercare di comprendere il mio pensiero: non credo alla colossale panzana degli ufini ma neppure mi sento di escludere a priori l’esistenza di altre entità biologiche extraterrestri intelligenti che condividono con noi l’interesse di studiare e di esplorare il cosmo.

La vita come la conosciamo è basata sulla chimica del carbonio. Il carbonio a sua volta non è sempre esistito ma è uno dei prodotti di scarto delle reazioni nucleari delle stelle. Le prime stelle dell’Universo apparvero piuttosto presto: appena un centinaio di milioni di anni dopo il Big Bang. Ammettendo un paio di miliardi di anni come ciclo vitale delle prime grandi stelle, potremmo ragionevolmente affermare che l’Universo è in grado di sostenere la vita basata sul carbonio da almeno 9/10 della sua esistenza: cioè circa 12 miliardi di anni 1 [cite]https://arxiv.org/abs/1312.0613[/cite]. Se a questo dato dovessimo aggiungere l’intervallo che potrebbe essere necessario per traghettare la vita verso le forme dotate di intelletto almeno pari al nostro, prendendo la Terra come termine di paragone — in fondo è l’unico che per ora abbiamo, potremmo estrapolare che un cosmo potenzialmente abitabile da specie intelligenti sia possibile da almeno 8 miliardi di anni. È comunque un arco di tempo notevole che in qualche modo fa presente che una eventuale civiltà extraterrestre non va immaginata qui e ora ma cercata anche nella vastità del tempo.
Ogni tipo di comunicazione o segnale, per le nostre attuali conoscenze fisiche, non può essere più veloce della velocità della luce nel vuoto: ogni volta che osserviamo un qualsiasi oggetto, che sia l’albero di fronte a noi o il quasar più lontano nel cosmo, noi lo vediamo come era nel momento tt1 in cui la luce lo ha lasciato ( t1=d/c).
Questo significa che anche se domani dovessimo scoprire segnali radio o di qualsiasi altra natura provenienti da una civiltà tecnologica extraterrestre, noi non potremmo prendere atto altro che del fatto che in un certo istante nel passato essa è esistita e che potrebbe essere, al momento della sua scoperta, ormai scomparsa. 
Un altro aspetto assai spesso trascurato è che ogni emissione elettromagnetica non è mai a costo zero: essa richiede energia per esistere, sia che si tratti dell’emissione di una stella o della luce di una lampadina o di una trasmissione radio. Certo, si potrebbe obbiettare che per una civiltà tecnologicamente avanzata la produzione di energia potrebbe non essere un problema ma questo a mio avviso non è, anche scientificamente parlando, corretto.
Inoltre, e questo è curioso oltreché vero, che le radioemissioni involontarie provenienti da una ipotetica civiltà extraterrestre che potrebbero rivelarci la sua presenza potrebbero essere assai limitate nella sua storia. Come ho spesso affermato su queste pagine anche in passato, le trasmissioni broadcast radiotelevisive di una potenza significativamente grande sono esistite per poche decine di anni, presto soppiantate da satelliti per le comunicazioni rivolti a illuminare aree limitate del nostro pianeta e cavi in fibra ottica transoceanici. Anche i nostri più perfezionati telefoni cellulari ci consentono di comunicare istantaneamente con ogni altra parte del globo con meno di un watt di radioemissione appoggiandosi a una rete di trasmettitori a bassa potenza e alle tecnologie satellitari, mentre il rumore elettromagnetico di fondo prodotto dalla nostra tecnologia basata sull’elettricità è aumentato a dismisura.
Una civiltà extraterrestre a 100 anni luce che ascoltasse la Terra potrebbe rivelarci tra 20-30 anni per poi vedere il nostro segnale crescere significativamente per una cinquantina d’anni e poi ridiscendere improvvisamente per lasciare il posto a un brusio di fondo molto forte alle frequenze più basse.
Per lo stesso motivo non potremmo percepire la presenza di un’altra civiltà con una storia evolutiva molto simile alla nostra molto a lungo a meno che i suoi segnali non coincidano col nostro periodo di ascolto: le loro emissioni potrebbero aver attraversato il Sistema Solare quando noi attraversavamo gli oceani su fragili caravelle o all’epoca della Guerra Civile Americana e oggi non saremmo più in grado di sentirli. A meno che non lo volessero di proposito ma quella è un’altra storia.

