Il meccanismo di formazione delle code cometarie

I meccanismi di formazione delle code cometarie sono assai complessi. Infatti questi si intrecciano e si influenzano vicendevolmente producendo all’apparenza effetti contrastanti e privi di “buon senso”.

Coda di sodio (nella parte sinistra) e coda di polvere nella cometa Hale Bopp. Gabriele Cremonese, Osservatorio Astronomico di Padova.

Coda di sodio (nella parte sinistra) e coda di polvere nella cometa Hale Bopp. Gabriele Cremonese, Osservatorio Astronomico di Padova.

Il meccanismo principale nella produzione di una coda cometaria consiste nell’interazione tra i fotoni emessi dal Sole e le particelle rilasciate dal nucleo di una cometa. I fotoni esercitano sulle particelle una piccolissima pressione, detta pressione di radiazione, dovuta al trasferimento di parte dell’energia, in particolare del momento, veicolato dai fotoni alle particelle cometarie. L’efficienza di questo processo fisico diminuisce col quadrato della distanza dal Sole.
Questa pressione (stimata in 5 milionesimi di Pascal ad una distanza di 1 U.A.) influenza maggiormente le particelle di piccola massa rispetto a quelle di grande massa. Ciò fa si che le particelle più grandi, risentendo meno dell’effetto di Poynting-Robertson, vengano meno respinte, restando prossime al nucleo, a differenza di quelle più piccole che vengono sparate più velocemente nella coda. Queste ultime si allontanano con grande velocità dal nucleo e dall’orbita, disseminandosi in vaste regioni pressoché complanari con l’orbita stessa.

Quando una particella abbandona il nucleo può seguire due traiettorie diverse, entrambe influenzate dal contributo della pressione di radiazione incidente su di essa:
•  sincrone: le traiettorie sincrone si verificano quando le particelle rilasciate nello stesso istante formano curve poco evidenti;
•  sindinamiche: le traiettorie sindinamiche si verificano quando le particelle rilasciate in tempi diversi seguono percorsi molto curvi.

A causa dei molteplici effetti appena esposti possiamo affermare che le comete possiedono numerose “code”, diverse per composizione strutturale, forma e caratteristiche fisiche.

codeSino al 1997 si credeva che questi corpi potevano generare al massimo due code ben distinte, la coda di polvere e la coda di ioni, finché Gabriele Cremonese dell’Osservatorio Astronomico di Padova, analizzando le immagini della cometa Hale-Bopp, scoprì l’esistenza di una terza coda costituita da atomi di sodio neutro. Questa scoperta è stata ulteriormente ampliata da un’altra, avvenuta nel 2006, ad opera del satellite per osservazioni solari STEREO che ha evidenziato nella cometa McNaught la presenza di una debole coda di atomi di ferro neutri.

 Ciò porta il totale delle possibili “code” a quattro: coda di polveri, coda di ioni, coda di sodio e coda di ferro.

Ovviamente non tutte le comete sviluppano necessariamente tutte le code al passaggio al perielio in quanto esse sono strettamente legate alla composizione e alla grandezza del corpo.

Il terribile equivoco del cianogeno

Buffo! Di solito ci attendiamo una corretta informazione dai siti scientifici ma a volte, rare volte, non è così.

La cometa di Halley al suo ultimo passaggio confrontata col suo spettro nel visibile e vicino infrarosso Credit: Uppasala University per lo spettro e NASA/W. Liller per l'immagine. Rielaborazione: Il Poliedrico

La cometa di Halley al suo ultimo passaggio confrontata col suo spettro nel visibile e vicino infrarosso. Credit: Uppasala University per lo spettro e NASA/W. Liller per l’immagine. Rielaborazione: Il Poliedrico

Tutto probabilmente nacque intorno al 1910, durante il penultimo ritorno della Cometa di Halley, quando gli scienziati resero pubblici i loro sospetti derivati da una scienza ancora agli albori, la spettroscopia: secondo i loro dati la coda della cometa conteneva elementi tossici come l’arsenico (As) e gas cianogeni  1. Ovviamente questo non avrebbe comportato alcun  problema per i terrestri, grazie alla protezione svolta dall’atmosfera e all’esigua densità della coda della cometa 2. Ma intanto alcuni venditori senza scrupoli approfittarono della notizia per vendere – e arricchirsi – inutili maschere antigas 3.

Durante il suo ultimo passaggio, nel 1986, la Halley si mostrò come nella prima immagine: aveva un colore abbastanza neutro che virava leggermente verso il violetto nella chioma di polveri e una coda di gas di un blu discreto.

