Altri tasselli al puzzle della massa barionica mancante.

Il quasar UM 287 illumina la più grande nube di gas mai vista nell'Universo.

Il quasar UM 287 illumina la più grande nube di gas mai vista nell’Universo.
Credit: Nature

Oltre che la genesi e l’evoluzione, l’attuale  Modello Cosmologico Standard riesce ad indicare con discreta precisione anche la composizione dell’Universo 1 [cite]http://www.einstein-online.info/spotlights/BBN[/cite].
Nel 1933 l’astrofisico svizzero Fritz Zwicky, dimostrò una importante discrepanza tra la materia visibile e la massa misurata dell’ammasso di galassie della  Chioma 2.
Quello fu solo il primo dei tanti indizi che indicavano un’importante discrepanza tra le stime teoriche basate su leggi matematiche consistenti e i dati osservati.
Purtroppo almeno la metà della materia barionica prevista teoricamente finora è apparsa sfuggire da ogni tecnica di rilevazione diretta 3 4.

Tempo fa illustrai in queste stesse pagine [cite]http://ilpoliedrico.com/2012/09/la-materia-oscura-forse-solo-una-bolla.html[/cite] che enormi bolle di gas caldo (attorno a 1 – 2 milioni di kelvin) circondano le galassie. La massa complessiva di queste bolle è paragonabile a quello attualmente stimato per le galassie al loro centro.
Adesso altri recenti studi [cite]http://pa.as.uky.edu/circumgalactic-medium-and-galaxy-missing-baryon-problem[/cite] hanno rivelato che gli aloni galattici contengono anche una forma di gas molto più freddo (10.000° kelvin).
Gas così freddi non sono direttamente visibili ai telescopi 5 ma  alcuni aloni di questi aloni è stato possibile individuarli grazie all’impronta lasciata sulla luce di lontani quasar che li attraversano.

Il 7 gennaio scorso all’American Astronomical Society è stato presentato uno studio svolto sulla luce proveniente da diversi quasar posti accanto ad altre galassie in primo piano ripresi dal Telescopio Spaziale Hubble. Gli spettri di alcuni di questi oggetti hanno mostrato la presenza di significative quantità di carbonio, silicio e magnesio insieme alla presenza rivelatrice di tracce di idrogeno neutro (H I). Secondo i ricercatori, questo indica la presenza di aloni di gas relativamente freddo che circondano le galassie osservate attraverso la luce dei quasar. Aloni di materiale circumgalattico  freddo che possono contenere importanti quantità (dalle 10 alle 100 volte superiori di quanto finora stimato) di materia ancora nascosta e non conteggiata nelle stime della massa barionica mancante. Il team che ha realizzato questo studio è guidato da  Jessica Werk, astrofisica, dell’Università della California.

Questa sezione grande 10 milioni di anni luce simulazione del primordiale mostra come la materia si fonde in galassie collegate da filamenti di gas rarefatto. Credit: Nature

Una simulazione  del gas primordiale grande 10 milioni di anni luce  mostra come la materia riesce a fondersi in galassie collegate da filamenti di gas rarefatto.
Credit: Nature