 Il paradosso di Fermi

È questo il vero problema e che potrebbe proporre una plausibile risposta al celebre paradosso: noi conosciamo la tecnologia radio soltanto da un centinaio di anni e solo da ottanta di essi questa tecnologia si è significativamente evoluta: su 8 miliardi di anni noi abbiamo la radio da un 100 milionesimo di questo arco di tempo. Pretendere che ascoltando qualche migliaio di stelle si capti una trasmissione intelligente in così poco tempo è statisticamente impensabile 2. Senza contare che le tecnologie di ricezione e di elaborazione del segnale si fanno ogni anno sempre più complesse ed efficaci: magari quella che allora era sembrata una spuria captata dall’arcaico Progetto OZMA oggi — o in futuro — potrebbe essere interpretata come un segnale intelligente.
Ma comunque qui ancora una volta sfugge una cosa fondamentale che può fallare ogni nostro sforzo: il nostro approccio alla ricerca di vita e intelligenza extraterrestre è comunque basato sul nostro grado di conoscenza e tecnologia, Cerchiamo segnali elettromagnetici — come le onde radio — perché in sostanza essi sono fondamentali nella nostra tecnologia, ma possono esserci altre forme di comunicazione e noi ignote o che non consideriamo come tali. Prendiamo il linguaggio umano: esso è basato sul suono, ossia la compressione modulata del mezzo in cui siamo immersi: l’aria. Ma molte specie di animali comunicano attraverso l’emissione e la ricezione di stimoli chimici come i ferormoni o altre molecole più elementari.

Stiamo ascoltando il silenzio e, a parte alcune ottimisti previsioni, continueremo a farlo per un bel po’. Qualcosa ancora certamente pare sfuggirci. Alla prossima …

 

(Continua…)

Fantasie metropolitane e fenomeno UFO: le cover-up

Da Roswell all’Area 51

Un aerostato del Progetto Mogul in fase di allestimento precedente al volo. I volti dei tecnici sono stati oscurati per nascondere la loro identità.
Credit: USAF/CIA, 1997

L’ambiente sociale in cui scoppiò il fenomeno UFO era molto particolare. Da un lato gli Stati Uniti avevano vinto una guerra mondiale contro un nemico, almeno inizialmente, tecnologicamente più avanzato. La paura per una rappresaglia nazista era ancora ben viva nella mente degli americani. Ma appena finita la guerra col Giappone grazie a due bombe atomiche, ecco affacciarsi un nuovo e più temuto nemico che fino al giorno prima era stato suo alleato durante la guerra: l’Unione Sovietica.
La fobia per i sovietici spinse gli USA come mai era accaduto nella loro storia a finanziare la ricerca, sia civile che, soprattutto, militare. Nel 1947 il timore che i russi sviluppassero armi atomiche in grado di colpire il suolo americano spinse gli americani a progettare una rete di fonometri ad alta quota per monitorarne i progressi. Tale progetto fu affidato all’università di New York che, basandosi sul concetto che le onde acustiche di una sonora esplosione possono raggiungere l’alta atmosfera ed essere captabili quindi oltre il raggio della curvatura terrestre. Il nome di quell’operazione era Mogul [4].
Tale programma in verità ebbe vita assai breve: troppo costoso e assai poco affidabile.

Operazione Mogul

Nella pratica l’intera operazione consisteva nell’inviare nell’atmosfera superiore tutta una serie di palloni aerostatici che sorreggevano i microfoni con la relativa elettronica. Per i primi test di lancio fu impiegata una boa marina e riflettori ottaedrici per monitorare la posizione delle sonde al posto dei più classici sistemi di triangolazione del radiosegnale (Non c’era posto in aereo per portare i ricevitori!).

Ecco come erano i famosi geroglifici tanto decantati dagli ufologi.
Credit: USAF/CIA, 1997

Il radar del sito di lancio ([fancybox url=”https://www.google.com/maps/place/Holloman+AFB,+NM+88330/@32.8431167,-106.1366451,13z/data=!3m1!4b1!4m13!1m7!3m6!1s0x0:0x0!2zMzTCsDE1JzAyLjAiTiAxMDXCsDM1JzQ0LjAiVw!3b1!8m2!3d34.250556!4d-105.595556!3m4!1s0x86e05c343376eabd:0xaed4091d6eaea12f!8m2!3d32.8438274!4d-106.0990906?hl=en”]Holloman Air Force Base, Alamogordo, New Mexico[/fancybox]) non riusciva infatti a seguire efficacemente il pallone sonda fatto di neoprene — un materiale con una resa molto migliore della comune gomma per i palloni stratosferici, oggi di uso comune per esempio nelle tute da sub (è difficile da tagliare o strappare e torna sempre nella sua forma originale …) ma piuttosto innovativo nel 1947 — e per questo i tecnici fecero ricorso all’ultimo momento ai riflettori radar, commissionandoli a una fabbrica di giocattoli, che usò lo stesso nastro adesivo rosa e viola con motivi fantasia, usato dall’azienda per alcuni loro giocattoli, per rinforzare la balsa usata per costruire i riflettori ottaedrici, del resto molto simili agli aquiloni per bambini. 