Credit: ESO

Credit: ESO

Osservando lo spettro nella zona ultravioletta e violetta tra i 332 e i 432 nm si notano alcune righe di emissione:  all’estremo dello spettro visibile  4 e un’altra poco più giù attorno ai 420 nm. Altre righe importanti sono quelle prodotte dal radicale ossidrile (OH), il monossido di carbonio (CO) e il carbonio triatomico (C3).

E infatti la coda di gas ionizzato blu pallido lo conferma: i suoi colori sono quelli dei gas appena citati: cianogeno, radicale ossidrile, monossido di carbonio e carbonio triatomico.

La cometa Lemmon.confrontata col suo spettro. Credit: RobK di Bright, Vic, Australia per lo spettro e anonimo per l’immagine. Rielaborazione: Il Poliedrico

La cometa Lemmon.confrontata col suo spettro.
Credit: RobK di Bright, Vic, Australia per lo spettro e anonimo per l’immagine.
Rielaborazione: Il Poliedrico

Adesso torniamo ai giorni d’oggi e alla stupenda – per chi è riuscito a vederla – C/2012 F6 (LEMMON) dello scorso marzo.
Dallo spettro di questa cometa è evidente che del radicale cianogeno non ce n’è traccia, né a 380 nm, né ai 420 nm. Piuttosto qui il verde brillante della chioma è dato dalle intense righe del carbonio biatomico (C2).
Lo stesso errore viene ancora oggi commesso riguardo la C/2012 S1 (ISON) che – nel momento in cui scrivo – emette molto poco a 380 nm, mentre le righe del carbonio biatomico a 440 e a 520 nm sono più pronunciate, come evidenzia il primo spettro:


Lo spettro di C/2012 S1 (ISON) l'11/10/2013

Lo spettro di C/2012 S1 (ISON) l’11/10/2013 Credit:  astrosurf.com

Lo spettro di C/2012 S1 (ISON) il 24/10/2013

Lo spettro di C/2012 S1 (ISON) il 24/10/2013  Credit: astrosurf.com

Credit: Wikipedia

Nel secondo spettro anche se la riga del radicale cianogeno appare molto più pronunciata del primo, il contributo di questa emissione al colore complessivo della cometa non appare evidente, come si può facilmente notare dalle innumerevoli immagini in Rete della cometa in quei momenti. Questo perché il picco di sensibilità dell’occhio umano raggiunge il massimo proprio tra i 500 e i 600 nm, giusto dove anche l’emissione del carbonio biatomico è più elevata.
Invece, tornando alla Halley del 1986, le emissioni del carbonio biatomico ionizzato erano trascurabili, tanto da far risaltare la scia azzurrognola e violetta delle emissioni di CN.
Eppure Spaceweather.comAPOD della NASA e via di seguito molti altri siti che si occupano di astronomia fanno, e hanno fatto tutti lo stesso errore; attribuire indistintamente l’aspetto verdastro di una cometa al cianogeno. Su questo tema il dibattito su alcuni forum astrofili oltreoceano è acceso, tant’è che anche un astronomo e divulgatore scientifico come Phil Plait ha riconosciuto l’equivoco 5.

Colore
Lunghezza d’onda
Violetto 380–435 nm
Blu 435–500 nm
Ciano 500-520 nm
Verde 520–565 nm
Giallo 565–590 nm
Arancione 590–625 nm
Rosso 625–740 nm

Probabilmente la spiegazione a questa errata interpretazione è molto più banale di quanto si pensi:  una riga di emissione (spesso la più intensa) del carbonio biatomico è fra i 510 e i 520 nm, proprio nel mezzo della fascia di colore che comunemente attribuiamo al colore ciano!
Molto probabilmente a partire dai tempi della scoperta dei composti cianogeni nella coda della Cometa di Halley, qualcuno in passato ha erroneamente associato il termine cianogeno col colore ciano e l’errore poi si è tramandato nel tempo e nessuno l’ha poi più corretto.

Quindi, anche se pare diventata affermazione comune associare il verde brillante della chioma di una cometa con i radicali cianogeni, questi non ne hanno alcuna responsabilità, la colpa è tutta del carbonio biatomico emesso dalla cometa che si ricombina attorno ai 520 nm.
Spargete la voce.


