Anno: 2012
Addio a Rita Levi-Montalcini
Anche qui sto male.
Non vorrei raccontare di questi tristi momenti ma credo che un posticino lo meriti anche Lei.
E’ morta la Premio Nobel per la medicina Rita Levi-Montalcini.
Il Nobel le fu assegnato nel 1986, 35 anni dopo aver scoperto il Nerve growth factor, una proteina che promuove la crescita delle cellule nervose.
Rita Levi-Montalcini si laureò in medicina nel 1936 e per tutto il periodo bellico della II Guerra Mondiale i suoi studi furono alquanto discontinui per motivi di persecuzione religiosa.
Nel settembre del 1946, Levi-Montalcini accettò un incarico semestrale presso la Washington University di St. Louis , sotto la supervisione del professor Viktor Hamburger, dove vi rimase poi però per trent’anni.
Fu proprio lì che compì il suo lavoro più importante: riuscì a isolare il fattore di crescita nervoso (NGF) osservando come alcuni tipi di cellule tumorali riescono a causare una crescita estremamente rapida delle cellule nervose.
Forse però per molti è ricordata come la distinta Senatrice che votò sempre la fiducia al governo durante la XV Legislatura della Repubblica Italiana ricevendo in cambio epiteti poco signorili e insulti da molti membri dell’allora coalizione di opposizione.
Io invece preferisco ricordarla così, come Donna e Scienziato che non ha mai abbassato la testa di fronte a tutte le avversità che ha incontrato nei suoi 103 anni.
La Zona Circumstellare Abitabile delle altre stelle
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Abbiamo visto nello scorso articolo 1 come si quantifica in linea di massima la Zona Circumstellare Abitabile del Sole, un passaggio importante, se non obbligato, per comprenderne il significato. Ma come si stima una Zona Goldilocks attorno ad un’altra stella?
In realtà è molto più semplice di quanto si pensi, bastano le quattro operazioni elementari, sapere cosa siano la radice quadrata di un numero e un logaritmo, e un po’ di pazienza.
Innanzitutto occorre stimare quanta energia emette una stella, cosa non poi così difficile come può sembrare.
Si parte calcolando la magnitudine assoluta 2 della stella in esame.
L’equazione nuda e cruda che lega la luminosità apparente e la luminosità assoluta è questa:
\[
M_v = m_v – 5 * \log{\left(\frac{D}{10}\right)}
\]
dove $M_v$ e $m_v$ sono le magnitudini visuali, cioè come sono percepite le luminosità dall’occhio umano 3, mentre D è la distanza espressa in parsec (3,26 anni luce).
Detta così dice poco, ma per fare un esempio prendiamo il nostro Sole, la cui magnitudine apparente è di -26,75 e distante 0,000004848137 parsec:
\[
Mv = -26,75 – 5 * \log{\left(0,000004848137/10\right)}
\]
\[
Mv = -26,75 – 5 * \log{\left(0,00004848137\right)}
\]
\[
Mv = -26,75 – 5 * -6,31442
\]
\[
Mv = -26,75 –31,57212
\]
\[
Mv = 4,82212
\]
mica è difficile!
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Ma purtroppo la magnitudine assoluta calcolata si riferisce solo alla luce visibile così come noi la percepiamo, mentre le stelle emettono energia in uno spettro infinitamente più ampio che dipende dalla loro temperatura superficiale 4.
Allora perché si riesca a tenere conto di tutta l’energia emessa da una stella occorre correggere il dato visuale di conseguenza. Il primo passo consiste nell’applicare la Correzione Bolometrica ($BC$) da cui poi si giunge alla luminosità assoluta:
\[
M_{bol} = M_v + BC
\]
Dove $M_{bol}$ è la magnitudine bolometrica assoluta, $M_v$ come sopra e $BC$ la costante di correzione bolometrica (in linea di massima possiamo usare i valori della tabella qui accanto).