La sonda n°4 del progetto Mogul partì dalla base aerea di Holloman il 4 di giugno. Come ho cercato di spiegare, le sonde erano ancora nella fase sperimentale, quasi tutto il materiale necessario alla loro costruzione proveniva dal libero mercato, anche il fonorivelatore era una banale boa d’ascolto marina, una AN/CRT-1 [5] [6].
Tutto l’impianto della sonda era quindi sperimentale: 20 palloncini collegati in cordata alla distanza di 6 metri l’uno dall’altro (le sonde meteo usavano soltanto un palloncino da 350 grammi), 5 riflettori ottaedrici fatti con carta stagnola (probabilmente una versione del Mylar conosciuto come Terylene, noto anche come PET) e balsa e una boa marina lanciati nell’atmosfera superiore; la storia di copertura della solita sonda meteorologica non avrebbe retto neanche un minuto in caso di incidente.

Una notte buia e tempestosa

[A] large area of bright wreckage made up of rubber strips, tinfoil, a rather tough paper and sticks.

[Una] grande area di brillanti detriti, composti da strisce di gomma, da stagnola, da carta e bastoncini.

There was no sign of any metal in the area which might have been used for an engine and no sign of any propellers of any kind, although at least one paper fin had been glued onto some of the tinfoil.

Non trovammo alcun segno di metallo nella zona che potesse sembrare un motore o qualcosa di simile, anche se c’era un’aletta di carta che aveva incollati alcuni [pezzi] di carta stagnola.

There were no words to be found anywhere on the instrument, although there were letters on some of the parts. Considerable scotch tape and some tape with flowers printed upon it had been used in the construction.

Non trovammo alcuna parola [o scritta] sull’oggetto, sebbene ci fossero delle lettere su alcuni pezzi. Molto nastro adesivo e qualche nastro con fiori stampati erano stati utilizzati nella costruzione.

No strings or wire were to be found but there were some eyelets in the paper to indicate that some sort of attachment may have been used.

Nessuna stringa o filo furono trovati ma c’erano alcuni occhielli nella carta che suggerivano che un qualche tipo di legatura potrebbe essere stata utilizzata.

William “Mac” Brazel

Ed è quello che avvenne il 7 luglio 1947, o uno dei giorni immediatamente precedenti secondo alcune fonti,  vicino a [fancybox url=”https://www.google.com/maps/place/33%C2%B058’06.0%22N+105%C2%B014’36.0%22W/@34.1680175,-106.1775067,8.61z/data=!4m5!3m4!1s0x0:0x0!8m2!3d33.968333!4d-105.243333?hl=en”]Roswell, New Mexico[/fancybox], dopo un volo di 145 chilometri dal sito di lancio. Un temporale fece precipitare la sonda Mogul n° 4 senza controllo in un ranch dove poi fu trovata da William Brazel, il rancher della contea di Lincoln che scoprì il relitto (alcune frasi della sua testimonianza sono riportate qui a fianco).
Nulla nel luogo dell’incidente poteva far credere a uno schianto di un disco volante; anche la cordata di palloni era volata via da qualche altra parte mentre quello che fu trovato sul primo sito erano i resti, stando alla  prima testimonianza del rancher, che potevano appartenere a qualcuno dei cinque riflettori — in effetti racconta Brazel che tentarono inutilmente di ricomporre quello che pensavano essere un aquilone — e qualche pezzo di neoprene translucido di qualche palloncino distrutto, forse dalla tempesta o forse dalla caduta. 
Il resto è una storia che finì lì. Per un paio di settimane i giornali locali dettero spazio alla notizia e anche qualche agenzia internazionale lo fece, come la [fancybox url=”https://ilpoliedrico.com/wp-content/uploads/2017/07/afp9jul1947.jpg”]France Press.[/fancybox]  
Comunque, già nel 1952 si era scoperto che i rottami di Roswell erano i resti di un qualche bersaglio radar [7] quasi certamente appartenuto a qualche tipo di progetto militare segreto.
Erano trascorse soltanto un paio di settimane dal curioso racconto di Kenneth Arnold [8] e stava diventando assai comune e sarcastico descrivere tutto ciò che non si poteva riconoscere in cielo con un lapidario “They’re a flying saucers“, un po’ come oggi usiamo ironicamente dire “Sono degli UFO” [1.