Bibliografia:

 

  1. Ji Hye Lee, Tae Yeon Kang, Hyonseok Hwang, Chan Ho Kwon, Hong Lae Kim, “Photodissociation Dynamics of Cyanamide at 193 nm: The CN Radical Production Channel”, Bulletin Of The Korean Chemical Society 29, 1685-1688 (2008).[08LeKaHw.CN
  2. David G. Schleicher, “THE FLUORESCENCE EFFICIENCIES OF THE CN VIOLET BANDS IN COMETS”, Astronomical Journal140, 973-984 (2010). [link to article][10Scxxxx.CN]
  3. M. Kleine, S. Wyckoff, P. A. Wehinger, B. A. Peterson, “THE COMETARY FLUORESCENCE-SPECTRUM OF CYANOGEN – A MODEL”, Astrophysical Journal 436, 885-906 (1994). [link to article][94KlWyWe.CN]
  4. Atlas of cometary spectra, Institut d’Astrophysique et de Géophysique de l’Université de Liège, Allée du 6 Août, 17 – Bât B5cB-4000 Liège 1, BELGIQUE E-Mail : hyperion@astro.ulg.ac.be

 

Lo stato di C/2012 S1 (ISON)

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Tra 22 giorni la storia della Ison sarà scritta. In questo momento C/2012 S1 (ISON) ha da poco intersecato l’orbita terrestre (1 U.A. dal Sole) alla velocità di oltre 44 km/s.
Mentre la risposta alla domanda se la Ison sopravviverà o meno al suo passaggio al perielio è al di là dal venire, quello che ormai è quasi più che probabile e che essa non sarà comunque la cometa del secolo come ci si aspettava in un primo momento (dopotutto al secolo mancano ancora 87 anni): a meno di outburst improvvisi da qui a dopo il perielio, quasi certamente la cometa non offrirà lo spettacolo che fino a qualche tempo fa ci si aspettava.

La curva di luce prevista in base alle più recenti stime della luminosità indicano che la celebre cometa raggiungerà al perielio una magnitudine compresa tra -5 e -3, quindi ben lontana dalle stime previste in base ai dati di qualche mese fa.
Nonostante i notevoli strumenti matematici che ci consentono di carpire molti segreti della cometa come l’$Af\rho$, è comunque assai arduo predire la massima luminosità di una cometa, come ci sta mostrando l’improvviso e inaspettato outburst della C/2012 X1 Linear.
Per ora comunque l’indice $Af\rho$ si sta mostrando superiore a quello mostrato dalle altre comete nella stessa regione di spazio, anche se non eguaglia minimamente quello che  presentò la  C/1995 O1 (Hale-Bopp) che raggiunse un indice di ben 10 chilometri ( un milione di centimetri) .
Stando alle ultime misurazioni disponibili, solo la produzione dei gas è aumentata significativamente dal 3 novembre, mentre la produzione di polveri è ancora piuttosto bassa per essere già entro l’orbita terrestre.
Intanto giungono voci su una possibile biforcazione della coda, mentre questa ha raggiunto già 1300000 chilometri di estensione.

Restate sintonizzati e Cieli Sereni …

L’indice Af[rho] delle comete

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C/2012 S1 (ISON)  fotografata dall'astrofotografo Damian Peach il 27 ottobre 2013. Credit: Damian Peach

C/2012 S1 (ISON) fotografata dall’astrofotografo Damian Peach il 27 ottobre 2013. Credit: Damian Peach

La luminosità di ogni cometa aumenta quanto più questa si avvicina al Sole in proporzione al degassamento e vaporizzazione dei suoi componenti volatili. Per questo seguendone l’evoluzione nel tempo e confrontandola con la sua orbita, si possono ragionevolmente stilare delle previsioni.

Per esempio si possono confrontare i dati attuali della C/2012 (ISON) con quelli di altre comete del passato e provare a fare delle inferenze circa il suo comportamento attuale e futuro. Per questo viene usato un indice molto particolare e sconosciuto ai più che consente di studiare meglio il comportamento e l’evoluzione nel tempo di una cometa.
Questo indice si chiama $Af\rho$, detto anche Af[rho] 1 e prende in considerazione l’albedo $A$ 2, il rapporto fra la superficie occupata dalle polveri e l’area di campo osservata detto fattore di riempimento (filling factor in inglese) $f$ 3 4 e $rho$ è semplicemente la distanza dal nucleo presa in considerazione sulla lastra (immagine) 5.

