Premetto che ancora poco o nulla si sa su Breakthrough Listen Candidate 1. Non esiste ancora un documento ufficiale su questo segnale captato nei pressi di Proxima Centauri. Tutto ha avuto origine da un articolo sul Guardian[1] e poche altre indiscrezioni apparse qua e là. Le voci finora a me giunte sono ancora troppo poche per poter suggerire quale sia l’esatta origine di BLC-1.
Questo però dimostra ancora una volta che la scienza non teme di rincorrere un tema spinoso come la ricerca di altre intelligenze extraterrestri, così come è impossibile che una notizia simile rimanga celata tanto a lungo. come suggeriscono alcuni furbi ai tanti beoti teorici del complotto.
Si fa presto a dire che Breakthrough Listen Candidate 1 (BLC-1) sia stato un segnale emesso da una civiltà tecnologica extraterrestre.
Tra aprile e maggio del 2019, il radiotelescopio Parkes (Australia), nell’ambito della ricerca Breakthrough Initiatives[2] per la ricerca di civiltà extraterrestri, è stato puntato verso la regione di cielo che ospita Proxima Centauri. la terza stella del sistema di Alpha Centauri.
Proxima è una stellina piccola e fredda, una M5 con una massa circa un decimo del Sole. Questo la rende soggetta a esplosioni coronali molto vivaci e frequenti causate dalla sua instabilità magnetica, esplosioni capaci di sterilizzare qualsiasi pianeta le orbitasse vicino.
Proxima in effetti ha due di pianeti uno appena più grande della Terra, in orbita nella zona abitabile (5 centesimi di unità astronomiche, 7,5 milioni di chilometri), e uno a 1,48 UA, grande 6 volte la Terra e completamente ghiacciato. I grandi brillamenti, che per loro natura hanno tutte le stelle di piccola massa, rendono assai poco probabile che si possa essere sviluppata la vita e poi una civiltà avanzata analoga alla nostra in un sistema siffatto, perché semplicemente, le condizioni non sono certamente le più adatte 1.
Parkes era stato puntato verso Proxima non per cercare gli alieni, i ricercatori quello che ho appena detto lo sanno, ma per studiare probabilmente i lampi di energia tipici di una stella a flares. Questo genere di studi è necessario se si vuol capire come riconoscere un segnale di origine artificiale da uno naturale.
Ma, durante l’ascolto, è stata notata una nota a 982,002 MHz, un debole segnale monotonico, ossia che, apparentemente, non contiene alcuna informazione codificata in esso. Ci si aspetterebbe che qualsiasi segnale di natura artificiale emesso da una civiltà extraterrestre con l’intento di comunicare contenga informazioni, modificando cioè l’intensità del segnale o modulando la sua frequenza, oppure ruotando il suo piano di polarizzazione, come avviene anche nelle comunicazioni terrestri, per esempio.
Ma BLC-1 (il nome dato al segnale) è stato, come ho detto, un debole segnale monotonico, l’equivalente di un fischio di una locomotiva, o di un fascio radar che non necessariamente si pretende che contenga qualche sorta di informazione. Curioso, ma non eccezionale: noi terrestri usiamo spesso segnali di questo genere.
Per dimostrare di essere un segnale di origine extraterrestre, i ricercatori in genere cercano subito se appare una qualche deriva di frequenza2, ovvero l’analogo dello spostamento verso il rosso o il blu caratteristico di una sorgente (o del ricevitore) che si muove nello spazio rispetto al suo opposto. È così che vengono scoperti i pianeti extrasolari col metodo spettrale: osservando e misurando le oscillazioni delle righe spettrali delle stelle. E questa caratteristica, pare che BLC-1 l’abbia mostrata. Ma il monotono è stato registrato per troppo poco tempo (alcune indiscrezioni parlano di 5 volte nell’arco di 3 ore) per stabilire se la sua deriva appartiene al movimento della Terra attorno al Sole (ricevitore) o se è la sorgente (il segnale) a muoversi attorno a Proxima Centauri.
Ipotesi
Come ho sottolineato prima, non necessariamente un segnale artificiale deve per forza contenere informazioni codificate al suo interno: basti pensare ai fasci di radioonde dei radar, che devono semplicemente illuminare un oggetto e captarne il riflesso. Oppure uno di quei transponder usati per la triangolazione e localizzazione delle piste di atterraggio degli aeromobili 3 che, quando sono fuori servizio di solito non trasmettono il loro codice identificativo proprio per dimostrare che non sono operativi.
