Animaletti interplanetari

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La scienza spesso è descritta come incredibilmente noiosa e rigida. Invece  è ben più potente e bella di qualsiasi magia. Questa è la storia di un curioso animaletto.

Se foste invitati a citare l’animale più straordinario che ammirate potreste indicare il leone, noto per la sua regale fama, oppure la tigre per la sua bellezza, o gli squali, i puma, i delfini etc.
A nessuno verrebbe certo in mente di rammentare il tardigrado, uno dei più curiosi e diffusi animali del pianeta. Dimensionalmente il tardigrado è piccolissimo, meno di un millimetro anche se occasionalmente sono stati catalogati animaletti lunghi fino a 1,5 millimetri. A differenza di tante altre forme di vita terrestre, eccezion fatta dei mesozoi, il numero delle cellule di un T. è costante per tutta la sua esistenza; non c’è mitosi, esse crescono semplicemente in dimensione.
Sono stati trovati T. in vetta all’Everest, in Antartide, nel deserto di Atacama e in ogni altro luogo del pianeta. Esso può sopravvivere nel vuoto dello spazio [cite]https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/19663764[/cite], come a massicce dosi di radiazioni dell’ordine di centinaia di sievert (6 sievert uccidono un uomo), a pressioni di 6000 (seimila) atmosfere.
Le bizzarre peculiarità di questo bizzarro animaletto derivano da una classe di proteine, le Intrinsically Disordered Proteins (IDP) [cite]https://phys.org/news/2017-03-tardigrades-unique-protein-desiccation.html[/cite], che bloccano il degrado delle strutture cellulari quando viene a mancare loro l’acqua fissandosi e diventando inerti. In pratica i T. si vetrificano quando l’acqua delle loro cellule viene a mancare o cambia stato 1.

La Stazione Spaziale Internazionale è un enorme laboratorio spaziale. Lì vengono svolti continuamente tantissimi esperimenti che vanno dalla fisica dei raggi cosmici alla medicina, dalla fisica dei plasmi all’agricoltura a gravità zero.
Uno di questi esperimenti riguarda il pulviscolo cosmico e micrometeoriti, che possono essere un pericolo concreto per  le missioni extraveicolari 2.
Questo esperimento dura ormai da diversi anni e consiste in trappole di gel di silicone esposto al vuoto dello spazio capace di trattenere le microparticelle che periodicamente vengono esaminate col microscopio elettronico per studiarne la forma e le dimensioni.

Qui sono riportate le posizioni di Venere e Terra pochi giorni prima che le trappole di gel fossero aperte.
Credit: Il Poliedrico

Nel finire dell’agosto del 2015 in alcune trappole poste sul lato superiore dello scafo della stazione gli scienziati trovarono … alcuni tardigradi inerti! Subito si pensò a una contaminazione delle gelatine, ma trappole dello stesso lotto poste sulla parte inferiore dello scafo (quella rivolta alla Terra) non mostrarono niente di anomalo; alcune di loro erano addirittura intonse come ci si sarebbe aspettato.
Nei mesi successivi alcuni ricercatori giapponesi del Koushiryoku Kenkyuujo sotto la guida del prof. Yumi[1], studiarono i curiosi risultati delle trappole e scoprirono che eventi simili si erano già verificati negli anni precedenti ma che questi erano stati sbrigativamente classificati come campioni contaminati da materiale biologico terrestre.
È stata la curiosa coincidenza con le congiunzioni inferiori di Venere, cioè quando la Terra e Venere sono nel punto più vicino della loro orbita (ogni 584 giorni, ossi un anno e 7 mesi circa) che ha insospettito i ricercatori giapponesi. E puntualmente — come previsto dalle loro ricerche — il 19 marzo di quest’anno le trappole di gel dell’ISS hanno catturato altri tardigradi.
L’ipotesi che la vita potesse annidarsi nella parte superiore dell’atmosfera venusiana non è affatto nuova [cite]http://online.liebertpub.com/doi/abs/10.1089/153110704773600203[/cite]. Mentre sulla superficie del pianeta regnano temperature intorno ai 740 kelvin e pressioni di 92 atmosfere — quelle cioè che si sperimentano sulla Terra oltre i 900 metri di profondità negli oceani,  la sommità dell’atmosfera di Venere, tra i 50 e i 65 chilometri dalla superficie del pianeta, offre condizioni di temperatura e pressione molto simili a quelle della Terra.
Se è evidente come i T. possano sopravvivere tranquillamente al vuoto dello spazio, occorre capire come questi arrivino fino alla Terra. Il meccanismo di trasporto invece lo si spiega benissimo: Il vento solare.
Venere non ha una magnetosfera come la Terra, quindi il vento solare riesce a raggiungere l’atmosfera superiore riscardala e disperderla nello spazio come se fosse la coda di una cometa [cite]http://www.esa.int/Our_Activities/Space_Science/When_a_planet_behaves_like_a_comet[/cite].
La distanza tra Venere e la Terra nel momenti di congiunzione inferiore varia tra i 40 e i 42 milioni di chilometri, cioè appena un centinaio di volte la distanza Terra-Luna circa. Alla velocità media di 300 km/sec., tipica del vento solare, occorre appena un giorno e mezzo per coprire tale distanza.

Questa scoperta risolverebbe anche il dilemma avanzato dal Paradosso del Sole Freddo [cite]http://science.sciencemag.org/content/177/4043/52.long[/cite], che sostiene che il Sole 4 miliardi di anni fa era troppo debole per sostenere una temperatura adatta alla vita sulla Terra, mentre Venere probabilmente aveva oceani e mari più caldi ed adatti allo sviluppo della vita. Successivamente le condizioni alla superficie si sarebbero fatte troppo proibitive e la vita venusiana sarebbe migrata negli strati più alti dell’atmosfera dove da lì potrebbe essere stata poi trasportata sugli altri mondi dal vento solare.
Forse siamo tutti venusiani dopotutto.

Specie interplanetaria

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Wanderers – a short film by Erik Wernquist

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Questo post era nato come aggiornamento di stato su Facebook. Poi però ho pensato che il mio estemporaneo sfogo valesse qualcosa di più. 

L’intera storia è costellata di bivi e di spartiacque da cui non è possibile tornare indietro. No, non sto parlando ora di freccia entropica e direzione univoca della freccia del tempo; parlo di scelte e svolte che condizionano la storia umana.
A volte sono i singoli uomini a scegliere e quasi mai — per nostra fortuna — i politici e i condottieri.
Pensate a Galileo, Copernico, Alessandro Volta, Marie Curie, Guglielmo Marconi e tutti gli altri che non cito non certo per dimenticanza o per far loro torto.
Inventando l’home computer in un garage due ragazzi hanno stravolto il genere umano ben più di quanto abbia saputo fare Alessandro il Grande col suo effimero impero. Oppure pensate a quell’umile garzone di fabbro che verso il 1200 inventò la staffa per le selle usate poi dai cavalieri mongoli di Gengis Khan per conquistare il suo impero.
Visionari, magari presi per sciocchi, che giocavano coi dischi di cartone e le zampette di rana o con cilindri di ghisa e stantuffo. Eppure è così che sono nate le pile elettriche e i motori a combustione interna, da persone quasi dimenticate oggi 1 ma che hanno scritto la storia del genere umano più di tutti i condottieri e duci esistiti.
La storia è fatta dalle persone e dai popoli. Essa è guidata dalle intuizioni e forgiata dalle svolte sociali. E ora ne abbiamo di fronte uno, altrettanto importante di quello che spinse quattrocentomila anni fa alcuni nostri antenati a lasciare l’Africa: la conquista del cosmo.
No, non si tratta di viaggiare verso le altre stelle, cosa che forse in un futuro lontano forse faremo, ma di esplorare e colonizzare permanentemente il Sistema Solare; diventare finalmente una specie interplanetaria.
Un mondo di 7 miliardi di persone non può permettersi di trascurare questa occasione. La ricchezza e il benessere che da questa opportunità derivano potrà porre fine alle sofferenze di tutto il genere umano al di là di qualsiasi promessa di impero terreno di qualsiasi nuovo duce.
La tecnologia per questo epocale salto c’è già o potrà essere sviluppata entro i prossimi cinquant’anni se solo ci fosse la volontà politica di farlo. E questa voglia occorre alimentarla come un fuoco che cova sopito.
Come coscienza individuale forse non ci sarò più. Ma i miei figli vedranno quasi sicuramente l’umanità diventare finalmente una specie interplanetaria. Questo sogno mi ripaga di ogni sacrificio.

Il principio olografico dei buchi neri – La termodinamica

Può suonare strano a dirsi, ma tutta l’energia che vediamo e che muove l’Universo, dalla rotazione delle galassie ai quasar, dalle stelle alle cellule di tutti gli esseri viventi e perfino quella immagazzinata nelle pile del vostro gadget elettronico preferito è nato col Big Bang. È solo questione di diluizioni, concentrazioni e trasformazioni di energia. Sì, trasformazioni; l’energia può essere trasformata da una forma all’altra con estrema facilità. La scienza che studia tali trasformazioni è la termodinamica. Per trasformarsi l’energia ha bisogno di differenza di potenziale, ossia una maggior concentrazione contrapposta a una minore concentrazione nella stessa forma. L’entropia non è altro che la misura della capacità che ha l’energia di decadere compiendo un lavoro fino a raggiungere di uno stato di equilibrio.

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L’entropia statistica si fonda sulle probabilità delle posizioni delle molecole in uno spazio chiuso. Il II Principio della Termodinamica deriva dal fatto che le configurazioni ad alta entropia sono più probabili di quelle a bassa entropia.
L’esempio dei vasi comunicanti è un classico. Quando fra i due contenitori viene rimosso il tappo (blu), le molecole di un gas (rosse) saranno libere e si distribuiranno uniformemente in entrambi i contenitori compiendo un lavoro (il transito).
Quando la distribuzione sarà uniforme non potrà più esserci lavoro (equilibrio).

Nella termodinamica l’entropia è la misura delle capacità di un sistema fisico in grado di essere sede di trasformazioni spontanee. In altre parole essa indica la perdita di capacità a compiere un lavoro quando tali trasformazioni avvengono. Il valore dell’entropia cresce quando il sistema considerato man mano perde la capacità di compiere lavoro ed è massimo quando tutto il sistema è in condizioni di equilibrio.
La meccanica statistica ha poi reso lo stesso concetto, originariamente legato agli stati di non equilibrio di un sistema fisico chiuso, ancora più generale, associandolo anche alle probabilità degli stati — microstati 1 — in cui può trovarsi lo stesso sistema; da qui in poi si parla di grado di disordine di un sistema quale misura di indeterminazione, degrado o disordine di questo. Il classico esempio dei vasi comunicanti aiuta senz’altro a capire questo poi banale concetto. Ne potete vedere un esempio illustrato qui accanto.
Il legame fra l’entropia statistica e la teoria dell’informazione lo si deve a  Claude Shannon (il padre del termine bit e dell’uso della matematica binaria nei calcolatori) intorno agli anni quaranta del ‘900. Shannon notò che non c’era differenza tra il calcolo del livello di imprevedibilità di una sorgente di informazione e il calcolo dell’entropia di un sistema termodinamico.
Per esempio, una sequenza come ‘sssss‘ possiede uno stato altamente ordinato, di bassa entropia termodinamica. Una sequenza come ‘sasso‘ ha un grado di complessità superiore e e trasporta più informazioni ma ha anche un po’ di entropia in più, mentre ‘slurp‘ dimostra un ancora più alto grado di complessità, di informazione e di entropia perché contiene tutte lettere diseguali; noi le diamo un significato, è vero, ma se dovessimo basarci solo sulla frequenza con cui appaiono le singole lettere in una parola composta da cinque di esse, questa possiede la stessa entropia di “srplu“, che per noi non ha senso e diremmo che essa è una parola disordinata o degradata.
Nell’informazione l’entropia definisce la quantità minima delle componenti fondamentali (bit) necessarie a descriverla, esattamente come i gradi di libertà descrivono lo stato di un sistema fisico. In altre parole essa indica la misura del grado di complessità di una informazione: una singola nota, un suono monotonale, possiede pochissima informazione, mentre la IX Sinfonia di Beethoven ne contiene molta di più. Però attenzione: il suono ricavato da mille radioline sintonizzate ognuna su una diversa stazione è sostanzialmente inintelligibile ma nel suo complesso contiene molta più informazione di quanta ne abbia mai scritta il celebre compositore in tutta la sua vita. Per poter ascoltare la IX Sinfonia trasmessa da una sola radio dovremmo spegnere tutti gli altri ricevitori o alzare il volume di quella radiolina fino a sovrastare il rumore proveniente dalle altre, ossia compiere un lavoro o iniettare energia dall’esterno.

La termodinamica dei buchi neri


Le tre leggi della termodinamica dei buchi neri

Come per la termodinamica classica anche quella dei buchi neri ha le sue leggi non meno importanti. L’analogia tra i due insiemi di assiomi indica anche la strada da seguire per comprendere il bizzarro fenomeno.
Legge zero della  termodinamica dei buchi neri
Per  un buco nero stazionario la gravità all’orizzonte degli eventi è costante.
Questo sembra un concetto banale ma non lo è. Per qualsiasi corpo in rotazione su un asse anche se di forma perfettamente sferica la gravità non è costante alla sua superficie: ce ne sarà un po’ di più ai poli e un po’ meno al suo equatore. Questo principio ricorda che l’orizzonte degli eventi invece è un limite matematico dettato esclusivamente dall’equilibrio tra la gravità e la velocità della luce.
Prima legge della  termodinamica dei buchi neri
Nei buchi neri stazionari ogni variazione o apporto di energia comporta una modifica della sua area: dM=κ8πdAOE+ΩdJ+ΦdQ
I buchi neri sono descritti da solo tre parametri: la massa M , la carica elettrica Q e momento angolare J . Come nell’esempio nell’articolo è quindi possibile calcolare quanto varia l’area di un buco nero in cui una quantità di materia/energia diversa da zero cade oltre l’orizzonte degli eventi.
Tralasciando le note costanti naturali G e c, κ indica la gravità superficiale all’orizzonte degli eventi, AOE l’area di questo, mentre Ω la velocità angolare, J il momento angolare, Φ il potenziale elettrostatico, Q la carica elettrica sono propri del buco nero all’orizzonte degli eventi.
Questo complesso schema matematico è molto simile alla descrizione del Primo Principio Termodinamico dove si scopre che il differenziale energetico E è correlato alla temperatura T, all’entropia S e alla capacità di svolgere un lavoro W in un sistema chiuso: dE=TdS+dW
Seconda legge della  termodinamica dei buchi neri
La somma dell’entropia ordinaria esterna al buco nero con l’entropia totale di un buco nero aumenta nel tempo come conseguenza delle trasformazioni generiche di questo: ΔSo+ΔSBN0
Il Secondo Principio Termodinamico richiede che l’entropia di un sistema chiuso debba sempre aumentare come conseguenza di trasformazioni generiche. Se un sistema ordinario cade in un buco nero, la sua’entropia So diventa invisibile ad un osservatore esterno ma con questa interpretazione si esige che l’aumento dell’entropia del buco nero SBN compensi la scomparsa di entropia ordinaria dal resto dell’universo. Con la scoperta della radiazione di Hawking è anche evidente il decremento della massa di un buco nero che essa comporta. Di conseguenza ci si dovrebbe aspettare che anche l’entropia connessa alla sua area diminuisca. Con questa interpretazione (Bekenstein, 1973) si tiene conto anche del fenomeno di evaporazione.
Terza legge della  termodinamica dei buchi neri
È impossibile annullare la gravità dell’orizzonte degli eventi con qualsiasi processo fisico.
Il Terzo Principio Termodinamico afferma che è fisicamente impossibile raggiungere una temperatura nulla tramite qualsiasi processo fisico.
Applicato ai buchi neri questa legge mostra come sia impossibile raggiungere una gravità nulla all’orizzonte degli eventi di un buco nero. In linea di principio aumentando la carica elettrica di un buco nero, sarebbe possibile cancellare l’orizzonte degli eventi e mostrare così finalmente la singolarità nuda. Tuttavia, l’energia che dovremmo iniettare nel buco nero sotto forma di particelle cariche sarebbe sempre più grande tanto più ci si avvicinasse al risultato senza mai poterlo raggiungere.

Un buco nero è causato dal collasso della materia o, per l’equivalenza tra materia ed energia, dalla radiazione, entrambi i quali possiedono un certo grado di entropia. Tuttavia, l’interno del buco nero e il suo contenuto non sono visibili ad un osservatore esterno. Questo significa che non è possibile misurare l’entropia dell’interno del buco nero.
Nell’articolo precedente [cite]https://ilpoliedrico.com/2017/03/il-principio-olografico-dei-buchi-neri-lorizzonte-degli-eventi.html[/cite] ho detto che un buco nero stazionario è parametrizzato unicamente dalla sua massa, carica elettrica e momento angolare. Secondo il No Hair Theorem tutto ciò che scompare oltre l’orizzonte degli eventi viene totalmente sottratto all’universo. Quello che potremmo percepire di un buco nero sono la sua massa, carica elettrica e momento angolare; pertanto le medesime proprietà possedute da un oggetto inghiottito da un buco nero verrebbero a sommarsi con le precedenti, contribuendo così alla loro espressione complessiva. In soldoni — trascurando per un attimo la sua carica elettrica e il momento angolare — un oggetto di massa m andrebbe a sommarsi a MBN del buco nero, cosi che MBN finirebbe per essere m+MBN facendo crescere anche la dimensione dell’orizzonte degli eventi.
Ma secondo questa interpretazione, null’altro rimarrebbe dell’oggetto finito oltre l’orizzonte degli eventi, la sua entropia andrebbe perduta per sempre. Questa interpretazione — come fece notare per primo Bekenstein — cozza però col Secondo Principio della Termodinamica che afferma che il grado di disordine – entropia – di un sistema chiuso — l’Universo è un sistema chiuso — può solo aumentare. Quindi qualsiasi cosa, materia o energia, che finisse oltre l’orizzonte degli eventi di un buco nero finirebbe per sottrarre entropia all’universo, e questo è inaccettabile.
L’unico modo per non contraddire questa legge fondamentale 2 è assumere che anche i buchi neri abbiano un’entropia.
Questa come si è visto dipende dalla massa/energia che cade in un buco nero e che va a sommarsi alla precedente, e, visto che per l’interpretazione classica niente può uscire da un buco nero, non può che aumentare col tempo. Ma anche le altre due proprietà, carica elettrica e momento angolare, contribuiscono nella loro misura a descrivere compiutamente un buco nero. Per ogni combinazione di questi tre parametri si possono perciò teorizzare altrettanti stati diversi riguardo ad esso; quello che ne esce è un concetto molto simile all’entropia legata ai possibili microstati della termodinamica statistica. L’entropia, ossia l’informazione di questi microstati, è pertanto distribuita sull’unica parte accessibile all’universo, la superficie dell’area dell’orizzonte degli eventi.
In natura la più piccola unità dimensionale di superficie è l’Area di Planck, quindi è naturale esprimere l’entropia di un buco nero in questa scala. Per descrivere matematicamente l’entropia S 3  di un buco nero di Schwarzschild partendo dall’area dell’orizzonte degli eventi AOE, allora dovremmo scrivere Sbuconero=AOE4L2P=c3AOE4G dove LP è la lunghezza di Plank, G è la Costante di Gravitazione Universale, la costante di Plank ridotta e c ovviamente la velocità della luce, sapendo che la suddetta area è condizionata unicamente dalla massa del buco nero AOE=16πG2M2BNc4.
Facciamo ad esempio l’ipotesi, che poi servirà in futuro per illustrare il Principio Olografico e che si rifà anche direttamente alla Prima Legge della Termodinamica dei Buchi Neri (vedi box qui accanto), di un fotone avente una lunghezza d’onda λ — la lunghezza d’onda di un fotone è inversamente proporzionale alla sua energia — che cade in un buco nero di massa MBN e di conseguenza di raggio rS da una direzione indeterminata.
Avvicinandosi all’orizzonte degli eventi suddetto fotone finirà per decadere fino ad avere una lunghezza d’onda paragonabile alla dimensione del raggio di Schwartzschild: λπrS.
L’energia rilasciata dal fotone nel buco nero quindi è dE=hcλ=2πcrS
Per l’equivalenza tra massa ed energia — la stranota e=mc2 della Relatività Generale — la massa del buco nero finisce per cresceredMBN=dEc2=2πcrS
Di conseguenza un aumento della massa, per quanto piccola, del buco nero finisce per far aumentare anche le dimensioni dello stesso nella misura drS=2Gc2dMBN=4πGc3rS
e anche l’area: dAOE=4πdr2S=8πrSdrS=32π2Gc3

Anche se questo genere molto semplificato di buchi neri è solo teorico, permette però di esplorare la complessità del problema e di farsi un’idea delle dimensioni dell’entropia di un buco nero 4.

Il principio olografico dei buchi neri – L’orizzonte degli eventi

Prima di scrivere questo pezzo ho fatto una scorsa dei risultati che restituiscono i motori di ricerca sul Principio Olografico, giusto per curiosità. Ne è uscito un quadro desolante; da chi suggerisce che siamo tutti ologrammi alla medicina quantistica (roba di ciarlatani creata per i beoti). Ben pochi hanno descritto il modello e ancora meno (forse un paio sparsi nella profondità suggerita dal ranking SEO) hanno scritto che si tratta solo di un modello descrittivo. Cercherò ora di aggiungere il mio sussurro al loro, giusto per farli sentire un po’ meno soli.

Essenzialmente il mezzo più immediato e naturale che usiamo per descrivere il mondo che circonda è dato dalla vista. Essa però restituisce unicamente un’immagine bidimensionale della realtà, esattamente come fanno anche una fotografia o un quadro. Ci viene in soccorso la percezione della profondità spaziale, dove la terza dimensione emerge grazie all’effetto prospettico che fa apparire più piccole e distorte le immagini sullo sfondo rispetto a quelle in primo piano. L’unico mezzo veramente efficace che abbiamo per cercare di rappresentare correttamente la realtà è la matematica, anche se essa appare spesso controintuitiva.

Ripetendo in parte ciò che ho detto in altre occasioni, l’Uomo ha sempre cercato di dare una spiegazione convincente a tutto quello che lo circonda, che per brevità di termine chiamiamo realtà. Ad esempio, la scoperta delle stagioni, il costante ripetersi ogni anno delle diverse levate eliache e i cicli lunari sono culminati nell’invenzione del calendario, che nelle sue varie interpretazioni e definizioni, ha sempre accompagnato l’umanità. Eppure esso in astratto non è che un modello, grossolano quanto si vuole, ma che consente di prevedere quando sarà la prossima luna nuova o l’astro Sirio allo zenit a mezzanotte.
Anticamente anche le religioni erano modelli più o meno astratti che avevano il compito di spiegare ad esempio, i fulmini, le esondazioni, le maree, il giorno e la notte, etc.
Oggi sappiamo che i fulmini sono una scarica elettrica, che il giorno e la notte sono la conseguenza della rotazione terrestre e che le esondazioni avvengono perché da qualche altra parte piove.
Abbiamo teorizzato per secoli una cosmologia geocentrica e solo più tardi quella eliocentrica, quando abbiamo capito che la prima era sbagliata. Abbiamo accarezzato per un breve periodo l’idea galattocentrica prima di apprendere che le galassie erano più di una e il Sole era solo una comune stellina grossomodo a metà strada fra il centro e la periferia della Via Lattea, e abbiamo anche creduto ad un universo statico prima di scoprire che l’Universo si espandeva in dimensioni.
Anche tutti questi erano modelli e modelli pensati su altri modelli dati per sicuri finché non venivano dimostrati sbagliati. E questo vale anche per i modelli attuali e le teorie fino ad oggi considerate certe.

L’orizzonte degli eventi.

raggioSchwarzschild=(2GMc2)
Il raggio dell’orizzonte degli eventi di un buco nero è restituito da questa formula matematica che stabilisce l’equilibrio tra gravità e velocità della luce.  Esso esiste solo teoricamente perché si suppone che l’oggetto che ha dato origine al buco nero abbia avuto con sé un certo momento angolare che poi si è conservato.
Infatti, per descrivere matematicamente un buco nero reale si usa una metrica leggermente diversa che tiene conto anche del campo elettromagnetico e del momento angolare: quella di Kerr-Newman.

Già alla fine del 1700 si teorizzava di una stella tanto densa e massiccia da ripiegare la luce con la sua gravità. John Michell e Pierre-Simon de Laplace la chiamavano stella oscura. Ma fu solo dopo il 1915, con la Relatività Generale, che Karl Schwarzschild trovò le equazioni che descrivevano il campo gravitazionale di un oggetto capace di ripiegare la luce su di sé. Così fu evidente che esiste un limite, un orizzonte oltre il quale neppure la luce può sfuggire. Non è un limite solido, tangibile come quello di una stella o di un pianeta come talvolta qualcuno è portato a immaginare, ma è un limite matematico ben preciso definito dall’equilibrio tra la gravità e la velocità della luce, che è una costante fisica assoluta 1.
La relatività insegna che niente è più veloce della luce. Pertanto, basandosi solo su questo assioma, è ragionevole pensare che qualsiasi cosa oltrepassi l’orizzonte degli eventi di un buco nero sia definitivamente persa e scollegata dal resto dell’universo. Questa interpretazione, chiamata teorema dei buchi neri che non hanno capelli o No Hair Theorem, niente, più nessuna informazione potrebbe uscire una volta oltrepassato quel limite. Infatti se descrivessimo matematicamente un buco nero usando la metrica di Kerr-Newman – è una soluzione delle equazioni di Einstein-Maxwell della Relatività Generale che descrive la geometria dello spazio-tempo nei pressi di una massa carica in rotazione – viene fuori che un buco nero può essere descritto unicamente dalla sua massa, il momento angolare e la sua carica elettrica [2].

Cercare di spiegare la complessità dello spazio-tempo in prossimità degli eventi senza ricorrere alla matematica è un compito assai arduo.
L’oggetto che descrive Shwartzschild è solo il contorno osservabile di un buco nero. Ciò che vi finisce oltre scompare all’osservatore esterno in un tempo infinito. Egli vedrebbe che il tempo sul bordo degli eventi si ferma mentre la lunghezza d’onda della luce gli apparirebbe sempre più stirata 2 in rapporto alla sua metrica temporale, man mano che essa proviene da zone ad esso sempre più prossime fino a diventare infinita.
Invece, volendo fare un gedankenexperiment [cite]https://it.wikipedia.org/wiki/Esperimento_mentale[/cite] come avrebbe detto Einstein, per colui che cercasse di oltrepassare l’orizzonte degli eventi – ammesso che sopravviva tanto da raccontarlo – il tempo risulterebbe essere assolutamente normale e tramite misure locali non noterebbe alcuna curvatura infinita dello spaziotempo e finirebbe per oltrepassare l’orizzonte degli eventi in un tempo finito.
Appare controintuitivo ma è così. Se dovessimo assistere come osservatore privilegiato alla formazione di un buco nero dal collasso di una stella [cite]https://ilpoliedrico.com/2017/02/supernova.html[/cite], non vedremmo mai il nocciolo stellare oltrepassare l’orizzonte degli eventi. Noteremmo solo che la luce proveniente da esso diventa sempre più fioca: vedremmo che i raggi gamma più duri emessi dal nocciolo diventare raggi X, poi luce visibile, infrarosso e radio  e poi più nulla; nessuna radiazione, più nessuna informazione proveniente dal nocciolo stellare potrebbe più raggiungerci.
Quello che c’è oltre lo chiamiamo singolarità. Le leggi fisiche a noi note non possono più descrivere cosa succede oltre l’orizzonte degli eventi e tutto ciò che lo oltrepassa non può più comunicare il suo stato all’esterno.

È difficile descrivere ciò che non si può osservare.