L’equazione completa è:

\[

Af\left [ \rho \right ]={\frac{\left(2\Delta R\right )^2}{\rho}}{\frac{F_{com}}{F_{sole}}}

\]
Afρ

Qui $\Delta$ è la distanza geocentrica della cometa in esame (di solito espressa in centimetri), R è la distanza eliocentrica della cometa(di solito espressa in unità astronomiche), $F_{com}$ è il flusso della luce riflessa dalla cometa e $F_{sole}$ è il flusso di radiazione solare a 1 UA 6.
In pratica la quantità $Af\rho$ definisce l’altezza di un cilindro di superficie di base equivalente alla proiezione dell’apertura fotometrica riempita con i grani di polvere. Un valore di $Af\rho$ di 100 centimetri equivale più o meno a 100 chilogrammi di polvere prodotta per secondo.


Note:

Una colorita foresta (di bufale) su Marte

Foreste marziane

Credit:  NASA/JPL/Malin Space Science Systems.

Credit: NASA/JPL/Malin Space Science Systems.

Nonostante che siano passati ben 12 anni da quando il Mars Global Surveyor non risponde più ai comandi da Terra e la missione sia ufficialmente terminata,  in giro ci sono persone che ancora credono che il satellite abbia fotografato una foresta di alberi su Marte e che, nonostante questa evidenza, la NASA abbia messo tutto a tacere.
Questa qui accanto è una immagine ripresa il 19 ottobre 1999 dal MOC (l’originale potete trovarlo qui) e che ho dovuto tagliare  per ragioni di spazio. Qui vediamo delle strutture abbastanza regolari che ricordano sicuramente un po’ la chioma degli alberi, ma che sono oltremodo gigantesche per esserlo, almeno un chilometro di diametro, quanto 95 campi di calcio!
Le immagini che si trovano in giro sono …. verdi, nello spiacevole senso che sono artatamente ritoccate proprio per far credere che il MOC abbia ripreso della vera vegetazione 1, cosa tra l’altro impossibile visto che la camera ad alta risoluzione del MOC era in bianco e nero mentre le altre due, a bassa risoluzione, riprendevano una nel rosso e l’altra nel blu.

Ma cosa sono allora quelle cose che il Mars Global Surveyor ha mostrato?

Credit: Arizona State University/Ron Miller

Credit: Arizona State University/Ron Miller

Semplice: sbuffi di anidride carbonica provenienti dal permafrost ghiacciato di Marte.
Marte è sostanzialmente un pianeta polveroso. i venti marziani in eoni di perenne siccità hanno eroso l’intera superficie del pianeta ricoprendolo di sabbia. Quando il MOC riprese queste immagini era metà ottobre, in piena primavera nell’emisfero sud marziano; la temperatura in quel momento era salita abbastanza da far sublimare il ghiaccio secco  intrappolato nel permafrost sotto un sottile stato di sabbia.
Il risultato è uno sbuffo di sabbia che s’innalza dal suolo e che ricade per un raggio di diverse centinaia di metri come l’artista Ron Miller ha magistralmente illustrato nel suo disegno.

 Questa immagine dalla High Resolution Imaging Science Experiment (HiRISE) montata sul Mars Reconnaissance Orbiter mostra il risultato dei geysers di polvere descriti nell'articolo.  di una zona 1,2 km di larghezza. Credit: NASA/JPL-Caltech/University of Arizona

Questa immagine dalla High Resolution Imaging Science Experiment (HiRISE) montata sul Mars Reconnaissance Orbiter copre una zona 1,2 km di larghezza e mostra il risultato dei geysers di polvere descriti nell’articolo. Credit: NASA/JPL-Caltech/University of Arizona

A maggior conferma di questi geysers di polvere è il fatto che nell’arco di poche ore essi sono  già estinti e lasciano sul terreno dei giganteschi arabeschi che con molta fantasia possono sembrare chiome di alberi spogli o ragni adagiati al suolo, oppure più semplicemente dei cumuli effimeri di polvere non ancora spazzati via da qualche tempesta di sabbia.

Il cielo marziano

Un altro teorema che coinvolge il Pianeta Rosso 2 è il colore del cielo che le immagini dal suolo riprese dalle varie sonde -Viking, Sojourner, Opportunity e Curiosity, tanto per citarne alcune – e diffuse dai centri di controllo missione appare ocra, giallastro o grigio e mai blu come sulla Terra 3 . Il motivo è assai semplice e un po’ si riallaccia con quanto ho detto sopra: Marte è un pianeta polveroso e la sua atmosfera è impregnata di questa polvere tanto da conferire questa tipica colorazione al cielo, un po’ come quando si segue una gara di rally su terra battuta e osserviamo il panorama attraverso le nuvole di polvere alzate dalle macchine. Questo perché la polvere diffonde la luce in maniera alquanto diversa dalle molecole dell’atmosfera dove comunque vale lo Scattering di Rayleigh 4.