Anche alcuni satelliti spia della vecchia Unione Sovietica trasmettevano in prossimità della banda L di radiocomunicazioni (tra 1 e 2 Ghz) e anche alcune vecchie telecomunicazioni usavano la parte alta della banda P (UHF).
Un detrito spaziale in un’orbita insolita, pressoché stazionaria, che avesse potuto riflettere un segnale di questi verso la Terra, anche se appare alquanto poco probabile, potrebbe offrire una spiegazione ben più convincente di una ipotetica civiltà tecnologicamente avanzata evolutasi su un pianeta in orbita a Proxima Centauri. Oppure un satellite artificiale non identificato, magari un satellite spia militare non classificato, potrebbe essere all’origine del misterioso segnale.
Un segnale spurio o una sua armonica 4 appare difficile da spiegare, perché il segnale era presente solo quando il Parkes era puntato in direzione di Proxima Centauri, il segnale scompariva appena il radiotelescopio veniva spostato (questa tecnica è chiamata nodding, dal termine inglese usato per descrivere l’annuire con un gesto della testa) ma non impossibile.
Poteva essere un segnale prodotto da una sorgente naturale molto più lontana e non necessariamente sulla stessa linea di vista, che le particolari attività di Proxima di quel momento, per esempio campi magnetici e plasma, hanno deflesso, messo in risonanza ed esaltato, producendo poi il segnale monotonico osservato (BLC-1) a 982 MHz. Oppure un’altra sorgente posta casualmente sulla stessa direttrice di Proxima Centauri, così come la scorsa settimana Giove e Saturno sembravano quasi sovrapporsi se visti dalla Terra.
Conclusioni
Quel che cerco di evidenziare è che non serve necessariamente ricorrere all’ipotesi più fantasiosa e affascinante per spiegare la natura di un segnale radio transitorio. Sì, perché BLC-1 nel frattempo pare che sia scomparso: qualunque cosa fosse stato, ha cessato di trasmettere, o forse noi non siamo più in grado di rivelarlo.
Anche noi, in passato, abbiamo intenzionalmente diretto un segnale radio transitorio verso lo spazio[3] con l’intento di comunicare la nostra presenza al panorama cosmico, ma condensammo un sacco di informazioni nel nostro segnale (se poi chi lo capterà sarà in grado di decifrarlo e comprenderlo, quello è un altro discorso) e BLC-1 non pare essere questo.
Solo il tempo — e ulteriori analisi — potrà dirci qualcosa di più della reale natura di Breakthrough Listen Candidate 1.
Sono passati diversi mesi dal mio ultimo articolo qui; diciamo pure che, dopo l’uscita del mio libro, mi sono preso un periodo sabbatico dalla scrittura più impegnata. Certo che nel frattempo, nonostante il fermo dovuto alla pandemia da Covid-19, non sono stato mai in ozio, visto che sto progettando — e costruendo — la mia personale stazione meteorologica e della qualità del cielo. Spero che presto possa presentare qui alcuni miei risultati, ma proprio oggi una notizia piuttosto importante è stata pubblicata su Nature, e di questo sento il bisogno di dire la mia.
Immagine composita di Venere dai dati della sonda spaziale Magellan della NASA e del Pioneer Venus Orbiter. Credit: NASA / JPL-Caltech
Ipotesi sulla possibile vita microbica sugli altri pianeti del Sistema Solare si sprecano: nel lontano 1967 anche il celebre scienziato Carl Sagan si cimentò nell’immaginare vita aerea sulle sommità dei pianeti giganti gassosi e di Venere.
E nel dicembre 1999, l’astrobiologo britannico Charles S. Cockell, ipotizzò la presenza di forme di vita chemioautotrofe sulle nubi superiori di Venere[4].
Però come è noto, la superficie di Venere è inospitale per ogni forma di vita a noi nota, anche la più estrema. 460 gradi Celsius, 92 volte la pressione atmosferica della Terra, piogge di acido solforico: niente lì potrebbe sopravvivere. Eppure, sopra questo inferno, tra i 50 e 60 chilometri dalla superficie, c’è uno strato di anidride solforosa e di acido solforico sormontato da uno strato di goccioline, sempre di acido solforico, dove la temperatura e pressione sono simili agli standard terrestri, ed è anche tutto quello che noi riusciamo a vedere di Venere. È comunque un ambiente estremamente acido, dove anche la vita più estrema scoperta sulla Terra[5] potrebbe avere serie difficoltà a sopravvivere.