All’incirca stessa tecnica è stata usata per osservare la più grande nube di gas conosciuta nell’Universo [cite]2014.14550[/cite]. Questa nebulosa pare essere uno dei filamenti di materia a grande scala del cosmo. Potrebbe essere la prima immagine diretta della ragnatela cosmica che pervade tutto l’Universo.
Gli autori di quest’altra scoperta sono gli astronomi Sebastiano Cantalupo e Xavier Prochaska anche loro dell’Università della California, Santa Cruz, che hanno usato il Keck Observatory, posto sulla cima del vulcano Mauna Kea alle Hawaii. Le immagini mostrano una nube di gas grande 460.000 parsec (1,5 milioni di anni luce) di lunghezza.
Sempre per il Modello Cosmologico Standard, prima della formazione delle galassie, L’Universo conteneva gas primordiale frutto della bariogenesi che disaccoppiò la materia dall’energia e che vide questa prevalere sull’antimateria e materia oscura. La materia oscura, predominante sulla materia barionica ordinaria, si addensò poi in estesi aloni gravitazionali in cui la materia ordinaria sarebbe poi finita per creare le galassie.
Ma come mostrano anche le simulazioni, non tutta la materia, sia la barionica che quella oscura, è finita per creare le galassie. Anzi, molta di questa avrebbe finito per creare la ragnatela tridimensionale che pervade il cosmo che collega tutte le galassie.
In effetti i ricercatori hanno trovato prove dell’esistenza di questi filamenti chiamati WHIM (Warm-Hot Intergalactic Medium), ovvero mezzo intergalattico caldo [cite]http://ilpoliedrico.com/2013/05/il-mistero-dei-barioni-mancanti.html[/cite].

Tutte queste nuove forme di materia -barionica – finora inosservate possono essere la risposta al dilemma della massa barionica mancante? forse è presto per dirlo ma credo di sì. Questa sarebbe un’altra prova della bontà del Modello Cosmologico Standard.


 

Note:

Gemini Planet Imager: alla ricerca di nuovi pianeti

light scattered by a disk of dust orbiting the young star HR4796A

L’immagine della “prima luce” del Gemini Planet Imager (GPI) della luce scatterata da un disco di polvere che orbita attorno alla giovane stella HR4796A. Si fa l’ipotesi che l’anello piu’ piccolo ed interno sia formato di polvere di origine asteroidale e cometaria durante la formazione planetaria, quelli che vengono definiti planetesimi. Alcuni scienziati hanno anche ipotizzato che il bordo ben definito dell’anerllo sia dato dalla presenza di un pianeta (ancora non individuato). L’immagine di sinistra (1,9-2,1 micron) mostra la luce nel visibile tra cui entrambi gli anelli di polvere e la luce residua dalla stella centrale scatterata dalla turbolenza dell’atmosfera terrestre. L’immagine di destra mostra solo la luce polarizzata. La luce dal bordo posteriore del disco e’ fortemente polarizzata in quando viene scatterata verso di noi. Immagine in grandi dimensioni disponibile qui . Crediti: Processing by Marshall Perrin, Space Telescope Science Institute.

 

 

Dopo quasi un decennio di sviluppo, costruzione e di collaudi lo strumento piu’ sofisticato al mondo per il direct imaging (immagine diretta) e per lo studio di pianeti extrasolari attorno ad altre stelle viene puntato verso il cielo per raccogliere e studiare la luce di questi mondi lontani.

Lo strumento, denominato Gemini Planet Imager (GPI) e’ stato progettato, costruito e ottimizzato per l’imaging di pianeti deboli attorno a stelle molto brillanti e per analizzarne le loro atmosfere. Sara’ pure un ottimo strumento per studiare i dischi di formazione planetaria ricchi di polvere intorno a giovani stelle. E’ lo strumento piu’ avanzato del suo genere che viene montato su uno dei telescopi piu’ grandi al mondo, il Gemini South Telescope di 8 metri, in Cile.

“Le immagini della prima luce del telescopio sono almeno un fattore 10 migliori di quelle degli strumenti di generazione precedente. In un minuto osserviamo pianeti per i quali di solito ci si impiega un’ora per la loro rivelazione” ha affermato Bruce Macintosh del lawrence Kivermore National Laboratory che ha guidato il team dei costruttori dello strumento.

GPI rivela la radiazione infrarossa dai giovani pianeti di tipo gioviano che orbitano a grande distanza dalla stella madre (e quindi hanno orbite piuttosto ampie), quelli che possono essere confrontati con i pianeti giganti gassosi nel nostro Sistema Solare non molto tempo dopo la loro formazione. Ogni pianeta che GPI osserva puo’ venir studiato in grande dettaglio.