Il cielo vicino al Sole sembra più blu nelle immagini da Marte, perché la polvere in "forward-scatter" luce blu aria, in altre parole ci vuole la luce blu dal Sole e si concentra più verso la macchina fotografica. Il cielo vicino al Sole sembra più blu, e più lontano sembra più rosso. Luce che si riflette sulle rocce possono anche soffrire di tutti i tipi di squilibri colore troppo. Credit: Wikipedia

Su Marte Il cielo vicino al Sole appare un po’ più blu perché la polvere diffonde la luce blu dell’aria. Il cielo vicino al Sole sembra più blu, e più lontano sembra più rosso. Queste luci influenzano i colori percepiti nell’ambiente marziano.
Credit: Wikipedia

Per le particelle le cui dimensioni sono paragonabili o superiori alla lunghezza d’onda incidente vale lo Scattering di Mie 5, che diffonde in egual misura tutte le lunghezze d’onda della luce incidente.
Questo fenomeno altera e appiattisce tutti i colori 6, mentre le immagini che ormai siamo abituati a vedere sono frutto del sapiente bilanciamento delle varie riprese con filtri diversi che, a seconda dello scopo per cui sono progettate le varie fotocamere, spaziano dal violetto all’infrarosso.
Per questo i colori, che sono comunque il più vicino possibile ai colori reali 7 appaiono comunque sempre un po’ alieni. Dopotutto Marte è pur sempre un pianeta ancora a noi alieno!


Note:

Gli spettri in cucina

… ovvero come ottenere luce monocromatica divertendosi. 
Questo articolo non è un trattato di spetttroscopia, ma vuole spiegare in maniera divertente i principi fisici che ne sono alla base. In seguito potrà essere utile per capire perché certi fenomeni ci appaiono di un colore piuttosto che un altro, come ad esempio le aurore polari, così comuni nei pressi dei poli in questo periodo, che assumono talvolta i colori rosso, verde o violetto.

Prendete un po’ di questa roba:

  • cloruro di sodio (NaCl, sale da cucina)
  • cloruro di potassio (Kcl, sale dietetico per ipertesi)
  • cloruro di calcio (CaCl2, sale antigelo)
  • solfato di rame (CuSO4, si trova in qualsiasi negozio di giardinaggio)
  • un banale pezzo di sughero (un tappo da bottiglia va benissimo)
  • un ago da cucire piuttosto robusto
  • un fornello a gas
  • un bicchiere d’acqua

ago esperimentoBene. Ora infilzate il tappo con l’ago come in figura, così eviterete di scottarvi le dita durante l’esperimento. Se avete acceso il fornello, è il momento che bagnate la cruna del vostro nuovo utensile nell’acqua per poi immergerlo nel sale da cucina.
Ora, tenendolo per bene dalla parte del sughero, esponete la cruna dell’ago alla fiamma. Dovreste vedere adesso la fiamma cambiare colore e sprigionare un intenso giallo brillante.
Ripetete il processo con gli altri composti chimici: il solfato di rame vi darà una intensa fiamma verde, il cloruro di potassio una fiamma lavanda, il cloruro di calcio una fiamma rosso-arancione. Potete provare anche altri composti, come il cloruro di stronzio, carbonato di sodio, carbonato di calcio 1 per vedere il diverso colore sprigionato dalla fiamma al loro contatto 2.

Gli elementi metallici dei composti liberano un colore caratteristico quando vengono riscaldati da una fiamma. Quando gli atomi di un gas o di un vapore vengono eccitati, per esempio col riscaldamento come in questo caso o mediante l’applicazione di un campo elettrico come avviene nelle lampade a scarica, i loro elettroni acquistano energia e passano a uno stato energetico superiore o addirittura sfuggono dagli orbitali più esterni. Essendo questa una condizione instabile, appena l’energia acquisita viene a mancare questi elettroni decadono sul loro piano orbitale precedente – e/o riacquistano gli elettroni precedentemente persi – ed emettono energia luminosa, ossia fotoni. La lunghezza d’onda – il colore – è caratteristico quindi per ogni tipo di atomo e dal grado di eccitazione elettronica raggiunta.