Il 14 settembre 2020, su Nature, è apparsa una ricerca[6] che pare dare conferma alle tante speculazioni sulla presenza di forme di vita sulla sommità delle nubi di Venere.
Prima di scendere un po’ più in dettaglio, occorre sempre tenere ben presente che quanto finora è stato scoperto è, nel migliore delle ipotesi, una flebile traccia, poco più dell’ombra di una parziale impronta digitale sul luogo di un delitto, il che significa appena un indizio.
La ricerca della vita extraterrestre nel nostro Sistema Solare è piena di indizi: molecole organiche o i loro resti, su Marte e nelle meteoriti, i pennacchi stagionali di metano marziano, l’oceano sotterraneo di Encelado, le molecole complesse di Titano e quelle scoperte nelle comete. Potrei fare un elenco della lavandaia lungo chilometri solo per citare i casi più importanti. E anche laddove sembrava certa la scoperta di altre forme di vita, come nel caso del meteorite di origine marziana ALH84001, oppure l’esperimentoLabeled Release di Gilbert Levin, montato sulle sonde Viking, il dibattito Vita/non-Vita è ancora acceso.
Fosfina su Venere
La fosfina è composta da appena 3 atomi di idrogeno legati ad un singolo atomo di fosforo ( formula bruta PH3), formando così una struttura tetraedrica, molto simile all’ammoniaca (NH3) ma molto più reattiva. Una molecola piuttosto semplice, che si ritrova anche nel materiale interstellare attorno alle stelle ricche di carbonio e ossigeno (quindi mediamente più vecchie) e nelle atmosfere dei pianeti giganti, dove viene prodotta continuamente dalle pressioni e temperature molto alte negli strati atmosferici profondi e poi trasportata per convezione verso l’alto[7] dove degrada. In questi luoghi la fosfina non desta particolari attenzioni, perché presentano condizioni chimico-fisiche che consentono la formazione stabile di questa molecola, mentre nei pianeti rocciosi, come Venere e Terra, le superfici e le atmosfere planetarie degradano e distruggono molto rapidamente la delicata molecola.
Sulla Terra, ad esempio, le uniche fonti importanti di fosfina, (tralasciando la produzione industriale) sono i processi di scarto prodotti dal metabolismo di batteri anaerobi che si nutrono del materiale biologico in decomposizione o dai minerali fosfati.
L’evidenza di una probabile presenza di fosfine nelle nubi di Venere fu notata nel giugno 2017 dall’astrobiologa Jane Greaves durante una osservazione dal James Clerk Maxwell Telescope. Ma tale scoperta doveva in qualche modo essere confermata: poteva essersi trattato di una svista nella taratura degli strumenti o di un falso segnale.
E nel marzo 2019, attraverso la rete interferometrica dell’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA) è arrivata la conferma del segnale rilevato nel 2017 dal C. Maxwell1. Sono stati usati 45 telescopi puntati su Venere per tre ore ad una lunghezza d’onda di circa 1 millimetro, ossia 2000 volte più lunga della luce visibile: solo i telescopi ad alta quota (ALMA è a 5100 metri s.l.m.) possono osservare bene nell’infrarosso dalla Terra. L’elaborazione dei dati è stata molto complessa: Alma non è stato progettato per risolvere particolari minuti su sorgenti brillanti come Venere. Tuttavia la procedura di riduzione dei dati è comunque ben documentata e rimando a quello che è stato scritto nell’articolo pubblicato su Nature.
Spettro di Venere ottenuto con ALMA. Il pannello sinistro mostra lo spettro PH3 dell’intero pianeta. Il pannello destro mostra gli spettri delle zone polari (istogramma in nero), a media latitudine (in blu) ed equatoriale (in rosso). Gli spettri sono stati sfalsati verticalmente per chiarezza, e lo spettro polare è stato collocato in velocità per ottenere un limite superiore più profondo.
Questa scoperta apre scenari molto interessanti: nella sommità delle nubi (53-61 chilometri dal suolo venusiano), nei dintorni delle Celle di Hadley2 i ricercatori hanno scoperto le deboli tracce di fosfina in ragione di 20 ppb (parti per miliardo). Il pozzo nel diagramma qui a lato mostra la riga di assorbimento della fosfina nell’atmosfera di Venere.