“La maggior parte dei pianeti che oggi conosciamo sono noti grazie ai metodi indiretti che ci permettono di dire se c’e’ o meno un pianeta, ci permettono di dire qualcosa sulla sua orbita e sulla massa, ma non molto di piu'” ha affermato Macintosh. “Con GPI fotografiamo direttamente i pianeti attorno alle loro stelle – e’ un po’ come essere in grado di sezionare il sistema e di scavare dentro alle caratteristiche dell’atmosfera del pianeta”.

GPI ha compiuto le sue prime osservazioni lo scorso novembre, durante un debutto senza problemi. Si tratta di uno straordinario e complesso strumento astronomico delle dimensioni di una piccola automobile. “Questa e’ stata una delle run di prima luce piu’ lisce che abbia mai visto” ha affermato Stephen Goodsell, che gestisce il progetto per l’osservatorio.

Per le prime osservazioni di GPI il team di ricercatori ha preso come target dei sistemi planetari ben noti, tra cui il sistema di Beta Pictoris. GPI ha ottenuto il primo spettro del giovane pianeta, Beta Pictoris b. Allo stesso e’ stato utilizzato il modo di polarizzazione dello strumento, che permette di rilevare la luce della stella scatterata da particelle sottile, per studiare l’anello debole di polvere che orbita attorno alla giovane stella HR4796A. Con la strumentazione precedente era stato possibile osservare solo i bordi di questo anelli di polvere, che potrebbero essere i detriti che rimangono dalla formazione planetaria, con con questo numero strumento si puo’ osservare l’intera circonferenza dell’anello.

Anche se GPI e’ stato progettato per l’osservazione di pianeti lontani, e’ possibile utilizzarlo per osservare oggetti nel nostro Sistema Solare, e quindi molto vicini.

Europa_Gemini Planet Imager

Confronto di Europa osservato con il Gemini Planet Imager nella banda K1 a destra e immagine composita ottenuta dalla Galileo SSI e Voyager 1 e 2 (USGS), sulla sinistra. Sebbene GPI non sia stato progettato per oggetti estesi come un satellite, le sue osservazioni potrebbero aiutare nel trovare delle alterazioni superficiali dei satelliti gioviani ghiacciati oppure fenomeni atmosferici (come la formazione di nubi) sulla luna di Saturno, Titano. L’immagine nel vicino infrarosso a colori di GPI e’ una combinazione di tre differenti lunghezze d’onda. Crediti: Processing by Marshall Perrin, Space Telescope Science Institute and Franck Marchis SETI Institute.

Le immagini test della luna Europa di Giove, per esempio, possono permettere di mappare i cambiamenti della composizione superficiale del satellite. Le immagini qui sotto sono state presentate per la prima volta durante il 22esimo Meeting dell’American Astronomical Society a Washington DC.

“Osservare un pianeta vicino ad una stella in appena un minuto e’ sicuramente da brivido e l’abbiamo visto dopo una sola settimana che lo strumento e’ stato posizionato sul telescopio” ha affermato Fredrik Rantakyro, scienziato che fa parte dello staff di Gemini e che lavora sullo strumento. “Immaginate cosa sara’ in grado di fare questo strumento una volta che avremo completato e ottimizzato le sue prestazioni”.

“I pianeti extrrasolari sono estremamente deboli e difficili da rilevare accanto ad una stella luminosa” ha notato il Professor James R. Graham, Chied Scientist Professor dell’Universit’ della California che ha lavorato con Macintosh sin dall’inizio del progetto. GPI puo’ vedere i pianeti che hanno una luminosita’  un milione di volte piu’ debole di quella della loro stella. Spesso si descrive questo fenomeno come l’osservare una lucciola volteggiare attorno ad un lampione a migliaia di chilometri di distanza dall’osservatore. Gli strumenti utilizzati per individuare gli esopianeti devono essere progettati e costruiti con estrema precisione. GPI rappresenta un risultato tecnico estremamente incredibile per il team internazionale di ricercatori che hanno ideato, progettato e costruito lo strumento. Notevoli sono anche le capacita’ del telescopio Gemini.