Quando sentite parlare di elementi nelle stelle, ricordatevi questo esperimento: ogni elemento chimico e ogni composto ha la sua particolare firma nello spettro elettromagnetico che non ricade necessariamente nello spettro di luce a noi visibile. Quando gli atomi passano da uno stato fondamentale a uno eccitato assorbono energia (fotoni) corrispondenti a specifiche lunghezze d’onda che corrispondono all’energia necessaria agli elettroni per fare quel determinato salto quantico. Le righe scure che si osservano negli spettri stellari 3  sono dovute proprio a questa sottrazione di energia dall’emissione continua di Corpo Nero sottostante e ci appaiono scure. Al contrario, quando gli atomi tornano verso il loro stato fondamentale emettono luce come ho spiegato sopra e si parla di righe di emissione, tipiche dei gas caldi e rarefatti delle nebulose planetarie quando questi si ricombinano .


Note:

Il Canto delle Stelle

“Quid?, hic – inquam – quis est, qui complet aures meas tantus et tam dulcis sonus?” “Hic est – inquit – ille, qui intervallis coinunctus imparibus, sed tamen pro rata parte ratione distinctis, impulsu et motu ipsorum orbium efficitur et acuta cum gravibus temperans varios aequabiliter concentus efficit; nec enim silentio tanti motus incitari possunt, et natura fert, ut extrema ex altera parte graviter, ex altera autem acute sonent. (Somnium Scipionis, 18)
“Ma che suono è questo, così intenso e armonioso, che riempie le mie orecchie?” “È il suono”, rispose, “che sull’accordo di intervalli regolari, eppure distinti da una razionale proporzione, risulta dalla spinta e dal movimento delle orbite stesse e, equilibrando i toni acuti con i gravi, crea accordi uniformemente variati; del resto, movimenti così grandiosi non potrebbero svolgersi in silenzio e la natura richiede che le due estremità risuonino, di toni gravi l’una, acuti l’altra”.

Nella teoria pitagorica, il tessuto dell’Universo era composto da ritmi, numeri e proporzioni. Secondo il filosofo GiamblicoPitagora possedeva il dono di udire l’armonia musicale 1 degli astri 2. Pitagora fu colpito dalla proporzionalità matematica delle note emesse da una corda in vibrazione e la sua lunghezza 3, e si convinse che la stessa armonia governava le leggi cosmiche. Fino alla rivoluzione copernicana, filosofi e scienziati hanno speculato sulle proprietà matematiche dei sette pianeti allora conosciuti 4 associando ad essi una diversa nota musicale 5.

Con l’avvento della scienza moderna, la rivoluzione copernicana e il Metodo Sperimentale di Galileo, tutte le elucubrazioni filosofiche sulla musica delle sfere finirono. Finalmente fu compresa la reale natura del suono 6 e leggi della sua propagazione.

Questo è lo schema fondamentale di ogni ricevitore (li costruivo a 14 anni).  Dalla radiolina al radiotelescopio, il principio è esattamente lo stesso.

Questo è lo schema fondamentale di ogni ricevitore radio (li costruivo a 14 anni). Dalla radiolina al radiotelescopio, il principio è esattamente lo stesso.

E con Maxwell e l’elettromagnetismo si scoprì che alcuni fenomeni piuttosto comuni (la luce, il magnetismo e l’elettricità) erano diversi aspetti di un’unica cosa: la radiazione elettromagnetica. Questo aprì la strada alle invenzioni che avrebbero cambiato gli ultimi cento anni: il telefono e la radio. Queste invenzioni si basano sulla capacità di trasportare informazioni a bassa frequenza (audio e/o video) su un segnale elettromagnetico ad alta frequenza che si propaga a grande distanza senza un qualsiasi mezzo apparente che ne faccia da tramite 7.

Nel 1930 l’ingegnere della Bell Telephone Company Karl Jansky scoprì le emissioni radio provenienti dal centro della Via Lattea e in seguito molti altri continuarono le sue ricerche. A parte l’intervallo della Seconda Guerra Mondiale che assorbì quasi tutte le risorse economiche e molti scienziati nella guerra, le ricerche sui segnali radio extraterrestri continuarono. Anzi, molte scoperte e invenzioni fatte proprio durante il conflitto (il radar, i computer e l’ingegneria elettronica) furono fondamentali per lo sviluppo della nuova branca scientifica chiamata radioastronomia.

Adesso finalmente riusciamo a sentire il Canto delle Stelle.