Il dilemma è che su Venere di fosfina non dovrebbe essercene proprio: essa è una molecola estremamente reattiva, il famoso gas di palude che dà origine ai fuochi fatui non è altri che metano e fosfina (o fosfano, che è la stessa cosa) originati dalla decomposizione di materiale organico3. Senza una fonte costante di produzione essa non potrebbe esistere a lungo su un pianeta roccioso (sui pianeti giganti invece si forma continuamente per poi degradare). Sulla Terra, l’unica fosfina naturale esistente è prodotta durante il ciclo biologico del fosforo[8] (vedi illustrazione superiore), mentre l’atmosfera ossidativa del pianeta o i minerali della superficie degradano la molecola molto rapidamente.
A questo punto diventa arduo spiegare la presenza di molecole di fosfina nell’alta atmosfera di Venere, un ambiente iperacido e bombardato dai raggi UV del Sole. Tutti i meccanismi naturali, ovvero fulmini atmosferici, apporto da materiale meteorico, vulcanismo, non sono in grado di giustificare una presenza costante (ricordo che la presenza della molecola è stata osservata nel 2017 col C. Maxwell Telescope e nel 2019 con ALMA) e massiccia (20 ppb) di fosfina: ad ora nessun meccanismo abiotico noto presente sui pianeti rocciosi è in grado di farlo.
Presunta origine biotica della fosfina su Venere
Eliminate all other factors, and the one which remains must be the truth.
Elimina tutti gli altri fattori e quello che rimane deve essere la verità.
Sir Artur Conan Doyle, Sherlock Holmes “The Sign of the Four”, a.D. 1890
In base alle considerazioni precedenti, l’unica strada percorribile per spiegare la presenza di fosfina sulla sommità delle nubi di Venere, resta l’origine biochimica. Ma anche questa non è una via facile da percorrere.
Innanzitutto — ammesso e non concesso — che la fosfina venusiana sia di origine biologica, occorre capire come, in un’atmosfera dinamica e acida, la vita sia riuscita a perpetuarsi ed evolversi. Sulla Terra abbiamo scoperto estremofili che riescono a prosperare in condizioni estreme come quelle presenti nelle sorgenti idrotermali del vulcano Dallol, in Etiopia e che resistono benissimo agli ultravioletti, come i cianobatteri delle stromatoliti del lago salato Salar de Llamara, nella regione di Tarapaca, nel nord del Cile.
Innanzitutto dovremmo capire come sia possibile l’esistenza di forme di vita esclusivamente aerea. Anche la Terra ha una biosfera aerea, dove microorganismi arrivano a lambire lo spazio[9] e, anche se questa biosfera pare estendersi fino gli 85 chilometri di quota (giusto per fare un paragone, la ISS orbita a 408 km di quota), essa perlopiù risiede sospeso dentro le goccioline d’acqua nebulari e partecipa al ciclo delle precipitazioni[10]. In pratica, sulla Terra, avviene un continuo scambio di minerali e forme di vita microbica tra il suolo e l’atmosfera, basti osservare che, senza l’apporto delle sabbie dal Sahara, le Bahamas non potrebbero esistere. Non sappiamo se il medesimo ciclo è presente anche su Venere, ma è improbabile che, se esistesse qualche forma di vita nelle sommità delle nubi del pianeta, possa resistere alle tremende condizioni fisiche presenti al suolo. L’unica alternativa è che la vita venusiana sia limitata alla mesosfera e che sia incapace di scendere al di sotto: uno strato limite che impedisce alle forme di vita microbica e le loro spore di raggiungere gli strati sottostanti dove verrebbero distrutti. Sulla Terra la copertura nuvolosa è discontinua e dinamica; su Venere, invece, è ricoperto da ben tre distinti strati di nubi: uno strato superiore, composto da piccole goccioline di acido solforico ad una quota compresa tra i 60 e 70 km; uno strato intermedio, costituito da gocce più grandi e meno numerose, collocato a 52–59 km di altitudine; e infine uno strato inferiore più denso e costituito dalle particelle più grandi, che scende fino a 48 km di quota. Al di sotto di tale livello la temperatura è talmente elevata da vaporizzare le gocce, generando una foschia che si estende fino a 31 km di quota. Quindi è ipotizzabile che su Venere siano i diversi strati chimico-fisici dell’atmosfera a impedire che l’eventuale biosfera precipiti al suolo e che il taso di riproduzione delle forme di vita che la popolano compensi le inevitabili perdite.
Inoltre, rimangono da comprendere i meccanismi cellulari di forme di vita così estreme. Le nubi di Venere sono molto più aride e acide del più acido e secco ambiente che troviamo qui sulla Terra: nelle piscine idrotermali del Dallol è l’acido solforico ad essere disciolto nell’acqua, mentre su Venere è l’acqua ad essere disciolta nel medesimo acido. Un metabolismo di tipo terrestre non sarebbe possibile su Venere: la biochimica che conosciamo, gli acidi nucleici e le proteine, i lipidi e gli zuccheri, verrebbero distrutti istantaneamente. Nel 2004 l’astrobiologo Dirk Schulze-Makuch propose che una biochimica simile alla nostra avesse imparato ad usare lo zolfo come guscio protettivo[11] (lo zolfo non è bagnato dall’acido solforico) e la fotosintesi come fonte energetica.
Ipotetico ciclo vitale venusiano. La copertura nuvolosa su Venere è permanente, dove gli strati medi e inferiori offrono le condizioni più simili alla Terra.
Ma rimane pur sempre il problema dell’acqua: anche nelle piscine del Dallol l’acqua è sempre presente. Nel luogo più secco della Terra, il deserto di Atacama difficilmente scende sotto il 2%. Venere è però almeno 50 volte più secco del più secco luogo disponibile sul nostro pianeta. Certo, sono noti funghi e spore che si attivano con un’umidità relativa del 0,7%, ma nelle nubi di Venere questo indice scende a 0,04%. Poi c’è il problema dei nutrienti necessari a mantenere il ciclo metabolico: una importante fonte potrebbe essere la polvere meteorica che cade incessantemente sul pianeta, ad esempio, o riciclare il carbonio e l’azoto direttamente dall’atmosfera.
Per i dettagli rimando all’articolo[12] pubblicato nell’agosto di quest’anno dall’astronoma Sara Seager “The Venusian Lower Atmosphere Haze as a Depot for Desiccated Microbial Life: A Proposed Life Cycle for Persistence of the Venusian Aerial Biosphere” a proposito di un ipotetico ciclo biologico presente su Venere.
Un meccanismo abiotico per la fosfina su Venere
Il vulcanismo venusiano come fonte della fosfina fu scartato da Jane Greaves e gli altri perché ritenevano che l’apporto di questo meccanismo non avrebbe potuto spiegare la persistente quantità osservata (20 ppb) della molecola.
Un nuovo studio[13] (comunque ora pare ritirato) firmato dal professore di Chimica Teorica e Computazionale dell’Università dello Utah Ngoc Truong e il fisico planetario della Cornell University Jonathan I. Lunine, propone di rivalutare il ruolo del vulcanismo basaltico di Venere: una quantità di 93 chilometri cubici di lava all’anno4 potrebbero essere sufficienti a produrre solfuri a sufficienza per spiegare l’attuale presenza di fosfina nelle nubi superiori di Venere. L’analisi si basa su una presunta ripresa dell’attività vulcanica di Venere basandosi sulla scoperta di punti caldi sulla superficie del pianeta identificati dalla sonda europea Venus Express[14].
Anche ammettendo che le molecole di fosfina si degradino meno nell’atmosfera di Venere (non ci sono radicali ossidrilici (-OH) come sulla Terra) il parossismo vulcanico di Venere pare si sia concluso tra 2 milioni e 250 mila anni fa, e che ora potrebbero essere in atto perlopiù sporadiche emissioni di anidride solforosa, la quantità di fosfina nella mesosfera di Venere rimane ancora un mistero.
Conclusioni
Su Venere potrebbe esistere un meccanismo abiotico per la produzione di fosfina ancora sconosciuto sulla Terra, oppure un composto chimico potrebbe aver imitato la medesima riga spettrale per ora attribuita alla fosfina. O forse è veramente Vita, magari una vita talmente aliena alla nostra esperienza che non potremo neppure riconoscere come tale perché la sua biochimica è del tutto diversa dalla nostra.
Solo una ricerca sul campo potrà aiutarci a capire cosa succede nelle nubi più alte di Venere.
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Ho sempre sostenuto che nell’affrontare un argomento tanto complesso non si dovrebbe mai prescindere dal raccontare anche le condizioni che lo circondano, esattamente come per lo scrivere, o il parlare, occorre conoscere il significato di ogni singola parola usata. Mi è altrettanto caro però anche un altro concetto: un libro non serve a dare esclusivamente nozioni, ma deve offrire al lettore anche qualcosa su cui riflettere e proporre di approfondire autonomamente l’argomento di cui tratta.
Per questo saggio[15] a me sono serviti quattro anni. O forse anche di più.