Sempre riferendosi alla nostra stella il valore di $BC$ è -0,08, per cui sviluppando l’equazione precedente abbiamo:
\[
M_{bol} = 4,82 + -0,08 = 4,74
\]
che è appunto la magnitudine bolometrica assoluta del Sole.
Ora trasformiamo la magnitudine bolometrica assoluta ricavata sopra in unità solari per maggiore praticità e comprensione. In questo modo la Fascia Goldilocks ci verrà restituita in unità astronomiche.
\[
\frac{L_{Stella}}{L_{Sole}} = 100^{\left[\frac{M_{bolStella} – M_{bolSole}}{-5}\right]}
\]
Per il Sole questo rapporto è ovviamente 1 , ma vedremo presto come si applica alle altre stelle.
Un ottimo metodo di calcolo della CHZ fu messo a punto da Daniel Whitmire, James Kasting e Ray Reynolds nel 1992 e poi rivisto negli anni successivi. Questo studio tiene conto di diversi parametri come la chimica atmosferica, l’albedo etc., si riassume in due costanti che, usate ai denominatori di queste equazioni, restituiscono una stima abbastanza affidabile delle dimensioni della Zona Goldilocks per le varie stelle espresse in UA:
\[
r_{i} =\sqrt {\frac{L_{stella}}{1,1}} \Longleftrightarrow r_{o} =\sqrt {\frac{L_{stella}}{0,53}}
\]
Il raggio limite interno che rappresenta il confine più caldo è dato dalla prima equazione nel valore di $r_i$, mentre il limite più esterno e più freddo è dato dalla seconda in $r_o$.
Se provassimo ad applicarlo per il Sistema Solare, allora avremmo $r_i=\sqrt{1/1,1}=0,95$ e $r_o=\sqrt{1/0,53}=1,37$, un po’ diversi da quelli del precedente articolo che non teneva assolutamente conto dell’albedo e dell’atmosfera, ma non poi così tanto.
Adesso proviamo un esempio pratico. è notizia di questi giorni che sia stato trovato un sistema planetario attorno alla stella $\tau$ Ceti 5, una delle stelle a noi più più vicine, solo 11,89 anni luce e di $m_v$ 3,50 6.
\[
M_v=3,5 -5 * log{\left(\frac{\left(11,89/3,26\right)}{10}\right)} = 3,5 – -2,19 = 5,69
\]
\[
M_{bol}=5,69+(BC=-0,21) = 5,48
\]
\[
\frac{L_{\tau Ceti}}{L_{Sole}} = 100^{\left[\frac{5,48 – 4,79}{-5}\right]}\approx {0,529}
\]
\[
r_{i_\tau Ceti} =\sqrt {\frac{0,529}{1,1}}=0,694 \Longleftrightarrow r_{o_\tau Ceti} =\sqrt {\frac{0,529}{0,53}} =0,999
\]
Anche se questi numeri sono solo indicativi, è interessante vedere come non sia poi così difficile cercare di quantificare una fascia abitabile intorno a una stella. La CHZ per $\tau$ Ceti si estende quindi tra le 0,7 e 1 unità astronomica. Chissà, probabilmente aveva ragione Isaac Asimov, il cielo di Aurora è un più aranciato del nostro.
Riferimenti:
Whitmire, Daniel; Reynolds, Ray, (1996). Circumstellar habitable zones: astronomical considerations. In: Doyle, Laurence (ed.). Circumstellar Habitable Zones, 117-142. Travis House Publications, Menlo Park.
La Zona Circumstellare Abitabile del Sole
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Si fa presto a parlare di Zona di Abitabilità, Goldilocks o Riccioli d’Oro intorno ad una stella.
Anche se sarebbe più corretto parlare di Zona Circumstellare Abitabile (CHZ), con queste parole si indica una fascia, sarebbe meglio parlare di guscio, una zona più o meno estesa che si estende intorno alla stella, né troppo vicina e né troppo lontana da garantire un flusso di energia costante da mantenere per eoni l’acqua allo stato liquido.
Ho detto eoni appunto perché il flusso energetico deve essere abbastanza costante nel tempo per dare modo alla Vita di crescere e svilupparsi sul pianeta che ha la fortuna di orbitare in quella zona.
Ma come si fa a calcolare quanto è capiente e quanto è distante una Goldilocks dal suo sole?
L’energia emessa da un corpo nero 1 dipende esclusivamente dalla quarta potenza della temperatura moltiplicata per la costante di Stefan-Boltzmann che vale $5,67 \cdot{10^{-8}} W/m^2 K^4$ e indicata con la lettera greca $\sigma$ (sigma).
Quindi proviamo a calcolare l’area del Sole:
\[
4 \cdot \pi \cdot {6,96 \cdot 10^{8}}^2= {6,087 \cdot {10^{18}} \ \ m^2
\]
Adesso è possibile calcolare per la temperatura superficiale del Sole, 5778 Kelvin, l’energia emessa in watt per ogni secondo dal Sole:
\[
{6,087 \cdot{10^{18}} \cdot 5,67 \cdot{10^{-8}} \cdot 5778^ 4 = {3,85 \cdot{10^{26}
\]
Una cifra veramente astronomica, magari insignificante rispetto a molte altre stelle 2 come Sirio, Canopo o Vega, da cui dipende però la nostra vita e che è necessario conoscere per i passaggi successivi.
Si è detto che dunque la Zona Goldilocks è quel guscio attorno alla stella in cui l’acqua si presenta allo stato liquido, per cui considerando una pressione ambientale di 100 kPa (una atmosfera) come sulla Terra, l’acqua è liquida in un intervallo di temperature compreso tra 0 e 100° C, ovvero tra 273,15° K e 283,15° K.
Calcolando quindi a quale distanza dalla sorgente di radiazione di corpo nero si ha l’equilibrio per queste due temperature – tralascio i passaggi di mero calcolo per evitarvi il mal di testa, si ottiene una Zona Goldilock compresa tra 0,55 e 1,04 UA. La Terra senza un po’ di effetto serra atmosferico sarebbe molto più fredda.
Ma questo intervallo di temperature non è poi così corretto.
Il vapore acqueo ha un potenziale serra molto alto. La Terra si trova in un’orbita di equilibrio termico appena al di sopra del punto di congelamento dell’acqua (278° K). Questo significa che l’emissione radiativa 3 del pianeta cade nell’infrarosso, proprio dove alcuni gas, vapore acqueo, metano e anidride carbonica assorbono e riemettono di più, trattenendo di conseguenza questa radiazione. Questo fa crescere la temperatura reale fino a 20° C di media. Ma se questa arrivasse a soli 40° C, l’evaporazione dell’acqua innescherebbe un effetto valanga capace di portare la temperatura fino a livelli incredibilmente alti; più o meno quello che è successo al pianeta Venere.
Inoltre alcune zone della Terra presentano condizioni di temperatura ben al di sotto del punto di congelamento dell’acqua, pertanto una temperatura di -10° C (263° K) può essere considerata tollerabile per la vita, anche in virtù delle probabili sorgenti di calore endogeno localizzate originate dal decadimento radioattivo delle rocce di cui un pianeta è composto.
Con questi nuovi valori, la Zona Goldilocks del nostro Sistema Solare può estendersi ragionevolmente tra le 0,8 e 1,2 AU dal Sole, è proprio una fortuna esserci capitati proprio in mezzo.
Comunque sono molti i fattori che incidono sulla temperatura effettiva di un pianeta: la composizione chimica dell’atmosfera, l’albedo alle lunghezze d’onda dove la stella ha il picco di emissione, il calore endogeno, solo per citarne alcuni più importanti. Questo potrebbe ampliare – o magari ridurre – anche di molto l’estensione della Zona Goldilocks, tant’è che magari un pianeta grande il doppio del nostro potrebbe essere abitabile anche nell’orbita di Marte.
Per uno sciame che va un’altro se ne viene, forse.

La cometa 46P/Wirtanen responsabile dello sciame. Photo credit: T. Credner, J. Jockers, T.Bonev / Max-Planck-Institut fur Aeronomie
In questi giorni uno sciame meteorico incrocia l’orbita della Terra: le Geminidi 1, e come dice il nome, il suo punto radiante è nella costellazione dei Gemelli.
Le Geminidi sono originate da un oggetto alquanto strano: 3200 Phaethon (3200 Fetonte). Scoperto dal compianto telescopio infrarosso IRAS nel 1983, 3200 Fetonte 2 è classificato come asteroide Apollo 3 ma il suo perielio è addirittura inferiore all’orbita di Mercurio!
Forse per le grandi forze mareali del Sole, forse per uno scontro avvenuto al di là dell’orbita di Marte o forse, più semplicemente, perché è solo il nucleo solido di una antica cometa ormai estinta, fatto sta che 3200 Fetonte si sta disintegrando, tant’è che le Geminidi fra qualche centinaio di anni si saranno estinte.
Ma per uno sciame che scompare eccone un altro che arriva: ancora non ha un nome, anzi ancora non si è vista una meteora, o forse sì, proprio in queste sere.

La 46P/Wirtanen sarà la protagonista del mese di dicembre 2018, quando passerà velocemente tra Aldebaran e le Pleiadi ad appena 10 milioni di chilometri dalla Terra.
Credit: Il Poliedrico
L’origine di questo – per ora teorico – sciame è la cometa periodica 46P/Wirtanen, scoperta solo nel 1948 e probabile obiettivo di una futura missione spaziale 4
Il periodo di questa cometa è di 5,4 anni e il suo perielio è curiosamente appena fuori all’orbita terrestre. La causa di questo perielio così ampio è dovuto ai ripetuti passaggi nei pressi di Giove che di fatto ha reso caotica l’orbita di 46P/Wirtanen.
Nonostante i ripetuti passaggi ravvicinati della Terra nei pressi del nodo ascendente dell’orbita della cometa, finora non erano mai state osservate meteore riconducibili a questo radiante, ma stando alle simulazioni orbitali del cacciatore di meteore russo Mikhail Maslov quest’anno la Terra dovrebbe intersecarne la coda dei detriti tra il 10 e il 14 dicembre.
Mentre il radiante delle Geminidi è sopra l’orizzonte per tutta la notte, il nuovo sciame – se ci sarà – sarà visibile solo nelle ore prima della mezzanotte.
Anche lo sciame sarà particolare: la ZHR previsto è solo di 30 meteore per ora con una velocità di ingresso molto più bassa delle Geminidi 5, il cui ZHR è previsto di 120.

I due radianti degli sciami meteoritici di cui si parla nell’articolo alle ore 20:00 UTC per il meridiano di Roma.
Credit: Il Poliedrico
Ora freddo e nubi permettendo, con la Luna Nuova e il cielo non inquinato dalle luci dei centri urbani, comunque vada lo spettacolo meteoritico è assicurato per venerdì 14 e le prime ore di sabato 15.
Cieli Sereni
Il magnetismo dei mantelli planetari
Il ruolo del mantello nei pianeti rocciosi viene spesso sottovalutato. Adesso è giunto il momento di riconsiderare la loro importanza nello sviluppo di un pianeta.
Si suppone che i mantelli dei pianeti rocciosi siano, come ci mostra la composizione chimica di quello terrestre, ricchi di magnesio e ossigeno. Quindi studiare i minerali di ossido di magnesio può essere utile per capire l’interno dei pianeti.
Un team guidato da Stewart McWilliams del Carnegie Institute of Science è riuscito a riprodurre le proibitive condizioni esistenti nei mantelli planetari, ovvero pressioni che vanno da 0,3 TPa 1, il doppio della pressione esistente nella zona del mantello inferiore terrestre, fino a 1,4 TPa, condizione questa presente su pianeti molto più grandi della Terra che continuamente oggi scopriamo in orbita ad altre stelle.
Il metodo usato per produrre simili pressioni e temperature è simile a quello sviluppato per i reattori a fusione nuleare chiamato fusione a confinamento inerziale (Inertial confinement fusion, in breve ICF) In questo caso però il bersaglio è composto da molecole di ossido di magnesio, appunto uno dei composti più importanti del mantello.
Particolarmente resistente alle alte temperature e pressioni, l’ossido di magnesio è largarmente utilizzato nell’industria dei materiali refrattari e nei cementi per l’edilizia. Studi teorici mostrano che esso può esistere in natura solo in tre diversi stati: solido alle nostre condizioni ambientali, liquido a temperature elevate (> 3125 K a pressione normale) e un’altra particolare struttura solida che si manifesta a pressioni – e temperature – molto alte, come quelle ad esempio nel mantello di un pianeta.
Quest’ultima struttura però finora non era mai stata osservata prima. McWilliams e il suo team hanno studiato per la prima volta come l’ossido di magnesio si comporta in questi diversi stati scoprendo che il legame molecolare subisce importanti modifiche passando da uno schema simile al cloruro di sodio nella prima forma (B1 nella figura) alla seconda fase solida simile a quella delle leghe metalliche binarie (B2).
Un altro particolare importante è stato osservato nell’ossido di magnesio: questo allo stato fuso – magma fuso – diventa un semiconduttore, mentre al normale stato solido è un isolante naturale. Questa scoperta riflette il comportamento alla fusione di altri non metalli come il carbonio, il silicio e lo zolfo.

Diagramma di fase del MgO: la fase solida B1 e la fase solida B2. I pallini colorati sono i dati ricavati dagli esperimenti. In grigio l’intervallo teorico di transizione previsto dalla teoria a 0 K. Le temperature di fusione sperimentali (6, 7) sono rappresentate dai triangoli bianchi.
Sono inoltre mostrate le condizioni planetarie interne previste per la Terra, quelle ipotizzate per un pianeta di 5 masse terrestri, Giove, e per la massa di un gioviano caldo; la discontinuità nella temperatura (a 1.3 e 6.5 Mbar rispettivamente) nei pianeti di tipo terrestre corrispondono al limite del mantello.
Queste scoperte sono molto importanti e possono aiutare a capire come possono essersi evoluti i pianeti.
Prima che un pianeta si avvii verso la sua fase di differenziazione nota come Catastrofe del Ferro le condizioni fisiche – principalmente temperatura – possono permettere l’esistenza di ossido di magnesio – e di altri non metalli – allo stato fuso, un oceano di magma in grado di generare correnti elettriche e quindi un campo magnetico.
Questo campo magnetico primordiale può pertanto essere abbastanza importante da riuscire a proteggere una atmosfera primordiale generata dal degassamento del magma liquido dall’azione erosiva dei venti stellari che nelle prime fasi della nascita di un sistema solare possono essere particolarmente violenti.
In seguito il campo magnetico generato da un nucleo di ferro fuso differenziato può essere ben più efficace delle correnti elettriche di un unico grande oceano di magma in via di solidificazione e di stratificazione.
Allo stesso modo ancora adesso l’ossido di magnesio nella seconda fase solida può ancora esistere nei mantelli inferiori di esopianeti rocciosi super massicci, generando un campo magnetico che forse il nucleo solido non può generare 2.
Riferimenti:
“Phase Transformations and Metallization of Magnesium Oxide at High Pressure and Temperature,” by R.S. McWilliams et al., Science, 2012.
Published Online November 22 2012
Science 7 December 2012:
Vol. 338 no. 6112 pp. 1330-1333
DOI: 10.1126/science.1229450
I primi risultati di SAM

La – finora – mancata scoperta di molecole organiche complesse e di una chimica del carbonio non deve far perdere la speranza che forse magari nel lontano passato di Marte qualcosa del genere ci sia stato.
Da quando il rover Curiosity è sbarcato sul Pianeta Rosso le sue imprese destano più di una attenzione, l’ultima delle quali riguarda per esempio la scoperta di molecole organiche sul suolo marziano nei campioni analizzati con SAM 1.
Il campione di terreno specifico analizzato da SAM proveniva da un deposito di sabbia e polvere portato dal vento e sabbia che gli scienziati hanno battezzato Rocknest. Questo è stato raccolto nella piana del Gale Crater, ancora piuttosto distante dal Monte Sharp, la destinazione principale di Curiosity, ed è stato scelto come primo campione proprio per la grana fine delle sue particelle che è l’ideale per la pulizia delle superfici interne del braccio robotico.
In realtà come è stato ripetuto più volte dai responsabili della missione Mars Science Laboratory, Curiosity ha forse scoperto solo delle tracce di molecole organiche su Marte.
Nella conferenza stampa del 3 dicembre i responsabili della missione hanno annunciato le scoperte fatte dal rover Curiosity, sottolineando però come i dati finora raccolti meritano ancora indagini per essere confermati; come si dice la prudenza non è mai troppa anche quando questa è snervante.
I dati raccolti mostrano solo un accenno di composti organici 2. Questo non vuol dire affatto che questi abbiano una qualche origine biologica, tutt’altro, molecole organiche si scoprono continuamente negli ambienti più disparati e ostili come le nubi molecolari interstellari, nelle comete e nelle meteoriti, semmai la notizia è che forse su Marte ce ne sono troppo poche. Appunto anche stavolta si sono trovate su Marte tracce dei famosi perclorati – come nel 2008 fece l’altra missione Phoenix. I perclorati, è bene ricordarlo, sono sali di cloro con alto potere ossidante che di fatto pongono seri limiti allo sviluppo di una chimica organica complessa sul suolo marziano, anche se l’area finora esplorata è infinitesimale e questi sono soltanto i primi esperimenti di laboratorio compiuti dal rover.
Gli esperimenti a bordo del Curiosity hanno mostrato tracce di cloro, zolfo e acqua, ma sono necessari appunto altri esperimenti e verifiche per escludere che si tratti di remote ma possibili contaminazioni provenienti dalla Terra.
E a proposito di acqua, analizzata come vapore acqueo dopo aver riscaldato i campioni di suolo marziano, merita sottolineare come il rapporto D/H (deuterio/idrogeno) misurato sia più alto rispetto a quello degli oceani terrestri, indicando forse una diversa origine dell’acqua marziana rispetto a quella terrestre. Anche la quantità di vapore emesso dai campioni riscaldati è leggermente superiore alle attese. Questo non significa affatto che i campioni analizzati fossero umidi, ma solo che le caratteristiche igroscopiche della sabbia marziana sono forse diverse dal previsto.
E allora tutto il fermento dei media alla vigilia della conferenza stampa?
Tutto forse è nato da una dichiarazione di John Grotzinger, geologo del California Institute of Technology di Pasadena e responsabile della pianificazione della missione Mars Science Laboratory, che aveva parlato delle scoperte del Curiosity degne di entrare nei libri di storia, riferendosi però all’intera missione. Qualche giornalista particolarmente eccitato per lo scoop avrebbe poi travisato la frase attribuendole un significato diverso rispetto al discorso originale.
Anche qui è naturale che la NASA usi frasi eccitanti in un momento di ristrettezze economiche che va proprio a colpire i bilanci delle missioni scientifiche spaziali. Un po’ di enfasi ci vuole, no?
Simulazioni
Credit: F. Governato and T. Quinn (Univ. of Washington), A. Brooks (Univ. of Wisconsin, Madison), and J. Wadsley (McMaster Univ.). |
Quando guardiamo il cielo ad occhio nudo vediamo solo alcune centinaia di stelle, forse un migliaio o due se abbiamo la fortuna di osservare da un cielo limpido e scuro.
Ma eccezion fatta per le due Nubi di Magellano (emisfero sud) e la Grande Nebulosa di Andromeda, nessun oggetto extragalattico è visibile. Però oggi abbiamo i telescopi, abbiamo in orbita il telescopio spaziale Hubble che tra qualche anno sarà sostituito dal Webb Space Telescope, che ci restituiscono fantastiche immagini di lontane galassie spettacolari: la Sombrero, la Girandola, la stessa Galassia di Andromeda, solo per citare alcune delle decine di migliaia catalogate, tutte belle e ognuna diversa dalle altre. Queste però sono solo istantanee come quelle che collezioniamo nei nostri cassetti dei nostri genitori, dei nostri figli, oppure più semplicemente di noi stessi.
Oggi abbiamo anche il cinema, la televisione, che ci mostrano il movimento concreto delle cose quasi come se fossero vive, vere. Quindi come nascono le galassie? Sappiamo come è nato l’Universo, come nascono le stelle, ma le galassie, quelle bellissime girandole del cielo, come possiamo vederne la nascita e l’evoluzione, ben consci del fatto che non possiamo osservare una scena lunga ben oltre la nostra percezione?
Con un’altra invenzione del genere umano: il calcolatore.
Qui sopra vediamo una stupenda simulazione che mostra il presumibile sviluppo di una galassia nell’arco di circa 13,5 miliardi di anni in un universo dominato dall’energia oscura e dalla materia oscura in uno spazio di 300000 anni luce.
La simulazione è stata ottenuta col supercomputer Pleiades, un mostro da oltre 1,2 Pflop/s 1 e 23552 processori, che ha richiesto ben un milione di ore di calcolo.
A confronto il misero Z80 da 4,77 Mhz della metà degli anni ’80 con cui ho iniziato le mie esperienze informatiche era davvero ben poca cosa. Eppure anche quel trabiccolo poteva fare il suo. In fondo l’algoritmo di base era lo stesso della simulazione qui sopra: il problema degli n-corpi.
Infatti uno dei programmi che feci girare sul mio MSX fu proprio un simulatore di galassie in collisione originariamente scritto da M. C. Schroeder e Neil F. Comins che apparve sul numero del dicembre 1988 di Astronomy Magazine.
Il programma in linguaggio interpretato Basic, ripubblicato anche su una rivista italiana, andava rivisto per ognuno dei centinaia particolari dialetti del linguaggio esistenti, tutti prettamente incompatibili fra loro coi loro diversi standard di allocazione della memoria 2, delle periferiche, dei sistemi di archiviazione di massa, spesso registratori a cassette.
La mia versione è orma perduta ma sono riuscito lo stesso a rintracciarne una simile qui: galaxy.bas.
Spesso crediamo che solo mostri da miliardi di operazioni al secondo possono compiere queste simulazioni. Questo è vero se si vogliono ottenere delle simulazioni particolarmente accurate come quella qui sopra ma anche i personal computer che usiamo tutti giorni per leggere la posta elettronica e sbirciare Facebook possono fare moltissimo per ottenere risultati altrettanto interessanti.
L’alchimia della vita
Sono molti i parametri che debbono essere presi in considerazione per poter considerare un esopianeta potenzialmente abitabile. Per inciso è giusto ricordare che anche se un pianeta può superare l’esame di tutti gli indici possibili non significa necessariamente che questo possa essere adatto ad ospitare forme di vita, come un pianeta può benissimo possedere un proprio ecosistema vitale pur avendo indici completamente diversi da quelli sin qui considerati.
Questo perché finora sappiamo di un solo pianeta che ospita la vita su cui possiamo calibrare le nostre conoscenze, il nostro.
Continua su Progetto Drake: L’alchimia della vita
Deforestazione e Riscaldamento Globale
Purtroppo spesso i media italiani lasciano poco spazio ai veri problemi del pianeta come il Riscaldamento Globale. Anche la politica mondiale preferisce cedere al ricatto del PIL piuttosto che preoccuparsi del futuro del pianeta, e questo è molto più grave.
Secondo il World Carfree Network (WCN), auto e camion rappresentano circa il 14 per cento delle emissioni globali di carbonio nell’atmosfera, mentre molti analisti attribuiscono ad almeno il 15 per cento delle altre emissioni alla deforestazione.
Secondo molti ricercatori, la deforestazione nelle foreste pluviali tropicali aggiunge anidride carbonica in atmosfera più che la somma totale di auto e camion sulle strade del mondo.
La ragione di questa cifra spaventosa è dovuta al fatto che quando gli alberi vengono abbattuti rilasciano carbonio nell’atmosfera, dove si mescola agli altri gas a effetto serra provenienti da altre fonti e contribuendo così al riscaldamento globale 1.
Pertanto è necessario fare altrettanti sforzi per evitare la deforestazione di quanto si faccia per cercare di aumentare l’efficienza dei carburanti e di ridurre l’utilizzo dei combustibili fossili.
«Poiché la produzione di cenere comporterebbe una rapida distruzione di querce, cerri e altri legnami, vietiamo con il presente Statuto che alcuno faccia cenere nel contado e districtus di Arezzo o venda legna a chi voglia farne cenere. Pena 25 lire per ogni contravventore e per ogni volta che sia commesso il delitto; chiunque potrà sporgere la denunzia e muovere l’accusa…» |
Secondo i rapporti dell‘Environmental Defense Fund (EDF), 32 milioni di ettari di foresta tropicale sono stati abbattuti ogni anno tra il 2000 e il 2009, e il ritmo della deforestazione non fa che aumentare.
“A meno di non modificare l’attuale sistema che premia la distruzione delle foreste, il disboscamento immetterà altri 200 miliardi di tonnellate di carbonio nell’atmosfera nei prossimi decenni …“, dice EDF, “Qualsiasi piano realistico sufficientemente veloce per ridurre gli effetti dell’inquinamento e del Riscaldamento Globale per evitare gravi e pericolose conseguenze deve affidarsi anche alla conservazione delle foreste tropicali” 2
Ma è difficile convincere gli abitanti poveri del bacino amazzonico e di altre regioni tropicali del mondo di smettere di tagliare gli alberi, quando queste sono l’unica loro risorsa economica.
“Conservare le foreste ha un costo non indifferente, mentre i profitti che si fanno col commercio di legname e col carbone di legna, nella creazione di nuovi terreni da pascolo o destinati all’agricoltura premono per la riduzione delle foreste“, aggiunge EDF 3.
Inoltre un altro grave problema legato alla deforestazione è la perdita della biodiversità 4: più della metà delle specie vegetali e animali vivono nelle foreste pluviali.
Un modo per aiutare i paesi tropicali a ridurre la deforestazione è attraverso la partecipazione al programma di riduzione delle emissioni e delle deforestazione e degrado forestale delle Nazioni Unite (UN-REDD).
UN-REDD cerca di incentivare le persone – e gli Stati che vi partecipano – a prendersi cura delle foreste e della loro gestione sostenibile.
Gli esempi includono l’utilizzo di minori risorse forestali per le attività agricole come la coltivazione del caffè e la produzione di carne e latte. A questo modo le nazioni partecipanti a questo programma possono accumulare e vendere i crediti di inquinamento come le nazioni industrializzate quando sono in grado di dimostrare di aver abbassato la deforestazione al di sotto di una linea di base.
Il programma UN-REDD ha incanalato più di 117 milioni di dollari 5 di aiuti finanziari diretti e attraverso il sostegno educativo alla riduzione della deforestazione in 44 paesi in via di sviluppo in Africa, Asia e America Latina fin dall’inizio del 2008.
Il Brasile è tra i paesi che grazie a UN-REDD ha compiuto gli sforzi maggiori per ridurre le emissioni di carbonio. Grazie a questo programma il Brasile ha rallentato la deforestazione entro i suoi confini del 40 per cento dal 2008 ed è sulla buona strada per conseguire una riduzione dell’80 per cento entro il 2020.
Il successo iniziale del programma UN-REDD in Brasile fa ben sperare per la riduzione della deforestazione in altre parti dei tropici.
Liberamente tratto da Scientific American 6