Note:

Elucubrazioni matematiche

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Lungi da me l’idea di scrivere un corso sulla Meccanica Celeste, non credo che sarei neppure un mediocre insegnante, per carità, ma sento il dovere di spiegare come ho raggiunto i risultati illustrati nell’articolo scorso. Qualcuno penserà che un articolo simile è come voler spiegare una barzelletta dopo averla raccontata male, io penso invece che dimostrare il proprio metodo sia la cosa che distingue i ciarlatani dagli uomini di scienza, a cui non modestamente ho da sempre aspirato.

kepler II lawNello sorso articolo ho fatto riferimento alla velocità di un corpo all’interno del Sistema Solare.  Non è difficile quanto sembri calcolare questo dato;  basta applicare un po’ di meccanica celeste e via.

L’equazione da me usata è comune per tutti gli oggetti in movimento nello spazio,  siano essi un satellite in orbita,  un pianeta, una cometa o un asteroide:

\[

v=\sqrt{ GM \mult \left ( \frac{2}{d}-\frac{1}{a} \right ) }

\]

dove $G$ è la Costante di gravitazione Universale,  pari a $6,67428 \cdot 10^{-11} \frac{m^3}{kg \cdot s^2}$ e $M$ è la massa del corpo principale (in questo caso il Sole, pari a $1,98914 \cdot 10^{30}kg$) espressa in chilogrammi, supponendo che la massa dell’oggetto in indagine sia trascurabile rispetto a questa.
$d$ è la distanza del baricentro dell’oggetto in esame dal baricentro del corpo principale che occupa uno dei fuochi dell’orbita ed ovviamente è espressa in metri. $a$ invece è il semiasse maggiore e anch’esso è espresso in metri. Ma spesso questa informazione è espressa in U.A.  per cui basta moltiplicare questo valore per $1, 496 \cdot 10^{11}$ metri per avere il dato richiesto.

A puro titolo informativo, anche se non è il caso descritto nell’articolo, per i corpi in orbita ellittica 1 è comune usare un parametro indicato con $e$ per identificare l’eccentricità di un’orbita. In un’orbita ellittica questo parametro non è altro che il rapporto tra la distanza di un fuoco dal centro ed il semiasse maggiore dell’orbita. Per cui basta moltiplicare il semiasse maggiore per $1-e$ per ottenere il periapside (il punto più vicino dell’orbita al fuoco principale),  e per $1+e$ per l’apoapside (il punto più lontano).

In quell’articolo ho citato anche un altro dato: il Limite di Roche, che indica la distanza che un qualsiasi oggetto celeste può raggiungere prima di essere frantumato dagli effetti di marea causati dal corpo verso cui orbita 2. Questo limite è proporzionale alla radice cubica del rapporto tra la densità del corpo principale $\rho_M$ e la densità del corpo secondario $\rho_m$ moltiplicata per il raggio del corpo principale $R_M$ (in questo caso il Sole, pari a $6,96 \cdot 10^{8}$) e un numero fisso approssimato a $2,44$ per i corpi solidi e $2,423$ per i corpi fluidi. Usando appunto quest’ultimo ho notato che i valori a me restituiti erano coerenti con altre osservazioni precedenti di cui ero a conoscenza.

\[

d = 2.423\mult R_M  \sqrt[3]{ \frac {\rho_M} {\rho_m}}

\]

Anche qui i valori delle distanze e le lunghezze sono espresse in metri  mentre le densità per mia comodità sono espresse in $g/cm^{3}$ ma nulla vieta di usare altre scale come $kg/m^{3}$.

Con questo credo di aver finito, altre piccole cose le lascio scoprire a voi lettori che avrete la pazienza di ripercorrere il mio lavoro. Chissà potrei aver sbagliato qualcosa e non essermene accorto!


Note:

Le incerte sorti della C/2012 S1 (ISON)

Non è nel mio costume azzardare previsioni campate in aria. Quello è un compito che lascio volentieri agli ‘strologi e alle migliaia di altri ciarlatani che si nascondono dietro nomi e titoli altrettanto roboanti. Qui mi limiterò a far presente quello che potrebbe andare storto alla cometa C/2012 S1 durante il suo passaggio al perielio.

La cometa C/2012 S1 (ISON) ripresa il 14 settembre da Gianluca  Masi per VirtualTelescope. Qui sono riportate anche le magnitudini di due stelle per la calibrazione visuale.

La cometa C/2012 S1 (ISON) ripresa il 14 settembre da Gianluca Masi per VirtualTelescope.
Qui sono riportate anche le magnitudini di due stelle per la calibrazione visuale.