Sicuro che il primo embrione di quello che poi sarebbe diventato il mio primo libro — non ho affatto intenzione di fermarmi a questo, uscì proprio su questo Blog nel 2015[16], attraverso una serie di articoli sul celebre Paradosso di Fermi. Non sto a ripeterne qui la storia, l’ho spiegata in un capitolo del mio lavoro.
Ho detto quattro anni, perché ne parlai durante un pranzo con la Responsabile della Didattica e Divulgazione presso la Fondazione GAL Hassin-Centro Internazionale per le Scienze Astronomiche, Isnello (PA), (blogger di Tutti Dentro , firmatrice di diversi articoli qui ospitati, nonché mia carissima amica) Sabrina Masiero nel lontano 2016, e che poi mi ha aiutato tantissimo proprio nelle ultime revisioni alla fine dello scorso anno.
È stata una genesi lunga che alla fine mi ha portato molto lontano — e non solo da queste pagine — e fatto maturare in modi che, sinceramente, non avrei mai creduto possibile. Ho rivisto alcune mie posizioni, affrontato argomenti e campi a me del tutto sconosciuti o appena osservati da lontano.
Esplorare le innumerevoli domande insite in questo saggio è virtualmente impossibile, perché ognuna di esse apre infiniti altri quesiti che richiederebbero altrettanti trattati. Per questo ne ho scelti e affrontati soltanto qualcuno. Una scelta difficile, che mi ha portato a scrivere e abbandonare centinaia di bozze e sviluppare quelle che ho comunque ritenuto più significative.
Affrontare i temi della Vita, Intelligenza e Civiltà extraterrestri prendendo spunto unicamente dall’umana esperienza su questo mondo può sembrare scontato, ma molto spesso tale sforzo non viene compiuto.
Duecento o quattrocento miliardi di stelle nella nostra Galassia non significa che ognuno di quei soli sia accompagnato da qualche forma di vita, anche se appena batterica. Anzi: la maggior parte delle stelle che vediamo ad occhio nudo (appena qualche migliaio) o è troppo grande oppure possiede qualche altro handicap da scontare.
Eppure tra queste centinaia di miliardi si possono ancora calcolare milioni di altre stelle che potrebbero benissimo ospitare altrettante terrificanti e pur sempre meravigliose forme di vita; queste potrebbero funzionalmente somigliare ad alcune di quelle che la Terra ha ospitato in quattro miliardi di anni, oppure no. Come è esattamente sorta la vita sulla Terra ancora nessuno lo sa, ma ci sono buoni e ragionevoli motivi per pensare che questo sia accaduto — e che accada ancora — attorno a quei milioni di stelle che ho appena citato, e questo lo si è creduto o, perlomeno sospettato, fin dalla preistoria.
Il concetto stesso di Vita ha mutato significato nei secoli e con esso anche il modo in cui si è supposto che la Vita sarebbe potuta emergere. Dall’aristotelica abiogenesi alla sua definitiva smentita da parte di Pasteur, dal concetto fumoso di Erasmus Darwin (il nonno di Charles) fino agli esperimenti di Miller e Urey[17] che hanno spianato poi la strada alla moderna astrobiologia.
Ma quello che — almeno per me,amante da sempre del razionalismo scientifico — è apparso sempre più evidente, man mano che andavo avanti con la stesura, è stata la similitudine tra il concetto metafisico del Divino e quello dell’Universo e la sua storia che faticosamente stiamo scoprendo nel’ultimo secolo. Deus sive Natura, diceva più di tre secoli fa il filosofo olandese Baruch Spinoza, Dio ossia la Natura. E l’implicito che qui in parte tento di mostrare è simile: tutta la storia dell’Universo che abbiamo ricostruito ci mostra che sotto molti aspetti il Divino e la Natura possono essere concetti piuttosto simili e spesso essere perfino sovrapponibili. Col mio studio desidero soltanto offrire alcuni spunti su cui riflettere partendo da una domanda fatta per celia all’ora di pranzo dal grande fisico che fu Enrico Fermi e che è matematicamente riassunta nell’Equazione di Francis Drake.
Come ogni buon libro che si rispetti, ho chiesto a Marco Castellani, dell’Osservatorio Astronomico di Roma – INAF, blogger di Gruppo Locale e scrittore, di curare la prefazione del mio lavoro. Ne è sortita una piccola perla che merita di essere gustata per intero, perché anch’essa offre al lettore miriadi stimoli di riflessione.
Non voglio svelare di più per non rovinarvi il gusto della lettura del mio saggio, ma posso dirvi che per me è stato un viaggio meraviglioso e che spero, con l’approvazione di voi lettori, presto di rifare.