Tuttavia poi l’ilarità suscitata da questo argomento portò nel 1950 a Los Alamos durante una pausa pranzo Enrico Fermi a chiedersi: “ Where’s Everybody?“] [9].

Trent’anni di silenzio

Comunque fu nel 1978 che la storia di Roswell riprese vigore. Nel paragrafo XVIII di Retrievals of the Third Kind: A case study of alleged UFOs and occupants in military custody [10], il saggista e ricercatore UFO Leonard Stringfield 1 racconta di essere stato contattato da un maggiore dell’Intelligence dell’Air Force , J.M. (Jesse Marcel) che disse di aver partecipato al recupero dei resti di Roswell.

Major J.M. and aides were dispatched to the area for investigation. There he found many metal fragments and what appeared to be “parchment” strewn in a 1 square mile area. “The metal fragments,” said the Major, “varied in size up to 6 inches in length, but were of the thickness of tinfoil. The fragments were unusual,” he continued, “because they were of great strength. They could not be bent or broken, no matter what pressure we applied by hand. The area was thoroughly checked, he said, but no fresh impact depressions in the sand were found. The area was not radioactive. The fragments, he added, were transported by a military carry-all to the air base in Roswell and from that point he was instructed by General Ramey to deliver the “hardware” to Ft. Worth, to be forwarded to Wright-Patterson Field for analysis. When the press learned of this retrieval operation, and wanted a story, Major J.M. stated, “To get them off my back I told them we were recovering a downed weather balloon.” When the major was asked for his opinion as to the identification of the fragments he was certain they were not from a balloon, aircraft, or rocket. He said because of his technical background he was certain that the metal and “parchment” were not a part of any military aerial device known at that time.

[Il] Maggiore J.M. e i suoi assistenti furono inviati nella zona per l’inchiesta. Lì trovarono molti frammenti di metallo e quella che sembrava essere “pergamena” sparsi in un’area di un miglio quadrato.
“I frammenti di metallo”, disse il maggiore, “variavano in dimensioni fino a 6 pollici di lunghezza, ma erano dello spessore della carta stagnola. Questi frammenti erano insoliti”, continuò, “perché erano molto robusti. Non  potevamo piegarli o romperli con le mani a prescindere dalla forza che impiegassimo.”
Aggiunse anche che la zona fu accuratamente controllata ma non furono scoperte altre depressioni da impatto sulla sabbia. L’area non era radioattiva. I frammenti  furono caricati   su un mezzo militare e trasportati tutti alla base aerea di Roswell e il generale Ramey ordinò di consegnare l’hardware a Ft. Worth, per inviarli al Wright-Patterson Field per l’analisi.
Quando la stampa seppe di questa operazione di recupero, chiese [altre] informazioni e il maggiore J.M. dichiarò: “Per levarmi l’impiccio, ho detto loro che stavamo recuperando un pallone meteorologico perduto.” 2
Quando gli fu chiesta la sua opinione sull’identificazione dei frammenti, disse che era certo che non provenissero da un pallone, un velivolo o un razzo. Aggiunse [anche] che a causa del suo background tecnico era certo che quel metallo e la “pergamena” non potessero essere parte di qualsiasi dispositivo aereo militare noto a quel tempo.

Leonard H. Stringfield

Il testimone, J. M., affermò di aver raccolto dal luogo dello schianto dei frammenti di una specie di carta stagnola non più grandi di 15 centimetri, però molto resistenti alla trazione e alla piegatura, tutte caratteristiche del polietilene tereftalato, inventato nel 1941 in Inghilterra col nome di Terylene e brevettato come Mylar nel 1952.  
Se effettivamente i riflettori radar fossero stati costruiti con tessuto di polietilene come il Terylene, non ci sarebbe niente di anomalo o di alieno nei resti raccolti dai militari guidati dal maggiore J. M.. Esso era soltanto un materiale inventato pochi anni prima e ancora sconosciuto al pubblico e il suo impiego
 in un pallone meteo sarebbe sembrato troppo curioso.
Nessuna radioattività, nessun altro cratere da impatto, nessun congegno che possa somigliare a un motore o propulsore. Niente di niente, nessuna prova che una navicella extraterrestre si sia mai schiantata a Roswell quel giorno.
Ma la fantasia dei fuffologi (io scherzosamente li chiamo così, non  posso neanche immaginare che le storie da essi raccontate siano anche solo lontanamente verosimili e che possano crederci veramente anche loro) non finisce certo qui, con l’ufino che dopo un viaggio di ben 39.2 anni luce — sì, perché i ‘lieni pensati dai fuffologi vengono da ζ Reticuli! — va a schiantarsi nel bel mezzo del nulla come un autista ubriaco. 
Tale nave spaziale, prelevata dai militari, sarebbe stata impacchettata e spedita presso una base militare talmente segreta che non ne esisterebbe traccia neppure negli archivi militari.

Area 51

Tale base è la famigerata Area 51.  Qui secondo la mitologia ufologica la nave spaziale sarebbe stata smontata, studiata e riprodotta.
Quei fanatici sono convinti che sia stata l’ingegneria inversa applicata sulla tecnologia dell”UFO a darci oggi i componenti elettronici miniaturizzati, i microchip che controllano anche la nostra lavatrice, i cristalli liquidi delle nostre TV e le altre mille diavolerie moderne. Nulla riguardo a nuovi sistemi di energia e propulsione, su come affrontare i viaggi interstellari o come risolvere i nostri, gravi, problemi di inquinamento che minacciano la nostra specie di più di quanto faccia l’intero arsenale nucleare globale!
Non contenti, questi pittoreschi narratori, hanno aggiunto in seguito ‘lieni morti o moribondi, biopsie segrete sui cadaveri dei suddetti, contatti con specie extraterrestri e alleanze o collaborazioni di comodo occulte, perfino.

Al di la di tutte queste idiozie, la super segreta Area 51 esiste davvero. Non è poi così segreta anche se i vertici militari USA ne celarono l’esistenza fino al 2013.
Anche i programmi svolti in questa base erano talmente segreti e compartimentati che gli stessi ingegneri non avevano coscienza del loro lavoro o di quello dei loro colleghi 3.
L’area in cui sorge la base, i resti di un lago salato ormai asciutto, Groom Lake, è piuttosto lontana da qualsiasi insediamento civile e è un’ottima pista naturale per il collaudo di aerei. Per questo è un sito militare di enorme importanza strategica.
Qui furono sviluppati e testati aerei militari super segreti: il Progetto Acquatone, che portò al primo aereo stratosferico Lockheed U-2, il cui scopo era proprio quello di spiare dall’alto i progressi militari sovietici, nacque proprio qui. Nel 1960 però un missile contraereo russo riuscì ad abbattere uno di questi [11].
Questo incidente causò un ripensamento generale dell’intero progetto, anche se è importante sottolineare che l’U-2, essendo ancora in servizio, resta uno dei velivoli più longevi della storia militare. Così nacque il Progetto Oxcart, che portò alla realizzazione di un nuovo velivolo con capacità supersonica (Mach 3.35) a quota di crociera (23000 metri), il Lockheed A-12. In confronto l’U-2 era quattro volte e mezza più lento 4. L’aereo poteva volare a oltre tre volte la velocità del suono a quote che erano il triplo dei normali aerei di linea di quel tempo, e alcune sue configurazioni non erano verniciate. In sostanza erano interamente lucide tanto da poter riflettere i raggi del sole ed essere visto anche dal suolo. La particolare forma era stata studiata per eliminare gli angoli retti per aver la più piccola impronta radar possibile e questo lo rendeva il velivolo più bizzarro che si fosse visto a quell’epoca. 
Però presto l’A-12 si rivelò essere un aereo costosissimo e tutto quel calore in eccesso lo rendeva un ottimo bersaglio per i missili a guida termica. Fu così che nacque l’idea di progettare i primi velivoli avanzati con tecnologia stealth come il Lockeed SR-71 Blackbird.

Non voglio qui ripercorrere tutti i progetti ormai non più segreti di tutte le tecnologie nate nell’Area 51. Ma dal gigantesco U-2 al costosissimo A-12, fino ai moderni bombardieri B-2 e altri aerei dalle forme più strane e improbabili, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale con i prototipi del bombardiere Northrop YB-35 (primo volo nel 1946) che riprendevano il concetto del Horten HO-229 nazista, poi nella versione a turbogetto YB-49 dell’anno dopo — curiosamente simile alle descrizioni dei flying saucers di  Kenneth Arnold, negli Stati Uniti è stato un gran fiorire di prototipi di velivoli segreti che a occhi non preparati venivano descritti come UFO. Si calcola che almeno la metà di tutti i presunti avvistamenti UFO negli anni ’50 e ’60 siano da imputarsi a velivoli sperimentali segreti, alcuni dei quali li abbiamo visti entrare in servizio attivo mentre altri sono finiti nel dimenticatoio, abbandonati o cancellati.
Guardate la carrellata di alcuni aerei qui sotto, in attesa del gran finale …