La C/2012 S1 (ISON) è, come ho già avuto modo di scrivere, una cometa proveniente dalla Nube di Oort al suo primo passaggio attorno al Sole. Purtroppo le stime della luminosità della cometa fatte al momento della sua scoperta si sono rivelate fin troppo ottimistiche: da una magnitudine di -16 al momento del perielio fino all’attuale -4 / -6 attuale.
Tutto questo ha che vedere con la quantità di ghiaccio ed altri elementi volatili sublimati dalla radiazione solare da un certo punto in poi – la famosa linea del ghiaccio -della sua attuale orbita. Ovviamente qui entrano in gioco altri importanti fattori, come le dimensioni, la composizione chimica e la densità 1 [cite]10.1007/978-94-011-3378-4_9[/cite] 2. Le stime più recenti offrono un diametro della C/2012 S1 pari 4.5 -5 chilometri, per cui il volume potrà essere tra 1 (se fosse una specie di grossa patata allungata) e 65 chilometri cubici (se fosse uno sferoide) 3.
La composizione chimica la si può rilevare attraverso una analisi spettroscopica dei gas espulsi nella chioma, ma anche questo è solo un dato parziale: la composizione chimica della chioma varia significativamente lungo il percorso orbitale, alcuni elementi -come il metanolo o la più semplice anidride carbonica – sublimano a temperature e pressioni molto diverse da quelle dell’acqua, e anche l’albedo totale della cometa gioca un ruolo significativo nella temperatura superficiale dell’astro.
La C/2012 S1 si è formata presumibilmente in una zona dove l’influenza gravitazionale del Sole – nella Nube di Oort – è bassissima. Lì raggiungere l’autosostentamento gravitazionale è facilissimo: non essendoci importanti sollecitazioni gravitazionali come nel Sistema Solare Interno, corpi di pochi centimetri possono rimanere aggregati per molto tempo pur avendo densità molto basse. quindi c’è da aspettarsi che la densità media della C/2012 S1 sia comunque più bassa rispetto alle comete provenienti ad esempio dalla fascia di Kuiper.

La curva di luce prevista per la C/2012 S1 (ISON)

La curva di luce prevista per la C/2012 S1 (ISON)

Da una cometa di densità media molto bassa possiamo aspettarci che manifesti un’intensa attività del nucleo a distanze molto maggiori dal perielio rispetto alle comete più dense 4. Infatti, man mano che la C/2012 S1 si avvicina al Sole, la sua attività rimane grossomodo costante, in linea comunque con il corpo eccezionale qual è.
Semmai appunto è stata l’insolita attività manifestata quando era molto lontana a far sovrastimare le sue capacità al perielio.

Ma cosa succederà al perielio?
Gran bella domanda. Nel giro di 25 giorni – dal 6 ottobre al 1 novembre – la C/2012 S1 avrà attraversato la distanza che separa l’orbita di Marte da quella della Terra alla velocità compresa tra 32 e i 40 km/s e, nell’arco di altrettanti 27 giorni arriverà a sfiorare il Sole a soli 1,2 milioni di chilometri dalla superficie a una velocità attorno ai 370 km/s, ben entro al suo Limite di Roche 5, che io stimo essere tra i 2 e i 4 milioni di chilometri dal centro del Sole, in base appunto alla densità della cometa 6.

A questo punto tutti gli scenari sono aperti: se la cometa sarà abbastanza compatta resterà entro il Limite di Roche per circa 2 ore, forse abbastanza poco per non essere distrutta, mentre nell’altro caso estremo sarà sottoposta alla violenza mareale del Sole per oltre 6-7 ore, forse troppe per uscirne indenne. Conoscere anche la forma geometrica e la rotazione assiale della cometa sarebbero importanti per prevederne le sorti, ma sono dati purtroppo ancora sconosciuti.

Cosa accadrà alla cometa C/2012 S1(ISON) al momento del suo passaggio al perielio lo sapremo solo dopo il 28 novembre; per ora i dati che ho sono troppo pochi e arrivare fin qui non è stato affatto semplice. Troppe incognite, come massa e densità ho dovuto azzardarmele, mentre la forma, la composizione chimica, la percentuale di polveri solide e altri fattori che hanno un ruolo importante nell’esistenza della cometa mi sono sconosciute.

Ringrazio Euclide, Pitagora, Keplero e Roche per l’uso poco ortodosso che ho fatto della loro matematica per raggiungere questi risultati.


Altre citazioni:


Note: