In questi giorni sul Web è tutto un fiorire di annunci roboanti del tipo “La Terra al collasso climatico …” e così via. Così sono andato a vedere cosa ci sia dietro, visto che in nome del professore citato non mi era sconosciuto.
È vero, l’allarme che lancia il professore californiano è concreto come più volte anche io denunciato su queste pagine in tempi di certo non sospetti, mo non è nuovo né tanto meno indica la fine del mondo, ma probabilmente per questo è ben più traumatico che aspettarsi più o meno passivamente l’Apocalisse.
È giunto il momento di rimboccarci le maniche tutti, ora e subito, e cercare di cambiare drasticamente il nostro stile di vita, dobbiamo imparare a vivere in punta di piedi sul nostro pianeta dove finor marciavamo con gli anfibi.

Antony D. Barnosky
Chi ha letto veramente qualcosa di Anthony D. Barnosky sa che non è nuovo nel lanciare l’allarme – peraltro giustificato – sui concreti rischi che l’eccessivo sfruttamento delle risorse planetarie a opera dell’uomo ha sulla civiltà umana.
Barnosky è professore di biologia integrativa presso l’università della California e autore del libro Heatstroke, uscito nel 2009.
Già in quel suo libro – e in molte altre sue pubblicazioni scientifiche 1 – Antony Barnosky cercava già allora di spiegare come l’attività umana sia – in gran parte – responsabile del Riscaldamento Globale che sta modificando in modo radicale e imprevedibile l’intero ecosistema planetario.
Nell’immaginario collettivo il riscaldamento globale è subito associato ai ghiacciai artici che scompaiono, ai sempre più violenti fenomeni atmosferici 2 etc., ma esiste anche un altro aspetto che in genere viene dimenticato: la minaccia alla biodiversità.
La realtà del riscaldamento globale significa che la natura così come lo conosciamo – le specie che amiamo, i servizi degli ecosistemi che ci sostengono, i luoghi selvatici dove cercare conforto – è sotto assedio come è mai accaduto prima. Oltre ad aggiungere il peso di altre minacce ecologiche a lungo riconosciute, il riscaldamento globale sta influenzando la natura in forme prima inimmaginabili e potenzialmente letali, non solo per le innumerevoli specie, ma per interi ecosistemi.
È scoraggiante cercare di salvare la natura in queste circostanze, sapendo che può essere alla nostra portata se agiamo adesso.
Dovremmo rallentare le emissioni di gas a effetto serra e attuare nuove filosofie di conservazione e politiche che riconoscono che noi, insieme a tutte le altre specie viventi viviamo in un mondo globale.
Nature in the hot seat, Antony D. Barnosky |
Barnosky ricorda nel suo libro come possa essere più probabile che il cambiamento climatico spazzi via interi gruppi di specie viventi che riesca a crearne di nuovi. Molte specie animali e vegetali che si sono evolute nel corso di centinaia di migliaia di anni seguendo sempre gli stessi ritmi adesso devono confrontarsi con una realtà ambientale e climatica che in poche centinaia di anni è stata stravolta dall’homo sapiens.
Da qui l’esortazione dello scienziato a cercare di riparare ai danni creati dall’uomo, visto che la scienza e la tecnologia adesso possono consentirlo, finché siamo in tempo per farlo.
L’articolo pubblicato su Nature da Barnosky 3 ricorda come l’impatto antropico negli ultimi 200 anni (dall’inizio della rivoluzione industriale) sia stato devastante per il pianeta più di quanto lo fosse stato prima fin dai tempi dell’ultima glaciazione.
Tutte le grandi estinzioni di massa sono state causate da un improvviso collasso dell’ecosistema che fino ad un attimo prima era perfetto. Ma mentre prima il collasso era causato da eventi naturali improvvisi e violenti come terremoti, meteore o vulcani, che potevano modificare radicalmente il clima e l’habitat di molte specie viventi in brevissimo tempo, adesso è l’attività umana la principale responsabile dell’attuale pericolo per il pianeta.
Il quasi azzeramento dei ghiacci artici e la perdita dei ghiacciai perenni che ancora 3000 anni fa ricoprivano circa il 30% delle terre emerse, è il prodotto del riscaldamento globale del pianeta 4, mentre ormai quasi la metà delle terre emerse è sfruttato in qualche modo dall’uomo.
Questo gigantesco impatto sull’intero ecosistema terrestre comporta notevoli rischi per la sopravvivenza di molte specie animali o vegetali, molte delle quali si sono estinte negli ultimi 1600 anni per colpa dell’uomo.
Il rischio reale è che adesso o ci fermiamo a curare le ferite che abbiamo inflitto al pianeta oppure l’intero ecosistema non sarà più in grado di sostenere il peso di una umanità composta da 7 miliardi di individui che divora le risorse finite del pianeta come un parassita 5.
Appelli simili provenienti dal mondo accademico, finora sono stati in gran parte inascoltati dagli organi decisionali internazionali. Proprio oggi un appello 6 a rivedere le priorità del paese è stato rivolto da sei associazioni ambientaliste 7 al Primo Ministro italiano Mario Monti in vista del prossimo vertice internazionale di Rio +20, ma purtroppo molto probabilmente a parte di una generica risposta di circostanza alle parole non seguiranno i fatti, visto che per rilanciare un generico Piano di Sviluppo c’è al governo anche chi pensa – irresponsabilmente – di accorciare l’attuale limite delle 12 miglia nautiche a 5 per le trivellazioni petrolifere offshore 8.
Come spesso ho detto su queste pagine non è possibile immaginare un progetto di crescita materiale infinita in un sistema finito quale lo è un pianeta. Il concetto principale dell’attuale economia planetaria, il PIL (Prodotto Interno Lordo), non può crescere indefinitamente senza provocare un danno irreversibile all’intero habitat terrestre. Occorre che l’Umanità se davvero tiene a sé stessa e alla sua esistenza si dia altri obbiettivi e diversi traguardi da raggiungere.
Altrimenti che continui a farsi male così, ascoltando vecchi ciarlatani ossessionati dalla ricchezza materiale che neppure più sanno a cosa serve il PIL, sperando che poi impari a nuotare in fretta …