Dopo anni di sviluppo e di test di simulazione e’ sicuramente uno dei traguardi piu’ ambiziosi nello studio della ricerca di esopianeti. Quest’anno il team di GPI iniziera’ una survey a grande campo considerando ben 600 stelle giovani alla ricerca di quanti pianeti giganti orbitano attorno ad esse. GPI verra’ utilizzato anche per altri progetti all’interno della comunita’ Gemini, progetti che vanno dalla formazione di dischi planetari all’emissione di polvere da stelle massicce nelle loro fasi finali evolutive.

GPI scruta il cielo attraverso l’atmosfera terrrestre e quindi attraverso la turbolenza atmosferica del nostro pianeta, ma grazie all’ottica adattiva avanzata lo strumento sara’ in grado di vedere pianeti delle dimensioni di Giove. Una simile tecnologia sta per essere proposta anche per i futuri telescopi spaziali.

Fonte Gemini Telescope – World’s most powerful exoplanet camera turns its eye to the sky

Sabrina

Le prime luci di Gaia

Il punto lagrangiano L2, dove orbita l'osservatorio spaziale Gaia. Credit: Wikipedia

Il punto lagrangiano L2, dove orbita l’osservatorio spaziale Gaia.
Credit: Wikipedia

Il 19 dicembre 2013 un vettore Soyuz ST-B/Fregat-MT 1 partito dallo spazioporto di Kourou (Guiana Francese), ha lanciato nello spazio Gaia 2, l’erede della fortunata missione Hipparcos (1989 – 1993).
Il 7 gennaio scorso il satellite Gaia ha finalmente raggiunto il punto lagrangiano L2, del sistema Terra-Sole, un’ottima, anche se affollata 3, finestra verso lo spazio. Il punto lagrangiano L2 è stato scelto per la sua  stabilità ‘orbitale 4 e perché offre una schermatura quasi totale alla radiazione solare grazie al cono d’ombra della Terra 5.

La prima luce di Gaia. α Aquarii. Credit: ESA/Gaia

La prima luce di Gaia. α Aquarii.
Credit: ESA/Gaia

Il 15 gennaio Gaia ha trasmesso la sua prima immagine pubblica: Il bersaglio scelto era Sadalmelik, una supergigante gialla distante 161 parsec (525 anni luce) conosciuta anche come α Aquarii.
L’immagine non era ancora perfettamente a fuoco, e anche tutti gli altri strumenti hanno bisogno di essere calibrati prima di diventare pienamente operativi. Ma già il 9 gennaio, quindi poco dopo aver raggiunto la sua orbita operativa, aveva dato un piccolo assaggio delle sue capacità mostrando di riuscire a vedere ben 17000 stelle in sole tre ore. Gaia sta dimostrando di essere un ottimo osservatorio.

Gaia si propone di compilare un catalogo tridimensionale dello spazio di circa un miliardo di oggetti astronomici della Via Lattea cercando anche di evidenziare così anche il loro moto. Si spera a questo modo di comprendere meglio la struttura della nostra galassia e la sua evoluzione futura.
Le misure spettrofotometriche di Gaia forniranno le proprietà fisiche dettagliate di ogni stella osservata 6, la loro luminosità assoluta 7, la temperatura effettiva , la gravità e  la composizione.

Come Hipparcos prima di lei, Gaia rivoluzionerà le nostre conoscenze del nostro angolo di cosmo. Studierà anche altre galassie e quasar, scoprirà un sacco di altri sistemi planetari extrasolari e darà la possibilità di confermare gli altri già identificati dagli osservatori a terra. Sarà un vero coltellino svizzero, anzi europeo, del cosmo nelle mani degli scienziati.


Note: